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Fascia 16-19
Un sogno chiamato cigno

Durante la mia intera esistenza reputavo che la vita fosse uno di quegli aquiloni variopinti che da piccola riuscivo sempre a farmi sfuggire dalle mani: se la presa fosse stata salda la vita avrebbe continuato ad attraversare le mie vene, se invece mi fossi fatta guidare dalla libertà l’avrei persa per sempre, nel dubbio che questa avrebbe potuto rivelarmi segreti preziosi. Le convinzioni sono sempre state parte di me e le tenevo strette come se fossero delle corde di violino, almeno fino a quel 23 dicembre 2018, il giorno in cui quel filo che tenevo saldo tra le mani si lacerò per non tornare più in vita, come mia sorella. Ricevetti una chiamata sul mio smartphone, attesi pochi secondi prima che quella voce mi straziasse e mi confondesse i sensi: era mia madre, e in quell’istante mi lacerò ogni singola arteria che avevo in petto. «Tua sorella ha spiccato un lungo volo, non è più tra noi.» Esordì così mia madre, che con la voce tremante mi strappò anche l’ultimo istante di vera vitalità. La vita di mia sorella era divenuta così sottile da spezzarsi come la corda del mio violino che non volli più suonare. La mia mente colma di pensieri orridi e troppo impetuosi riversò la cascata dei più temibili terrori nel mio petto; in quel momento sentii il veleno che addormentava il mio passato, un veleno persino più amaro del cianuro con le lacrime che rigavano le gote. Il mio cuore ansimava, probabilmente attraversava una montagna russa, così come l’elettrocardiogramma che avevo avuto l’occasione di provare poche volte: si dirottava verso l’alto e poi spiccava nell’abisso, poi nuovamente puntava in cima al petto, e finalmente decise di arrestare il suo bungee jumping. Come avrei potuto portare onori sulla tomba di una ragazza che possedeva il mio stesso sangue, che sino a quattro ore prima era con me al telefono intenta a risolvere uno dei miei tanti dissapori adolescenziali. Non avrei mai saputo che quello sarebbe stato il suo ultimo «arrivederci», non sapevo che sarebbe stata l’ultima volta per poter ascoltare la sua voce pacata e sonora come il cinguettio di un passerotto che ti scalda il cuore in petto. Non sapevo che quella sarebbe stata l’ultima volta per dirle «Svane torna presto, ti voglio bene!», l’ultima volta per chiamarla con quel soprannome insolito che da piccina mi dilettavo a pronunciare con tanta gioia negli occhi. Avevo perso la parte più vera di me, non so se lei fosse convinta del medesimo pensiero, ma in fondo credo che io avessi ancora bisogno di mia sorella, senza di lei la mia vita aveva perso il battito, e neppure la musica mi avrebbe ridato quel sorriso. Spesso mi chiedevo come fosse spegnere la felicità, e se questo fosse possibile; quel giorno la risposta mi penetrò come un proiettile, faticavo a ricucire la ferita sebbene un giorno sarebbe guarita, dentro di me c’era una emorragia di malinconia e rancore. Mia sorella aveva l’animo di una leonessa, ma l’aspetto di un cigno. Il suo nome era Vanessa, ma per me era semplicemente la mia Svane, che in danese significa cigno. Lei era bella d’animo e bella d’aspetto, gli occhi color smeraldo le illuminavano le lentiggini brune che ricoprivano il suo nasino alla francese. Quel giorno stentavo a credere che non mi sarei più persa nei suoi occhi, non avrei più potuto fantasticare con la mia protettrice, perché lei mi aveva abbandonata, costretta alla crudeltà del mondo che mi rinchiudeva, rendendomi schiava di una convivialità passiva, poiché da quel momento avrei subìto ogni gesto. Ma quella perplessità ridondante era frutto di molteplici dubbi che non trovavano una risposta adeguata. Perché mia sorella mi aveva abbandonata? Quali erano i retroscena che si celavano dietro la sua scomparsa? Vanessa era eloquente, non era uno scrigno di misteri, ma su quello sfondo inquietante compresi cosa ci fosse dietro quel suo sorriso sgargiante, forse una maschera che copriva le sue ansie. In quel momento sentii il petto che si divaricava in due, non metabolizzavo ancora la scomparsa di mia sorella, mia madre non mi aveva neppure raccontato i dettagli. Non seppi più dove rivolgere il mio sguardo, contemplai il nulla cosmico perché era la migliore fonte di distrazione quando il mondo mi cadde addosso. La matita che fino a qualche istante prima tenevo fieramente tra le mani, intenta a giocherellarci per una nuova melodia, giaceva per terra esanime, probabilmente il mio sconforto era stato tale da far fermare il mondo per dieci minuti. Risoluta scrissi le ultime fatidiche parole che mia sorella mi aveva suggerito: «La musica è la nostra medicina, essa ti aiuterà!». Nella mia mente facevano capolino molteplici domande, perché non era solita concludere i discorsi con un apologo mozzafiato, né era solita fantasticare con le metafore. Quel giorno sembrava così tremendamente scritto su un libro del destino per essere vero, ma un pensiero insulso invase i miei sensi: mia sorella aveva tentato in tutti i modi di darmi delle tracce, voleva che io sapessi qualcosa di cui la mia mente era ignara. Senza ulteriori paranoie il mio istinto fu colto dall’impulsività di recarmi in bicicletta presso la soffitta della vecchia villetta di nonna Matilde, quel luogo inabitato e trascurato, fonte di chincaglie che probabilmente avevano senso di esistere, e quale luogo poteva essere più adeguato di quello in cui Vanessa custodiva la sua clessidra del tempo? Senza