Una ragazza sta leggendo un libro seduta accanto alla finestra. La storia la prende tanto che non riesce a staccare gli occhi dalle pagine. Mentre segue con attenzione la vicenda che assorbe tutta la sua attenzione, sente un improvviso rumore che sale dalla strada. Sarà stato un incidente, si dice. E riprende a leggere. Ma subito dopo ecco un altro colpo. Il vetro della finestra trema. Perfino il libro trema fra le sue mani. Ma lei non vuole a nessun costo staccarsi dalla pagina. Che mi importa di quello che succede in strada!, si dice. Al terzo colpo però è la casa intera che si scuote e traballa. E lei non può fare a meno di alzarsi e avvicinare la faccia al vetro. Quello che vede le fa cadere il libro dalle mani…
Di nuovo quei pazzi del centro sportivo, di nuovo.
All’ennesima pallonata che si schianta sul muro della sua abitazione, Elena si piega a raccogliere il libro caduto dallo scaffale e lo chiude, sistemando le pagine un po’ stropicciate; si siede sul bordo della finestra e lascia andare la testa contro la parete, assecondando ironicamente con i piedi il ritmo cadenzato del pallone che continua a rimbalzare sullo stesso punto della parete, proprio sotto la finestra. Così, senza sosta.
Chiude gli occhi Elena, chiude gli occhi e si lascia andare con la mente, senza riserve e opposizioni.
Torna da lui Elena, con una piccola smorfia della bocca e la mente che viaggia.
La prima volta che si erano incontrati, lui l’aveva quasi buttata a terra, travolgendola con il suo corpo spigoloso, mentre cercava di scappare da un vecchietto inferocito che roteava un bastone da passeggio quasi fosse una clava.
«La prossima volta te lo buco quel pallone, Luca, te lo giuro! Corri, corri… Ah, ma un giorno ti prendo, ragazzo!». Non si era nemmeno fermato per aiutarla. L’aveva lasciata così, con i jeans strappati all’altezza delle ginocchia, il volto indignato e rosso di rabbia che ora si rivolgeva a quel sorriso spavaldo e a quelle braccia, aperte in un frettoloso gesto di scusa.
Lo aveva visto il giorno dopo dalla finestra di casa sua; il moderno Romeo, però, non la chiamava da sotto il balcone, ma la salutava divertito da un campo da calcio in terra, di quelli con le linee bianche fatte di corsa e dalle reti delle porte piene di buchi.
Lui l’aveva salutata, con la mano aperta, nel bel mezzo di una partita del campionato regionale “Giovani”.
Elena non lo aveva perso di vista per un solo minuto durante tutta l’incontro.
Era bravo. Veloce, tecnico, preciso; i capelli neri e ricci rimbalzavano al vento come quelli di un campione di altri tempi, di un altro calcio. Le era parso addirittura che dopo aver segnato un goal, lui si fosse girato verso la sua direzione, accennando un inchino divertito. Anche solo l’idea l’aveva fatta arrossire fino alla punta delle orecchie.
La sera stessa Luca si era presentato sotto casa sua, stavolta davanti al portone, chiedendole di uscire l’indomani, senza eccessivi giri di parole.
Lo aveva detto tutto d’un fiato, con la faccia sfatta e la tuta di rappresentanza ancora addosso.
Era cominciata tra Luca ed Elena.
Era cominciata così, tra i tiri e le occhiate di lui verso casa di lei, che si spellava le mani ad applaudirlo dal suo nido sulla finestra.
Correva Luca, correva ed era veloce.
Correva mano nella mano con il suo amore, la piccola Elena, che acconsentiva a seguirlo al parco pur di continuare ad allenarlo.
Correva Luca, correva dal lunedì alla domenica, toccando palloni, colpendo di testa e segnando valanghe di goal. Quando fu chiamato a esordire nella primavera di una squadra del nord, vide il suo sogno concretizzarsi e divenire realtà.
Non poteva rifiutare. Cominciare a giocare a certi livelli avrebbe significato fare uno scatto in avanti verso il futuro, verso il calcio professionistico.
Sarebbe stata dura per loro, non ci sarebbero state più le partite la domenica, gli sguardi di lui e gli applausi di lei, i baci sotto al portone che sapevano di corpi caldi e sudati. Non ci sarebbero stati più i sassi alla finestra per farla affacciare sul campo, le grida di terrore di Elena ogni volta che il suo piccolo uomo finiva a terra dopo un contrasto duro con un avversario.
Quando prendeva la corriera per vederla, spesso era stanco, senza energie.
Era freddo.
Il calcio lo assorbiva del tutto e prima o poi avrebbe preso anche il posto di lei nella scala delle sue priorità, questo lo sapevano entrambi.
