È pomeriggio inoltrato, il sole cela la sua luce al di là dell’orizzonte e la cittadella di Atene inizia ad estinguersi pian piano, confondendosi con la trepida penombra del crepuscolo, il quale tinge di un azzurro uniforme le bianche dimore dei cittadini. Cala l’umidità della sera, e, malgrado la giornata sia giunta al termine, in una piccola residenza nel cuore dell’antica πόλις, è sul punto di trovare il suo esordio la più amata e pura manifestazione del sapere. Dall’esigua finestra dell’edificio proviene, difatti, una luce soffusa e delle voci, che paiono essere partecipi di un’allettante conversazione.
Condorcet. «Ho trovato interessante introdurre a voi un argomento, alla cui questione ho avuto modo di porre mente nei giorni trascorsi, e alla quale, ad ogni modo, non son riuscito a trovare risposta. Mi domandavo quale fosse il motivo per il quale l’umanità non è in grado di elevarsi, pur essendo al corrente e possedendo l’esperienza del passato. In fin dei conti l’uomo dispone di intelletto, gode della virtù della ragione e della libertà di ergere con essa il perfezionamento del suo spirito, che sia esso particolare o universale, e dunque di pervenire ad un mondo canone di giustizia. Non ritengo sia oltremodo complicato giungere alla consapevolezza e al desiderio di costruire un mondo più giusto, che doni pari opportunità a chiunque; eppure, sembra che gli uomini, ultimamente, si dimentichino delle loro potenzialità».
Una riflessione che lascia i convitati in silenzio, chiunque fosse nella stanza resta affascinato dalla questione appena impetrata ed inizia a riflettere. Finalmente un uomo, dai capelli scuri e leggermente mossi, proferisce parola, indicando la sua idea.
Spinoza. «Caro mio, sapessi quante volte ho tentato di comprendere l’uomo! Credimi quando dico che, di tanto in tanto, mi interrogo sulla natura di quest’ultimo, per cercare di intendere cosa lo porti a errare ininterrottamente, senza esser mai giunto, tuttavia, ad un risultato. Credo, ad ogni modo, di avere una risposta alla tua domanda; gli uomini, comunemente, ritengono che tutte le cose naturali, e loro stessi, agiscano in vista di un fine. Da ciò ho avuto modo di comprendere come l’ottenimento di un utile vagheggiato sia per noi sinonimo di virtuosità, di miglioramento. L’uomo, pertanto, si illude di possedere un volere da cui è assente ogni necessità e perciò ricerca nella materialità la chiave per la felicità. Secondo la mia opinione, dunque, una delle cause che trattiene l’uomo dal migliorarsi è la stessa concezione che egli ha della realtà, che lo porta ad una conflittualità a dir poco rovinosa, rendendo insostenibile la convivenza con sé stesso e con i propri simili. Per non parlare poi della perenne insoddisfazione, da cui scaturisce l’aumento esponenziale della brama di quattrini e ricchezze di ogni genere, incrementando così l’abisso vertiginoso tra una società i cui individui desiderano elevarsi e l’impossibilità di questi di sentirsi parte di una collettività. Se poi consideriamo che le cose naturali vengono stimate come dei mezzi attraverso i quali dare sfogo all’ingordigia, comprendi bene come queste ultime vengano continuamente impoverite e consumate dall’avidità umana».
Condorcet. «Ma non credi che rinunciare al servirsi degli elementi naturali possa portare alla rovina? L’uomo, fin dall’antichità ha usufruito di ciò che la natura gli porgeva dinanzi, ed è solo attraverso la constatazione dell’utilità di tali elementi che egli è riuscito ad avanzare nel proprio cammino».
Spinoza. «Non era mia intenzione dire questo, assolutamente. Non nego che determinati modi di agire e di avvalersi della natura siano stati la chiave per il raggiungimento della civilizzazione conosciuta oggi; tuttavia ho riscontrato che la teoria fallace che l’arricchimento delle proprie tasche sia indice di avvicinamento alla felicità, è ampiamente comune nel pensiero dell’uomo, forse troppo, ed egli, abbagliato da tale convinzione, ripone il suo obiettivo nel trarre giovamento dai lussi materiali della vita».
A questo punto incombe sulla scena un altro uomo, il più anziano tra tutti, incuriosito dalla posizione espressa poc’anzi, che prima di esternare la sua domanda chiede la parola alzando la mano.
Platone. «Perdonami se ti interrompo, ma, alla luce di ciò, mi chiedo se confidi in un futuro sviluppo sociale o se credi che quelle convinzioni errate non possano essere estirpate».
Passa qualche secondo prima dell’arrivo della risposta, attimi nei quali la stanza si ammutolisce, in una quiete riflessiva, a cui prendono parte tutti gli ospiti.
