La pioggia spandeva il suo odore terroso sulla pelle e sui vestiti. Le strade erano così strette che il cielo si mostrava solo attraverso la sua luce o riflesso nei vetri delle finestre. Solo verso il mare si aprivano ampie piazze, belvederi e porticati. Nell’ombra giovani donne vestite di lino e bambini inquieti si riparavano dall’afa del mezzogiorno. Trovò la casa di Caile quasi per caso, ancora assorto nei consueti pensieri.
Negli ultimi anni si era impercettibilmente insinuato in lui un tedio per tutto ciò che per gli altri era allegria e scherzo. Per un assurdo desiderio di solennità, aveva gradualmente smesso di correre, di cantare, perfino di ridere. Trovava ridicole le sollecitudini della gente e grotteschi tutti i riti umani, dai compleanni ai funerali. Anche nella vita quotidiana la fitta rete di vincoli, impegni e promesse gli era diventata presto intollerabile. Temeva che non avrebbe mai avuto riposo, eppure, quando inevitabilmente si manifestava la volontà di fuggire, se ne vergognava. Un giorno, ignorando la colpa che sentiva, decise di lasciare la città natale per sempre.
Il distacco dal mondo, che per lui era stato a lungo un vanto, ora si mostrava come il più grave errore della sua esistenza.
L’unico rimedio che conosceva era l’inquieto, incessante viaggio da una città all’altra. Si riempiva gli occhi di meraviglia, confrontava le suggestioni di ogni luogo e si distraeva così dalla sua incapacità di vivere.
Bussò timoroso, aprì una donna dal collo sottile e dal passo sicuro. Lo invitò a entrare, quasi come se già lo conoscesse. Sugli scaffali si notavano enciclopedie, carte nautiche, medaglioni d’oro e piume di quetzal.
Parlarono del tempo svanito, delle sensazioni che, a esprimerle a parole, perdono nobiltà e forza. Il dialogo gli era ormai così alieno che incespicava a ogni frase, i pensieri arrivavano alla voce incompleti e sconnessi. Caile, al contrario, raccontò tutti i suoi progetti e i suoi intimi desideri con una disinvoltura invidiabile. Il volto si animava seguendo le sfumature del discorso. Raccontando le sue ricerche, mostrò con orgoglio quasi infantile le tante collezioni che con dedizione aveva raccolto negli anni. Non si limitava a guardarle, ma le esaminava cercando le proprietà universali della materia. Sotto lenti iridescenti poneva i cristalli, studiava gli angoli che descrivevano il percorso della luce all’interno di essi e su fogli sparsi appuntava le sue scoperte con una grafia indecifrabile.
Lui, pur affascinato, non poté fare a meno di constatare che non si era mai dedicato a niente in modo così vivo e tenace. Per la prima volta, considerò l’ipotesi di rimanere in quel luogo un po’ più a lungo.
Distogliendolo dalle sue riflessioni, Caile, che amava procurarsi da sola i campioni, srotolò le sue mappe sul tavolo e indicò il punto in cui, secondo i suoi studi, doveva trovarsi un filone aurifero. Preparò la bussola, lo scalpello e la lente e uscì dal portone, invitando il suo ospite ad accompagnarla.
Presero la via del mare. Caile aveva nella darsena una barca a remi azzurra. Le praterie di posidonia erano ben visibili sotto i riflessi del sole e la corrente creava vortici intorno agli scogli affioranti. Lui cominciò a remare verso il largo, seguendo la cartina, accorgendosi solo in quel momento che la destinazione era a qualche miglio dalla città. Remò con determinazione furiosa, senza alcuna sosta. La costa sparì prima che se ne rendessero conto. Si abbandonò al ritmico ruotare delle sue braccia, come se non fossero le sue ma di un macchinario perfetto e inarrestabile. L’acqua si rifrangeva scintillando sulla barca e gli bagnava le mani. La lontananza dal mondo conosciuto e la velocità e armonia del movimento gli provocavano un’euforia allucinante. Al vedere Caile immergersi e risalire e banchi di pesci unirsi e disperdersi, si lanciò nel mare senza esitazione. Appena l’acqua si richiuse sopra la sua testa, cominciò a contorcersi e a lottare per riprendere fiato. Caile si precipitò e con fatica e disperazione lo riportò sulla barca, ancora livido e incosciente.
Ciò che la sua mente creò è difficile da descrivere nella sua suggestione. Si vide bambino, ignaro e tenero, immaginare gli scogli come fortezze e i gabbiani come draghi. Ricordò le giornate brevi e la libertà assoluta, mai percepita e sempre sospirata. Poi arrivò la capacità di misurare il tempo e l’ozio creativo dovette fare posto all’attesa della notte. Si ritrovò anni dopo in una festa, tra il volteggiare delle gonne e la musica d’arpa. Una ballerina senza nome lo respinse e lo abbandonò. La musica crebbe frenetica e si scoprì improvvisamente vecchio, solo nel deserto, reso folle dalla solitudine. Non potendo più sperare nel futuro, malediceva sé stesso e la sua pavidità.
Si svegliò nel terrore, Caile lo teneva per mano e davanti a lui, nella piazza illuminata, la gente del luogo si scambiava sguardi preoccupati e curiosi. Perfino in loro c’era qualcosa della sua sofferenza, della premura di Caile, della vita che insieme fuggiva e bramava. I due si incamminarono verso la casa, entrambi confusi e scossi. Lei gli disse che gli sarebbe stata grata per la compagnia e che avrebbero potuto conoscersi nel tempo.
Quella sera, quando lui programmava la partenza, la pioggia del giorno prima riprese piano, la luce delle lanterne si riverberava in mille specchi e vibrava sul basalto liscio della strada. Per la prima volta, non aspettava niente e non voleva niente da nessuno, guardava lontano con un sorriso a labbra serrate, sentendosi in cuore l’antica serenità ritrovata. Gli pareva che quella pioggia non dovesse finire mai. Dietro quel velo, l’ultima striscia di sole scivolò sotto l’orizzonte e a poco a poco si accesero le stelle.