Ad Elena non restava altro che seguire la cronaca sul quotidiano locale che riportava le sintesi delle partite del campionato primavera.
Mentre dall’altro dei gradini per bambini ed ultras. Sei uno che ama tutto quello che fa, problemi non ha Che non fatica, tu sai che non è così ma,
Quello guarda la tua vita, da là in fondo che ne sa? Di chi rovina quello per cui tu vivi…
La prima volta che lo vide tirare di coca, Elena lo picchiò. Con rabbia, con disperazione. Lo picchiò perché voleva fare del male a sé stessa, perché voleva sentire sotto quelle botte il dolore sulla sua pelle.
La delusione, la frustrazione, il fallimento.
Nell’attimo esatto in cui lui aveva cominciato ad arrotolare la banconota da cinque euro, qualcosa nel cuore di lei era andato in frantumi e si era sostituito a quella polvere bianca che Luca stava mandando su per il naso.
Lo colpì con quelle sue dita lunghe, lo graffiò in faccia e sugli occhi, come un gatto, riempiendolo di male e odio. Lo disprezzava, lo odiava per la sua vita rovinata, per il tempo che avevano perso e per quello che non ci sarebbe più stato.
Perché Elena in quella coca ci vedeva la sua vita, che lui stava inspirando per sballarsi. La vita che si sarebbero tanto voluti costruire insieme, fatta di promesse, di amore, ma anche di silenzi e litigi.
Avrebbe fatto di tutto per continuare ad amarlo, per continuare a sentirsi desiderata dall’unico uomo dal quale voleva essere guardata.
Ma per lui tutto ciò rappresentava solo due ore di svago. Gli girò le spalle per sempre, portandosi via come ultima immagine la figura di un ragazzo oltremodo magro con la faccia sporca di bianco e un’espressione di sorpresa dipinta sul volto.
Lui non aveva reagito. Non aveva reagito perché la sua vita se l’era presa qualcos’altro, non il pallone, ma la pressione, la paura. La paura di non essere all’altezza, di quella che ti prende quando sai di non aver ancora vinto, quando senti di aver sempre qualcosa in più da dimostrare.
Di quando ti accorgi che sei solo e che il mondo è lì che aspetta di vederti cadere.
La paura che ti prende quando non sai come rialzarti. La paura che si è presa i migliori, Pantani, Maradona… Perché Luca voleva solo giocare a pallone, ma il calcio è diverso, il calcio ti mastica e ti sputa via.
Il giorno che la coca se lo è portato via, stava giocando il derby cittadino con la sua primavera.
Era stanco, sottotono; la roba non lo soddisfaceva più e aveva anche cominciato ad aumentare le dosi.
Se ne stava lì, in mezzo al campo, piegato sulle ginocchia per la stanchezza, con la consapevolezza di aver perso la partita più importante, quella con sé stesso. Perché quella è una lotta che va oltre centocinquanta metri e una sfera. Perché per quella volta doveva lottare per sé stesso e per Elena.
Un istinto lo aveva spinto a seguire il movimento del suo compagno che aveva visto con la coda dell’occhio e che ora lo stava lanciando verso la porta avversaria.
Destro, sinistro e tiro. Semplice.
Dopo una parabola infinita la palla si era infilata lì, tra i due legni, palo e traversa, dove il portiere non la prende mai.
Lì, sotto al sette.
La gioia era tanta, troppa.
Forse sì, forse una via di uscita c’è, forse si può anche smettere con questa vita e tornare a essere il Luca del campetto di terra, il Luca che si faceva inseguire, felice, dopo aver sfondato una vetrina polverosa con una pallonata.
Il suo cuore malato che non chiedeva altro che tempo mancò un colpo e poi un altro ancora, fino a spegnersi del tutto.
Quando Elena venne a sapere, non pianse. Le sue lacrime le aveva già date tutte a Dio, pregando per quel corpo caldo e giovane che l’aveva stretta e amata tante volte.
Perché la vita se ne va così, veloce. Puoi provare a riprenderla, a contrastarla; puoi entrare in scivolata e cambiare un po’ il suo corso, con le tue scelte, con le tue decisioni, con la tua forza di volontà. Ma devi essere rapido, tenere gli occhi sull’obiettivo e devi volerti vivere.
Perché passiamo la nostra vita in panchina, guardando gli altri giocare, quando vorremmo muoverci, entrare in campo e impadronirci del pallone, finalmente protagonisti, lasciando gli altri a guardare.
Perché la vita, in fondo, è solo una gran bella finale.
Corri Luca. Corri.
Che adesso, chi ti prende più?