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Fascia 13-15
Sofia

Occhi al mare, senza mettere a fuoco. La coscienza dispersa nei ricordi, travolta dalle spine. L’amore o il nulla?

Rami di primo chiarore, rosso saggezza, andavano già sfiorando l’oscuro, sorridendo ai sentieri. La luce! Se avesse avuto quella grandezza…
È un teatro la Natura. Ora fioriva in mente qualcosa di diverso, che arrivò disturbando il sapore di tabacco dalla pipa di un vecchio lì vicino.

«Non morire», sentì. Si girò. Il vecchio? Non era che un sordido mistero di Dio, che piano si spense e sparì, lasciando schiudersi l’aurora.

Stanca, al tramonto, quasi cupa, la luce attraversa i vetri lentamente, si fa spazio nel disordine di ogni casa e lascia la sua impronta malinconica, prima di ritirarsi. Sofia è lì sul letto, distrutta. Piangendo vede scorrere l’infanzia. Forse ha sbagliato, ha perso troppo tempo, non è mai stata originale. Sente come se tutto le stesse virando contro. Riflette a lungo. Ha perso ogni speranza, imprigionata nella depressione; ogni forza, o azione per essere felice, è svanita. Quando morì la madre, due anni fa, sentì una colpa fortissima, erano sere di disperazione, seduta davanti al mare, nessuno poteva capire il suo dolore! Il suo unico bene fu restare aggrappata alla vita, solo così non si perse e continuò senza timore. La fuga dall’oblio la trovò nel teatro, nella luce dello stare in mezzo agli altri: lo scoprì grazie a un grande amico, a cui teneva molto. Ora non ne parla più.

Abita, Sofia, in un paese di mare, uno di quelli che d’estate sono pieni di folla, meta di migliaia di corpi in cerca di spensieratezza, e d’inverno cimiteri oscuri. I suoi vi si trasferirono quando era ancora piccola. Non le dissero mai il motivo. All’inizio, fu difficile spezzare la corazza di pregiudizi che la vedevano come una straniera. Ignorata, terribilmente sola… soltanto dopo, mostrando la sua parte più allegra e ridente, sempre spontanea, simpatica, aperta con tutti, riuscì ad affezionarsi e trovare compagnia. Ma la zia le ripeteva che per fare qualcosa, brava com’era, bisognava andare via. «Fuggire, fuggire!»
A conciliare scuola e teatro serviva molto impegno. Quella ch’era una passione, stava diventando un peso, diverso da prima. Più volte pensò di mollare, o di sacrificare una cosa delle due. Era una vita bellissima e disintegrante. E così, in bilico, è stata la realtà a farla sprofondare. La morte del padre, incidente. Nulla da fare, il destino è una porta chiusa dove hai solo dolore a bussare più forte! Il padre l’aveva sostenuta, confortata, abbracciata nei momenti di pianto. Ha cominciato a ridere sempre meno, abbandonata da tutti: le persone attorno, le feste, le risate, non ci sono più. Non c’è lotta per cui andare avanti. E il mare, che sempre l’ha accolta nelle sue acque e addolcita con la musica delle onde, nasconde un tradimento, fugge libero verso l’orizzonte e l’abbandona a struggersi e disperare, perché lei, la sua vita e tutti gli altri, non servono a niente. La Natura non ha più nulla da dire.
Fissa il pendolo rotto che la nonna regalò alla madre, prima che litigarono. Che tempi di speranza, di una piccola bambina ribelle! La tazza vuota, sporca di caffè, ricordo del padre, a momenti cade dal tavolo, giù in mille pezzi. I vestiti, buttati sulla poltrona, si devono lavare da giorni. Una scarpa chiama all’angolo della stanza, l’altra, dall’opposto, risponde. Dov’è una brezza di gioia? Le torna alla mente quando i suoi urlavano, si insultavano, la chiudevano in camera a chiave, e lei iniziava a mettere in disordine apposta. Ne ha passate tante senza mostrare nulla. Ora non ci riesce. Si alza, quasi controvoglia, e prova a spostare i vestiti, ma non trova spazi. Raccoglie alcuni scritti di opere da terra, li posa nel primo cassetto accanto alle fotografie. Nel secondo solo polvere. Poi l’ultimo, il terzo.

