«Prego, si accomodi». «Mi siedo o mi distendo?». «Come si sente più a suo agio». «È la prima volta per me, sono in imbarazzo». «Non si preoccupi, è normale. Ora mi racconti tutto dall’inizio». «Scusa tu, ma mi hai sentito?!». «Sì, signora. Adesso la faccio scendere». Sul 63 è sempre così: gente accalcata e spazientita. Il posto migliore è quello di fronte alle porte. Lì si trova il sollievo di un po’ di spazio, anche se pagato con l’obbligo di far passare chi scende e chi sale. La signora dietro di me continua a toccarmi la spalla con la punta dell’indice. Si aprono le porte, scendo, scende la signora, risalgo. Spero in un grazie, sento solo: «Ecceaifatta!». È una giornata calda e l’autobus puzza mostruosamente di sudore, aspetto con ansia la mia fermata: una brezza d’aria fresca uscendo, il conforto del divano di casa. Appoggio la testa al vetro della porta e il tremolio dell’autobus mi attraversa tutto il corpo. Guardo fuori la città che scorre, con la mente sgombra, senza pensare a nulla. Strade, palazzi, fontane, giardini, Roma, la mia fermata, finalmente casa. «La prossima è Barberini?». Mi giro e vedo un uomo elegante, occhi a mandorla, reflex al collo e una guida della città nella mano destra. Mi guarda sorridente. «No, ancora quattro fermate». «Grazie. Sei fortunato sai? Voi romani lo siete. Guarda» mi dice indicando fuori. «Guarda la bellezza di questa città. Sono passati vent’anni da quando arrivai la prima volta. Guarda i palazzi, la traiettoria imprevedibile che regalano alle strade che a loro volta si aprono in piazze inaspettate. E gli stretti vicoli del centro che conducono in un mondo protetto dalla frenesia di turisti, taxi e autobus. Roma con i suoi segreti. E poi le fontane, i grandi alberi che costeggiano i viali, i giardini: questa città è un sogno, uno di quei sogni da cui non vorresti svegliarti mai». Non ci stavamo guardando negli occhi. Lui parlava e io ascoltavo. Entrambi fissavamo fuori dal finestrino dell’autobus. Provavo a scoprire quella città onirica di cui lui si era innamorato. Era sempre stata lì e scorreva velocemente dietro il finestrino di un autobus affollato da gente troppo impegnata per ammirarla davvero. «Come è nata questa passione?» domandai ingenuamente. «Quando ho visto il tramonto sui tetti, gli aperitivi nelle piazze, le serate romane a Campo de’ Fiori e a Trastevere. Quando ho guardato il Tevere passare fra gli argini e scorrere sotto i ponti di marmo. Roma è una bellezza troppo grande per non volerne farne parte». Guardando fuori, riflettevo: aveva saputo descrivere un sentimento che ora capivo di condividere, ma di cui fino a quel momento non ero stato cosciente. Fretta, pigrizia, disattenzione: non so perché, ma avevo trascurato la mia città. Spostando lo sguardo all’interno dell’autobus, mi accorsi che l’orientale non c’era più, era sparito. Non l’avevo nemmeno visto scendere. Attraverso le portiere aperte si vedeva invece la fontana di piazza Barberini, bellissima, sovrastata dal tritone. La guardai fino a quando l’autobus non ripartì. Solo in quell’istante mi accorsi di come tutti dentro l’autobus mi fissassero con una strana espressione: gli sembravo così strano? Da quel giorno l’autobus aveva acquistato un nuovo aspetto ai miei occhi, ora di colpo curiosi della città. Era diventato una lente d’ingrandimento, un modo per scrutare meglio le meraviglie di questa Roma che adesso volevo assolutamente scoprire. Ormai guardavo sempre fuori dai finestrini per carpire ogni dettaglio possibile. Anche quel lunedì. Erano circa le sette, un’ora insolita per me, ma volevo essere puntuale all’appuntamento. In realtà, non mi ricordavo né quando né come il turista giapponese mi avesse convinto a muovermi così presto. Ero vicino alle porte centrali, quando sentii un respiro affannato che mi alitava sul collo. Voltandomi, vidi un uomo sudato che borbottava qualcosa, inspirando ed espirando affannato. «Di nuovo in ritardo, non arriverò mai in tempo!». Poi guardandomi disse: «Che poi, mica scappa San Pietro, no? Rimane lì insieme al Papa!». Imbarazzato, feci un cenno con il capo come per dargli ragione. «Ma vallo a dire a quei cinesi che mi staranno già aspettando. Ti pare vita questa?!». Di nuovo con un po’ di imbarazzo abbozzai un sorriso e poi ripresi a guardare fuori, eravamo quasi arrivati a piazza San Pietro. «Perdona lo sfogo, ma questi autobus non sono mai puntuali. Ne passa uno ogni morte di