pensarci due volte percorsi la rampa delle scale imboccandola come se stessi per perdere il treno alla stazione, il mazzo di chiavi vibrava sonoramente, in tasca avevo mille speranze e troppe perplessità. La città di Bologna era tremendamente cupa e brulla quella sera, sembrava che solo la mia ombra riempisse quei viali di volti esanimi. Alla mia percezione ogni essere umano era sparito, perché avevo perso il mio. Credo che non avessi mai provato così tanta ansia e timore davanti alla villa dei miei nonni materni, non mi aveva mai intimorita. Le scale mi sembrarono infinite e dolenti fin quando non vidi quel baule proprio al centro di quella soffitta polverosa, dove le ragnatele ormai avevano coperto ogni singolo ricordo che fosse rimasto nella mente. Prontamente impugnai quella chiave dall’aspetto logorato, proprio come l’ultima volta che la strinsi tra le mani. La chiave roteò e finalmente tra le mie mani si apriva un baule di ricordi, segreti e verità. In cima al baule riscontrai la presenza di numerose fotografie scattate durante le estati passate in Liguria, immediatamente dopo una collana con un cigno, con all’interno un’incisione assai curiosa, ovvero “sogno”. Il mio sguardo si posò su un portadocumenti di un giallo canarino sbiadito segnato anch’esso dal tempo, e al proprio interno trovai una moltitudine di note scritte su pentagrammi, quelle cinque righe che da sempre riconoscevo come se fossero dei viottoli che frequentavo. Ma tra tutti quei fogli biancastri uno più di tutti attirò la mia attenzione: il cigno bianco, che aveva decisamente un aspetto diverso dagli altri, sembrava recente e riaffiorò nella mia mente a un tratto; era come se avessi già sentito parlare troppe volte di quel cigno, ma volevo indagare sulla sua identità. La mia mente entrò in un déjà-vu: ricordai la locandina che poco prima avevo intravisto sulla vetrina di una pasticceria, e codesta non era casuale. Vanessa da sempre frequentava un’accademia di danza, e quello stesso martedì si sarebbe esibita in veste di cigno bianco, ma a quanto pare quella ballerina non avrebbe volteggiato più per tutta la vita, e il cigno nero sarebbe rimasto senza la sua metà. I riferimenti della sua vita erano coincidenti: lei era il cigno dei miei sogni, era lei che durante i miei peggiori incubi mi rasserenava. Ora che il mio cigno non c’era più forse non avrei più creduto nel lieto fine, perché la sua uscita di scena non mi era chiara sin dal principio. Mia sorella tentava di dirmi qualcosa, e fu così che l’intuito mi portò a intrufolarmi nello spogliatoio dell’accademia dove studiava, inizialmente con una scusa che non avrebbe destato sospetti: dovevo riportare a casa le scarpette, la sua divisa, il suo borsone, tutto quello che possedeva parte della sua anima. Sul fondo dell’armadietto trovai un piccolo taccuino color menta, lo aprii con la speranza di rivederla tra le righe, tuttavia al proprio interno vi era un piccolo post-it color giallo mimosa, e su di esso una data che si era insinuata come un tarlo nella testa : 23/12/2018, Lago di Brasimone. A quel punto crollai in un mare di incertezze, il mio pianto era amaro, il rancore mi arrossava gli occhi e la testa pesava come un masso da trasportare a piedi, ma stavolta da sola, senza il mio cigno che mi guardasse le spalle. Supplichevole chiamai mia madre in lacrime, speranzosa che questa volta non mi avrebbe mentito, ma la segreteria telefonica era persino più indolente del fato che mia sorella aveva incontrato. Uscii dalla porta dell’accademia correndo come se la morte mi stesse inseguendo, perché ero ferita, perché io non sopportavo che qualcuno mi avesse privata di mia sorella, non sopportavo che qualcuno avesse soffocato i suoi sogni, non sopportavo che una ragazza di tale innocenza assaporasse la crudeltà pagando con la vita. Tuttavia ero stata troppo impulsiva, davo la colpa a un assassino immaginario, avevo già scritto un finale diverso, quando non mi accorsi neppure del messaggio del suo migliore amico Tom che era appena arrivato sul mio cellulare: lo aprii con foga, ma forse speravo ancora nel lieto fine. Cominciai a leggere quel lungo sms, un’agonia smisurata: lo aveva scritto proprio mia sorella, forse poco prima che imboccasse quella strada così dolorosa. Dopo le prime righe lessi premesse alquanto agghiaccianti, le mie lacrime si facevano sempre più fitte, sino a quando ebbi il coraggio di leggere l’ultima frase: «Nelle mie imperfezioni, nella mia estrema testardaggine, spero che voi possiate perdonarmi, spero che non mi dimentichiate e io farò lo stesso con voi. Questo mondo non aveva più ragione di esistere per me. Scusate se non sono mai stata la figlia perfetta, scusate se non sono mai stata la sorella maggiore che avreste voluto. Continuate a vivere per me, e io vivrò con voi». Mia sorella aveva messo fine alla sua vita, e quell’aquilone variopinto aveva spiccato il volo senza che nessuno potesse fermarlo. Da quel momento mia sorella è divenuta il cigno dei miei sogni che tornava sempre a farmi compagnia, anche quando la notte dilagava nei miei occhi, e forse non mi sentivo del tutto sola. Lei era sempre in vita grazie alla musica, perché le feci una promessa: avrei continuato a suonare il violino per lei, perché la sua corda della vita non si spezzasse mai, perché i nostri cari vivono nei nostri sogni, e lei viveva nella mia musica.

Pubblicato: 23 Maggio 2022
Fascia: 16-19
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