Sofia,
ti supplico, non mi fuggire. Vivi il mio grido. La questione fondamentale della vita è l’interpretazione dell’amore.
Ricordi quando venni a svegliarti una mattina presto, di corsa, per dirti quant’era meravigliosa l’alba che avevo visto? Ti parlai dell’allucinazione del vecchio, del paesaggio, di me. Dopo la passeggiata sul lungomare se n’erano andati tutti; quella notte mi accorsi che non avevo mai ammirato un mattino, e decisi di aspettare. Quando te lo raccontai, mi rispondesti ch’era più vero un tramonto.
Sono sempre stato solo. Un lupo solitario lontano da tutti; disprezzavo la realtà, non mi interessava. Cercavo qualcosa di nuovo, volevo partire e andare via. Tu amavi gli altri, sorridevi, riuscivi a essere così semplice. Poi, la lama del dolore: morì tua madre e i miei si separarono. Il destino fu disintegrante, ci crollò tutto addosso, e avevamo bisogno di una speranza. Allora ti parlai di teatro e te ne innamorasti subito, perché la compassione è nel tuo sangue; mentre io non avevo rifugi, rimandavo ogni scelta.
Un giorno, non ricordo chi, mi disse che in una poesia c’era il mio pensiero sulla felicità, ma non la trovai. Così ho scoperto la scrittura, una passione viva per esprimere l’inquietudine, un torrente di ciò che non c’è. Era la mia aurora.
Eppure nulla viene più forte della realtà. Scrivendo ho tralasciato gli affetti, ho troncato ancor di più i rapporti con tutti, ho perso cose meravigliose, chiuso qui in questa camera, ero ossessionato da chissà quale capolavoro. Il mio non era Amore, ma un odio… Come se non bastasse, i miei, d’accordo su qualcosa dopo anni, mi hanno imposto di smetterla. Mi hanno impedito di scrivere, contrari al mio sogno. L’unica caverna che accettava i miei pianti, in mezzo a tanti boschi di nullità, mi è stata proibita. Non sai quanti pomeriggi passai a piangere, senza nessuno accanto. Ho perso tutto. Per questo ti scrivo: non c’è muro che non si scalfisca a forza di dolore. Sono distrutto, non ho amici, né famiglia, i miei m’impongono ciò che odio. La scrittura era l’ancora per un mondo nuovo, vivere è una dannata disperazione.
Tu, di tutto questo, non sapevi, eri sul lungomare, o sulla piazza, o alla fontana a divertirti. Sei diversa; non vuoi scappare dalla famiglia, ma ritornarci. Sei l’unica persona sincera che so, mi hai aperto tutto il tuo dolore, mentre fuori eri sempre allegra e sopportavi, passando il tempo a scherzare.
Ho sbagliato. Allontanarsi dagli altri non ti porta via. Ecco perché non valgo niente, l’ho scoperto troppo tardi. La tristezza, l’odio e l’invidia, sono attraenti deserti. I sogni non servono a nulla se non siamo uniti! Non scrivo perché è bello, c’è una magia che mi aspetta da sempre: la scrittura nasce dal conflitto, dal silenzio, dalla solitudine, ma serve solo per l’Amore; non è per gli egoisti, i diversi, i pazzi, è per l’Amore di tutti. La verità è che non ho lottato, non ho amato, mi sono abbandonato! Sono sempre qui, solo nella casa ai piedi della montagna, non sono fuggito da questa terra di matti… ho sempre bramato essere come te. Ora dici che per mancanza di tempo e di soldi non reciti più, ma sai che in fondo non è così. Sei caduta nella trappola della distrazione, e per le uscite, gli scherzi, i vari passatempi, hai perso la forza di andare avanti. Non ti è rimasto più niente. Ma se il teatro è la tua sorgente, inseguilo, esprimilo, fallo diventare la felicità degli altri! Non ti puoi arrendere! So che sembro ridicolo, ma serve essere ridicoli per rendere felici. Non cadere nella realtà, quella malattia di dare tutto per scontato! E sai perché? Spariremo, è il nostro tormento… Io, solo, imprigionato nella fantasia, sono diventato pazzo e noioso. Oramai soltanto amando, come hai fatto tu, trovo il mio tutto. Il resto non esiste, oppure è un’interpretazione del dolore, dell’Amore. È il segreto della scrittura, del teatro, della vita. Non si vive senza amore, è come un giorno senza aurora.

Getta un’occhiata fuori. È notte. Troppo tardi per pensare alla lettera, al passato, al suo sogno… Posa il foglio, spegne ogni luce. Torna a letto e prova a prendere sonno, ma non ci riesce. Doveva averla messa di nascosto, quando venne a chiedere scusa e lei lo cacciò. Chissà cosa voleva dire…
«Sofia, Sofia!» la stanno chiamando, sul lungomare. I lampioni giallo acceso tengono viva la strada. Dalla parte opposta, in lontananza, vede sua madre piangere; vorrebbe correre da lei, lasciando tutti gli altri. È stata la bellezza delle uscite notturne, la libertà delle ragazzate, a farle perdere la bussola. Ma non può vivere sola. Suo padre fuma su una panchina, sta troppo male, ma nonostante tutto le sorride. Le ricorda quando disse che l’adolescenza non è una malattia; è invece sì, lo sanno tutti, e che tumore al cuore… Deve fare qualcosa, non può sprecare tempo. Inizia a correre verso il mare, sempre più forte. Si tuffa. Su un palcoscenico, sola, legge la lettera. E piange, piange così tanto perché sa che il teatro è il suo unico modo per essere felice con gli altri. Le altre cose non le interessano. È durissimo andare avanti. Non ci riesce, lascia il foglio lì. Scappa…
«Sofia, Sofia!» Non sono le voci dal lungomare, sua zia l’aveva avvertita che l’avrebbe svegliata presto. Stavolta, non è stato un fastidio. Potrebbe alzarsi e mettere in ordine, continuare come sempre, ma quelle parole hanno centrato il bersaglio. Nessuno sfugge alla propria fragilità, nessuno è un direttore d’orchestra. Il tramonto, l’alba, il mare, sono tutte apparenze per non fare i conti con sé. Guarda per l’ultima volta la stanza, sorride e apre la finestra: una prima luce sincera le si nasconde tra i capelli. Deve vivere.

Pubblicato: 23 Maggio 2022
Fascia: 13-15
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