Spinoza. «No, decisamente non escludo la possibilità di un progresso della civiltà, anzi! Come ha detto anche Jean-Antoine, l’uomo possiede il grande dono della ragione e, oltretutto, mi sembrerebbe incoerente giudicare ognuno secondo la moda che caratterizza un fenomeno. Prendi ad esempio i pittori, gli artisti, che in un mondo grigio qual è il nostro hanno la capacità di irradiarlo con la forza sprezzante dei colori, quelle persone che se osservate da lontano sembrano essersi fermate all’ingenuità dell’infanzia, data la loro connaturata caratteristica di provare meraviglia dai più fugaci tratti del cosmo. Essi amano a tal punto la natura da definirla “arte” e ciò dona loro la possibilità di trovare soddisfazione dalle piccolezze che la nostra realtà sensibile ci offre. Queste persone riescono nella raffigurazione di un mondo incorrotto, innocente, privo della presenza usurante di uomini che prediligono l’amor proprio all’amor di sé e che dunque rendono impossibile il conseguimento del bene comune».
Platone. «Mi interessa molto il tuo pensiero, ma non capisco come qualcosa di illusorio quale l’arte, che è solo una copia della visione che percepiamo del nostro mondo, possa formare i cittadini educandoli al Bene».
Spinoza. «Capisco perfettamente cosa tu voglia dire e con ciò tenterò di spiegarmi. Se ci pensi, l’uomo da sempre si rifugia nei suoi sogni, nelle sue illusioni e l’arte non è altro che la manifestazione di un qualcosa di cui si avverte la mancanza, di ciò per cui la malinconia si palesa nell’animo dell’uomo e che rappresenta di conseguenza il desiderio dell’individuo. Illuminando con paesaggi apparenti, ma allo stesso tempo incantevoli, la mente dell’uomo, l’arte porta quest’ultimo a ravvedersi della mestizia del nostro mondo e dell’oscurità in cui viviamo e nella quale riponiamo le nostre certezze. Dunque è quella surreale armonia, ahimè inesistente, che riesce a destare le persone dalla loro dormienza, portandole alla realizzazione della scontentezza in cui sussistono. È il profondo volere di realizzare un mondo dissimile da quello che si possiede, un mondo che porterà l’uomo alla piena consapevolezza della menzogna in cui si vive e nella quale è assente ogni tipo di armonia».
Condorcet. «Penso che ciò che dici sia corretto: è constatabile come, attualmente, l’espressione artistica sia in forte decadenza. Dunque come possiamo far sì che essa rientri a far parte della nostra società?».
Prima ancora che la domanda terminasse, quasi fosse stato illuminato dalle parole espresse precedentemente, il senile filosofo iniziò ad esternare il suo parere.
Platone. «Partendo da chi, ancora, non si è rapportato con la contaminazione della società, da chi ancora detiene la possibilità di diventare un artista e di giungere laddove la filosofia non può farlo, per causa della sua astrazione non da tutti afferrabile. È questo il problema dell’uomo: egli non ha il pieno possesso di sé, non è in grado di instaurare una serena convivenza tra la sua parte irascibile, quella concupiscibile e quella razionale, un’incapacità che dal particolare si devolve all’universale. Il nostro compito, in quanto uomini, sarebbe quello di conciliare la nostra anima con l’esteriorità, arrivare a quella condizione nella quale le nostre idee si riflettono nella realtà concreta e sensibile. Un primo passo verso tale presupposto è quello di intendere lo Stato come fosse un’unica anima, formata dalle sue tre parti, che insieme collaborano per il progresso d’insieme della comunità».
È evidente a tal punto lo scetticismo di Condorcet, manifestato attraverso una richiesta di chiarimento.
Condorcet. «Ma come? Non pensi che sarebbe questo un pretesto per diffondere disparità?».
Platone. «È proprio qui il punto…l’uomo non potrà mai omologarsi completamente agli altri, se ciò accadesse l’unico risultato consisterebbe nel malcontento generale, di persone che reprimono la propria identità. Al contrario, in una società formata da individui che seguono la loro naturale attitudine, vi è libertà, coesione, provocata dalla contezza di far parte di un gruppo. Quest’insieme ha la capacità di fronteggiare e sopprimere la sua frammentazione e la diversità, grazie a delle ideologie comuni, ad un’identità comune, radicata nelle fondamenta stesse della collettività. Io proporrei come idea di società ideale un mondo di artisti, di persone che nella complessità della nostra realtà sono abili nel diffondere, attraverso un semplice pennello, i valori quali la tolleranza, la giustizia e la libertà, che possono, tramite una presa di coscienza generale, portare al bene comune, al bene della collettività, che non estromette il benessere di nessuno».
Si conclude così la serata, le figure nella stanza si dissolvono, quasi come polvere, la luce velata che prima si scrutava inizia ad affievolirsi, fino ad eclissare del tutto. L’intera città inizia a disgregarsi sotto i miei piedi ed io mi risveglio a notte inoltrata.
