Ero sdraiato.
Ho fatto fatica ad aprire le palpebre.
Quando finalmente ci riuscii, venni soffocato da un ambiente chiuso e poco luminoso. Per di più non stavo neanche comodo.
Mi voglio alzare.
Ma non riesco.
Ero come paralizzato.
A malapena riesco a muovere il collo.
A pochi centimetri dalla mano avevo un pulsante rosso e c’era una scritta in una strana lingua. L’ho premuto. Rimasi in attesa per poco più di un minuto, nel quale guardai attentamente la particolare cella orizzontale; sembrava uno di quei famosi capsule hotel a Tokyo, l’unica differenza era la comodità. Ero in un mix tra stanchezza e confusione, come se fossi sotto effetto di qualche rimasuglio di droghe. Leggere però. Avevo abbastanza coscienza di me. Voltando appena appena il collo vidi la parete sinistra completamente in vetro ondulata, con la rigonfiatura al centro.
Ed ecco spuntare un volto femminile, rosa chiaro, con i capelli raccolti a coda alta. La parete vetrata si aprì e la donna mi disse: «Ben svegliato», ma con uno strano accento, non credo fosse italiana.
Ero ancora un po’ stordito, ma abbastanza da chiedere dove fossi. Mi rispose in Arabia Saudita. Io non ricordo nulla di ciò che è successo prima del risveglio, ma sono abbastanza sicuro di non essere mai andato in Arabia Saudita.
Mi si avvicinò e mi aiuto ad alzarmi. Prima mi misi seduto, poi mi gettai sulle mie gambe, che però non ressero. In una frazione di secondo mi ritrovai per terra. Mi cadde l’occhio sulle gambe della donna: erano entrambe di metallo, senza scarpe o calzini.
Immediatamente mi tornò alla memoria il tragico incidente che fece mio padre pochi anni prima, nel quale ci rimise una gamba. In quei tempi era difficile trovare questi aggeggi di metallo, ma fortunatamente mio padre aveva diverse conoscenze nel settore.
La donna, che per semplicità chiameremo infermiera (anche se non ho mai capito come si chiama il suo mestiere), mi rialzò da terra con grande forza. Poi mi disse: «Paziente numero 628H…».
«Come scusi?» la interruppi io.
Ma lei mi ignorò spudoratamente, continuando con quello che aveva tutta l’aria di essere un interrogatorio.
«Dolori alle gambe?»
«Non precisamente, è come se me le sentissi addormentate» continuai io, capendo che fare altre domande sarebbe stato inutile.
Lei nel frattempo annotava su un iPad.
«Riesce a muovere gli arti?»
«Gambe no, braccia neanche, la testa un po’.»
Poi estrasse da un cassetto delle carte da poker e me ne fece vedere quattro.
«Cosa vede?» e mi tese la prima.
Strizzai gli occhi ed esclamai: «Due di picche».
E la carta tornò nel mazzo. Prese la seconda: «Ora?»
«Sette di… cuori» risposi incertamente.
«No di quadri»
«E questa?»
«Asso di cuori.»
«Sai giocare a poker?»
«Sì.»
«Ti ricordi come si gioca?»
Annuii con la testa.
Lei estrasse un asso e un tre.
«Quale vale di più?»
Ci pensai un attimo.
«Il tre.»
«No l’asso.»
«No sono abbastanza sicuro che sia il tre» ribattei io convinto.
Lei come di consueto non mi considerò, prendendo appunti.
«Mi scusi mi spiega che succede? Dove mi trovo a perché sarebbe un buon inizio.»
«Lei ha subito un processo di ibernazione 254 anni fa. E si è appena risvegliato.»
«Ma io non ricordo nulla.»
«Lo vedo.» Rispose lei facendo riferimento alle carte da poker.
«Ma è normale» continuò lei.
«Devi fare trattamenti di riabilitazione articolare, muscolare, e ripristino dell’attività cerebrale. Per quest’ultima c’è un macchinario specifico che riattiva i tessuti rimasti inattivi a causa delle temperature. L’intero percorso è stato pagato nel momento della tua ibernazione nel 2021, e durerà all’incirca 4 mesi. Ti sarà dato un alloggio temporaneo e sarai seguito da un fisioiberno-terapista. Le auguro buona fortuna, e benvenuto nel 2275.»
In quel momento mi sentivo svenire.
Anzi probabilmente svenni.
Peccato che la memoria non mi assista.
4 mesi dopo
Finalmente avevo terminato la riabilitazione.
In questo lungo periodo avevo avuto modo di informarmi su tutto ciò che è successo in questi 254 anni in cui sono stato ibernato e la stesso motivazione per la quale la mia famiglia decise di ibernarmi.
Ero incosciente da due mesi su un letto di ospedale, per una strana malattia alle cellule, non esisteva una cura. Una decina di anni fa l’hanno trovata. Mi hanno curato e riportato a una temperatura stabile.
Mi trovavo in una specie di albergo per persone che sono in processo di riabilitazione e le cameriere l’ultimo giorno mi portarono una valigia con i miei vecchi vestiti. Una mi consigliò di fare un giro in un negozio di vestiti, per aggiornare un po’ il mio guardaroba.
Onestamente avevo di meglio da fare.
Dopo un salto temporale di 254 anni sicuramente non mi barrico in un centro commerciale.
Ed ecco finalmente la luce del sole: fino a quel momento avevo visto solo i raggi penetrare nella mia triste e grigia camera.