papa, appunto!». «Occhio a dirlo ad alta voce, da queste parti qualcuno potrebbe prenderla male» replicai scherzando». Gli scappò una risata e mi tese la mano: «Mi chiamo Luca, faccio la guida turistica. E come avrai capito, sono sempre in ritardo. Ormai sono anni che porto la gente a San Pietro, al Colosseo, ai Fori Imperiali, a Fontana di Trevi. Ma non mi stanco mai. Voglio dire, non ho mai gli occhi sazi delle meraviglie di Roma. Eppure è tanto tempo che faccio questo lavoro, ma ogni giorno è sempre come se fosse la prima volta. Certe cose non smettono mai di mozzarti il fiato. Loro non amano questa città come noi romani, i turisti intendo. Sì, la guardano ammirati, fanno dei grandi “oohh”, ma non gli entra davvero nel cuore. Perché essere romano porta con sé un senso di appartenenza, ti fa sentire di volta in volta un critico d’arte, uno scultore, un grande imperatore, un gladiatore. Ognuno di noi si sente parte di tutta la storia che è passata per questa città. Loro la guardano sì, ma in maniera diversa. Ora dimmi tu, chi ce l’ha il Vaticano oltre a noi, eh?». Attraverso i finestrini dell’autobus intanto vedevo apparire piazza San Pietro in tutta la sua monumentalità. «Sì, d’accordo. Questi autobus faranno schifo perché puzzano, sono rumorosi, sono scassati, non passano mai, però dico: ma in quale altro posto del pianeta da un mezzo pubblico si possono vedere tante meraviglie tutte insieme? Io amo l’arte, l’arte è tutta la mia vita e di conseguenza come posso non amare Roma? Un luogo dove pure se guardi per terra puoi trovare qualcosa di bello». L’autobus si fermo e lui, dopo un cenno di saluto con la testa, si mise a correre verso la piazza, scomparendo fra la folla di turisti che riempiva San Pietro. Quelle due strane figure, l’orientale con la reflex e Luca la guida turistica, iniziai a incontrarli spesso. Capitava frequentemente che l’uno o l’altra si sedesse qualche posto davanti a me sul mio autobus o che di sfuggita li vedessi attraverso il finestrino. Io accennavo un gesto di saluto e loro mi rispondevano sempre. Intanto, le mie giornate trascorrevano freneticamente fra mille impegni e attività: la scuola, il nuoto, gli amici, le partite della Roma. Ma ciò nonostante, le battaglie combattute con mia madre non avevano dato risultati: fino ai 18 anni niente motorino. I mezzi pubblici quindi continuavano “piacevolmente” a fare parte integrante della mia vita e la puntualità diventò una parola molto elastica, ma non era necessariamente un male. Riuscivo infatti a godermi ogni spostamento, guardando fuori e osservando ciò che mi circondava. Roma non era solo energia e arte come la descrivevano i miei due nuovi conoscenti, per me era molto di più. Lo capii meglio quando partii. Sei mesi all’estero, lontano da famiglia, amici e dalla propria città. Anche lì prendevo i mezzi pubblici, ma non era lo stesso. Quando tornai, mi bastò un’occhiata intorno per sentirmi di nuovo a casa, prima ancora di essermi buttato sul divano del salotto. Guardando fuori dal trenino che collegava Roma all’aeroporto pensai: finalmente. Tutto intorno a me si muoveva e cambiava ma Roma era lì, immobile e imperturbabile. Un punto fermo, un’àncora alla quale aggrapparsi, una certezza indiscutibile. Anche Luca e il giapponese con la reflex erano d’accordo con me. «Vede, lei afferma di conoscere dei pensieri che non sono suoi, ha dei ricordi vaghi e tutto spesso sembra ruotare intorno a queste due figure. Le chiedo, c’è mai stata una terza persona in presenza di Luca e del turista orientale che abbia interagito con loro oltre a lei? O ancora, ha mai visto entrambi gli uomini nello stesso momento?». «No, non mi pare. Ma che c’entra?». «Io ho il sospetto che lei soffra di leggeri episodi di disturbo dissociativo dell’identità, o di personalità multipla se preferisce. Il paziente che ne soffre spesso tende a creare altre identità che a volte prendono il sopravvento sul comportamento del soggetto. Nel suo caso si tratta di queste due persone: Luca, la guida, e il turista asiatico. Aspetti, ma dove sta andando?». Ero sconvolto, le gambe andavano da sole, respiravo a fatica. Vidi passare un autobus e ci salii sopra, sperando che mi portasse a casa. Davanti alle porte, un ragazzo più o meno della mia età aveva un libro di storia in mano e mi guardava con una certa insistenza. Poi si voltò verso il finestrino e puntando il dito sul vetro disse: «Roma è li, immobile».