Clark è un ragazzo di 18 anni. Vive da solo in una cittadina del Regno Unito, di nome “Bournemouth”, perché i suoi genitori sono degli importanti manager di una band in tour mondiale. Ha tanti amici e i più stretti riferiscono sempre che è una persona con atteggiamenti un po’ insoliti ma che farebbe di tutto per le persone a lui più care. Le sue relazioni passate riferiscono che era davvero un ragazzo affascinante, ma alcuni suoi comportamenti le stranivano; alcune dicono che era possessivo in modo morboso, altre dicono che era impassibile davanti a situazioni anomale, ma tutte dicono sempre la stessa cosa: era come se non provasse alcun tipo di emozione, un cuore di ghiaccio.
Clark è un ragazzo ossessivo-compulsivo.
Ogni mattina si alza, fa colazione con latte e cereali (prima i cereali, poi il latte e poi di nuovo i cereali mescolando il tutto tre volte in senso orario), dopo di che si lava i denti (15 volte spazzola i denti di sopra e 12 i denti di sotto tutte e due le volte dal basso verso l’alto). Non ha bisogno di pettinarsi, quindi non lo fa. Dopo essersi vestito con abiti dello stesso colore (comprese le calze e le mutande) si stende sul divano a guardare la TV sul canale 42 con il volume sempre regolato ad un multiplo di 5.
Ebbene sì, Clark è un ragazzo un po’ strano, o meglio dire un robot un po’ strano. Che poi alla fine rientrava tutto nella norma se si parla di robot, soprattutto della sua età. Clark era un robot da quando aveva memoria, quindi da più o meno sessant’anni, era ancora un adolescente che aveva fretta di crescere. Aveva dei bellissimi capelli neri da umano, occhi grigi da umano e tutto quello che hanno gli umani. Beh, tutto a parte un’anima. Andava alla McLauren High School in tutti gli universi in cui viaggiava…
Ah, sì, la storia del multiverso la devo spiegare. In parole povere Clark poteva cambiare di universo solo schiacciando un pulsante collocato sopra la sua spalla; ogni settimana cambiava universo ma le persone non se ne accorgevano, lui era l’unico. Tutti avevano memorie false di lui create dalla loro coscienza in modo che lui non destasse sospetti e venisse a galla che in realtà era in missione per un’agenzia nello spazio che si occupava di viaggi tra universi. Il suo incarico era quello di documentare le sue esperienze ogni settimana su un taccuino.
L’universo di quella settimana era quello in cui tutti indossavano lo smalto bianco. Certe volte gli universi erano davvero noiosi e per niente speciali. Per fortuna quel giorno era domenica: il giorno preferito di Clark perché il giorno dopo si sarebbe trovato in un universo nuovo.
Il mattino seguente Clark si alzò e proseguì con la sua solita routine quotidiana. Dopo aver finalmente preparato la valigia sollevò il braccio verso la sua spalla sinistra e premette il pulsante.
Confusione. Nausea. Agitazione.
Stordimento. Irrequietezza.
Probabile morte.
Queste sarebbero state le conseguenze dei viaggi tra universi se qualsiasi umano li avesse provati; i robot però non provano emozioni, quindi per Clark era totalmente nella norma. Si ritrovò nello stesso appartamento di tutte le settimane, ma questo non lo sorprese. Cercò di trovare qualcosa di insolito ma non ci riuscì. Prima di uscire all’aperto e scoprire in quale universo fosse capitato, Clark decise di sistemare le sue robe all’interno dell’appartamento, avendo anche la possibilità di esaminarlo con più attenzione. Dopo circa un’ora finì di sistemare.
Quel giorno decise di vestirsi di bianco, si spruzzò un po’ di olio per motori sotto le ascelle già arrugginite dopo l’ultima volta e uscì di casa. Varcò la soglia di casa e lì capì. Capì cosa lo aspettava per un’intera settimana. Cercò di premere di nuovo il pulsante ma non funzionò, era troppo tardi ormai… era in trappola.
Aveva già sentito parlare di quell’universo, ma dalle assurdità che dicevano sembrava una menzogna, una storiella inventata per mettere paura ai bambini robot. Clark passò l’intero pomeriggio a girare per le vie della città, cercando di rassicurarsi, dicendosi che era solo un brutto sogno, anche se quelli come lui non facevano sogni. Solo quando si fece buio Clark si rassegnò.
Doveva accettare la verità. L’Universo 237, anche detto Terra. Spazzatura, plastica, sigarette, alcool, droghe, smog, incendi, inquinamento, natura decimata, leggi razziali, disuguaglianza, crudeltà sugli animali, reati, furti, omicidi, rapine, sfruttamenti, ingiustizia, odio. L’Universo 237 era considerato una leggenda per quanto spaventoso e disumano. Ma eccolo lì, intrappolato in quell’Universo malsano e mostruoso. Clark ritornò a casa a pezzi. Si tolse i vestiti ormai diventati di una strana tonalità di grigio, dovuta allo smog in città e l’aria velenosa. Ad un tratto si ritrovò lì davanti allo specchio con i suoi pensieri.
Come può l’intera vita di un robot cambiare in poche ore? Arrivò alla conclusione che non poteva continuare in quell’Universo per altri sei giorni, sarebbe stata la peggior esperienza della sua vita. Sessantatre anni in età umana ma quindici in età di robot… cavolo sono tanti. Tante grandi esperienze. E pensare che venti ore fa non si sarebbe aspettato tutto questo… di essere arrivato a questo punto.
E allora pensò; pensò ai tanti universi che aveva visitato, alla sua famiglia ormai deceduta da tempo di vecchiaia, a quanto lui in quel momento avrebbe voluto provare anche solo un pizzico di tristezza, un sentimento… Pensò, a proposito, di quanto Clark volesse provare qualcosa per non sentirsi diverso. Pensò a quanto volesse essere un semplice umano con una vita normale. Infine pensò al suo posto preferito: l’universo 921, un universo a parer suo perfetto dove la natura prendeva il sopravvento. C’erano piante e fiori di ogni tipo e colore; animali di ogni specie ed età. E soprattutto regnava il silenzio, il silenzio più totale dovuto alla mancanza di umani.
Clark ritornò alla realtà e decise che ormai era arrivato il momento: sollevò la mano e la sostenne sopra il bottone sulla spalla destra, non sinistra. Sostenne la mano sopra quel piccolo bottoncino blu, il bottone di autodistruzione. In quel momento la sua intera vita gli passò davanti, gli attimi più belli, ma ormai era troppo tardi, doveva farlo, non poteva sopportare di vivere in quelle condizioni.
Alzò l’indice e lo lasciò cadere verso il pulsante, ma pochi attimi prima accadde un evento spettacolare: una piccola, insignificante ma potente lacrima scese dall’occhio di Clark poco prima che chiudesse gli occhi per l’ultima volta. Il corpo di acciaio e titanio del robot cadde a terra privo di sensi. Clark morì nel modo più puro che possa mai esistere per un robot: piangendo.