Appena uscito vidi davanti a me una ringhiera, così mi affacciai e vidi un’enorme voragine, su cui c’erano degli strani binari mai visti prima. Era come se fossi in un condominio gigantesco a venti piani. Giusto qualche secondo di attesa e vidi un treno passare ad una velocità stratosferica (non meno di 1200km/h). Non c’era solo un binario: era una fitta rete di placche nere di cui non si vedevano neanche le giunture che si intersecavano tra loro.
Alla mia destra c’era una parete di vetro che metteva fine al lungo marciapiede che si ergeva sulla sinistra. Guardando fuori c’era solo il deserto. Era come se fossi in un cubo di vetro.
Iniziai a percorrere il marciapiede. Sulla sinistra era pieno di negozi di vestiti, per animali, tech, supermercati, hotel, parchi e zone pubbliche. Presi l’ascensore che mi avrebbe portato al piano di sotto, dove c’era la stazione: ascensore che in poco più di un secondo mi aveva portato giù di cinque metri, senza farmi percepire nulla. Mi avvicinai alla stazione e con mio grande stupore notai che questi marchingegni quasi ipersonici erano gratuiti. Uno portava nel centro fisico della città, un altro nel lato opposto, e l’ultimo era il più lento, faceva varie tappe. Tralasciano l’ultimo che effettuava diverse fermate, il tempo di percorrenza più lungo era di nove minuti, per arrivare dal lato opposto della città.
Come poteva essere possibile che dei treni così veloci ci mettevano tanto ad arrivare dall’altra parte della città, anche se fosse grande tre volte New York. Vidi la lunghezza della tratta: centosettanta chilometri.
Ero in una città lunga centosettanta chilomentri.
Senza esitare presi il treno che portava in centro, cinque minuti di viaggio, forse meno. L’interno era molto moderno e confortevole, temperatura perfetta e acqua gratis. C’erano anche dei fili particolari, come quelli per ricaricare il telefono ma con un’uscita molto più grande mai vista prima.
Vicino a me prese posto un signore di non meno di ottanta anni, prese questo filo e se lo infilò nella gamba. Anche lui aveva gambe metalliche, come l’infermiera. Non resistetti a chiedere.
«Mi scusi, questo filo…» non avevo la domanda pronta in testa, ed esitai, ma lui mi capì al volo.
«Sei nuovo qui?»
Io annuii.
«Si vede figliuolo. Questo serve per ricaricare le mie gambe. Con pochi minuti di carica mi permettono una o due settimane di utilizzo.»
«Perché la maggior parte delle persone qui ha gambe di metallo?»
«Beh alcuni come me lo fanno perché le proprie sono andate molto tempo fa» sorrise lui: «altri perché vogliono prestazioni migliori non saprei, ci sono molti motivi. Fisicamente è molto meno provante avere questi» e indicò le sue gambe.
Il treno intanto iniziò a muoversi, ma onestamente non percepì la grande velocità.
«Senta, io sono stato ibernato e…» mi interruppe.
«Wow fantastico, da dove vieni?»
«2021.»
«Incredibile!» esclamò.
«Lo so, sono appena uscito dalla riabilitazione e…»
«Oh figliuolo, devi imparare ancora molte cose» disse con un tono di superiorità.
A un certo punto mi venne un dubbio. Se sono in Arabia Saudita, com’è possibile che riesca a parlare alle persone in italiano? Sarebbe troppo assurdo se lui fosse Italiano. Anzi, esisterà ancora l’Italia? Così glielo chiesi.
«Ragazzo qui ognuno parla la sua lingua. Per esempio io sono finlandese e ti sto parlando nella mia lingua. Tu però riesci a capirmi nella tua. Tutto merito di un microchip a contatto con la corteccia cerebrale. Oramai ce l’hanno quasi tutti, l’inglese è passato di moda quasi un secolo fa.»
Non sapevo esattamente cosa dire.
«Senta io…»
Mi guardò attentamente, curioso.
«Non ho dove dormire stanotte, non ho soldi. Cosa dovrei fare…» dissi quasi sconfortato.
«I soldi potresti averli ragazzo, vai in banca e controlla se il tuo conto è stato scongelato.»
«In che senso scongelato?»
«Le persone ibernate hanno il loro vecchio conto congelato. Ma non so in che forma ti saranno restituiti, la maggior parte del denaro gira tramite bitcoin. Sai cosa sono?»
«Sì, c’erano già nella mia… epoca.»
Lui fece qualche cenno con la testa, poi ironicamente esclamò: «Non so come si dormiva nella tua epoca, ma nella mia ci vuole una casa come minimo.»
Io accennai un sorriso imbarazzato.
«Ho un amico nel settore. Ti mando il contatto.»
Qualche secondo dopo mi resi conto di non avere il mio telefono.
«Ma il telefono?»
«Non serve, è tutto qui» disse indicando la testa.
«In che senso?»
«Tutti i chip sono stati implementati nel cervello umano.»
Pochi secondi dopo visualizzai come se fosse un’illusione una specie di ologramma che mostrava un contatto di un agente immobiliare.
«La ringrazio molto.»
Il treno iniziò a frenare.
«Buona fortuna ragazzo» disse il vecchio, che si alzò e si avviò verso la porta posteriore del treno.
Io mi diressi verso quella anteriore.
Scesi dal treno.
Nella mia mente apparse una lista di cose da fare: prelevare i soldi, comprare una casa… iniziare una nuova vita. Da zero.
Davanti a me c’era un enorme cartello: «Welcome to the line».
Ripensai a ciò che mi aveva detto il vecchio sull’inglese.
Mi chiesi perché riuscivo a leggere quella scritta in inglese.
Non trovai mai una risposta.
Ma non mi importava.
Il resto mi bastava.
Il mondo era appena cambiato.