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Ritornerò

Una ragazza sta leggendo un libro seduta accanto alla finestra. La storia la prende tanto che non riesce a staccare gli occhi dalle pagine. Mentre segue con attenzione la vicenda che assorbe tutta la sua attenzione, sente un improvviso rumore che sale dalla strada. Sarà stato un incidente, si dice. E riprende a leggere. Ma subito dopo ecco un altro colpo. Il vetro della finestra trema. Perfino il libro trema fra le sue mani. Ma lei non vuole a nessun costo staccarsi dalla pagina. Che mi importa di quello che succede in strada! si dice. Al terzo colpo però è la casa intera che si scuote e traballa. E lei non può fare a meno di alzarsi e avvicinare la faccia al vetro. Quello che vede le fa cadere il libro dalle mani…

In quel preciso istante entra suo padre Edoardo, che le dice di seguirlo immediatamente.

Sta succedendo di nuovo: un altro bombardamento. Corre in corridoio e prende per mano le sorelle. Sua madre la aspetta già sulla porta. Nei suoi occhi si legge un istante di smarrimento: il libro. Lo ha lasciato per terra. Corre di nuovo di là e lo afferra, lo nasconde sotto il cappotto, non vuole che i suoi genitori vedano che è tornata indietro per prendere quel libro dalla copertina rossa tutta rovinata che porta sempre con sé e che non fa sfogliare a nessuno.

Lei è cresciuta nella guerra. È esperta di freddo e paura.

Ha solo quattordici anni, ma ha già lo sguardo di una donna, quegli occhi grandi frugano nel mondo alla ricerca di ciò che gli altri non vedono, alla ricerca di vite vissute negli occhi degli altri.

Un istante dopo sono in strada. Gli aerei alleati che fendono l’aria provocano un rumore assordante, tutti corrono fra la polvere, con il terrore dipinto sul volto. Il rifugio è pieno di gente che piange, qualcuno prega, qualcuno non riesce a trattenere le urla di paura. Una delle sue sorelle, Paola, singhiozza nascondendo il viso e bagnando di lacrime il cappotto sgualcito di sua madre. Lei no, non piange mai, suo padre l’avrebbe schiaffeggiata. «Le ragazze», avrebbe sibilato, «le ragazze non piangono». Sua madre cinge con le braccia lei e le sorelle, le bacia sulla fronte, le rassicura.

«Andrà bene», dice, «andrà bene». Suo padre, con le spalle poggiate al muro, fissa un punto lontano davanti a sé. «Gli uomini», dice sempre, «gli uomini non hanno paura».

La terra continua a tremare, i cani abbaiano, i bambini strillano, le porte e le finestre fremono, pensa, come una donna per una carezza lungo la schiena.

Mentre le bombe cadono come grandine si chiede dove sia lui in quel momento, se pensi mai a lei prima di farsi cullare dal sonno o mentre cammina spedito per le strade affollate. Il cielo, quel giorno, ha lo stesso colore degli occhi di lui: azzurro con pennellate di grigio malinconia.

Mentre aspettano che tutto finisca stipati nel rifugio, lei con i pensieri dissolve la cappa di paura che la circonda e annega nei ricordi…

Era una sera fredda del novembre 1943. Suo padre aveva portato a casa due sconosciuti travestiti da ferrovieri.

«Loro sono Nigel e Gordon» disse, incurvando leggermente la schiena per avvicinarsi al suo viso. «Sono amici» la rassicurò. «Di’ alla mamma di dar loro del latte caldo e delle coperte e di chiudere le tende».

Quella sera suo padre raccontò la storia di Nigel e Gordon. Erano soldati dell’esercito britannico, fatti prigionieri e messi su di un treno diretto in un campo di concentramento tedesco. Ma erano scappati, saltando dal treno in un tunnel vicino Firenze. «Rimarranno con noi per qualche tempo» disse «dormiranno nella tua stanza». Poi ribadì: «Le persiane devono rimanere chiuse per non far insospettire i vicini, è una questione di massima importanza e segretezza».

Lei non riuscì a dormire quella notte, in corridoio. L’orologio a pendolo scandiva rumorosamente le ore e la luna proiettava sui muri bianchi figure minacciose che riempivano i suoi sogni. Nella sua stanza dormivano due soldati che si erano lanciati da un treno per salvarsi la vita. Erano i suoi eroi.

Nigel e Gordon restarono chiusi in casa circa un mese; Lei trascorreva con loro tutto il tempo possibile, affascinata da questi uomini che venivano da paesi lontani, Paesi dove c’era libertà.

Gordon era così bello, alto, biondo, dalla figura sottile, con l’aria gentile e smarrita e gli occhi giovani ma pieni di cose già viste.

In quel periodo suo padre ogni tanto la mandava in missione, andava così fiera del suo nome nella Resistenza: Emilia, la chiamavano Emilia, e con questo nome le facevano recapitare messaggi, manifesti, giornali, e quando doveva trasportare una bomba a mano, scavava una grossa buca e ce la infilava dentro. Quando non doveva aiutare il padre nella Resistenza e non aveva da studiare si intrufolava nella stanza di Gordon e gli faceva mille domande nel suo inglese stentato. Voleva sapere tutto di quell’uomo dal viso bambino, del suo eroe dal sorriso gentile. Lui le raccontava della guerra, della paura, della sua casa lontana, le raccontava che un suo amico al fronte era morto fra le sue braccia, che la madre prima che partisse gli aveva regalato una catenina che portava sempre al collo, che una volta tornato a casa sarebbe diventato pianista. Lei gli parlava delle missioni, della scuola, del suo libro preferito dalla copertina rossa e rovinata, Il richiamo della foresta, gli diceva che quando la guerra sarebbe finita avrebbe dovuto leggerlo anche lui.

Era una mattina di novembre, il cielo sfumato da un’alba discreta ospitava stormi infiniti di uccelli, li guardava volare e le mancava il fiato, pensava che le sarebbe piaciuto essere un uccello per essere libera e viaggiare sul mondo. Ma non un uccello qualunque, lei sarebbe stata un’aquila, l’uccello di fuoco, maestosa ed elegante, l’unico essere vivente in grado di guardare il sole, giocare con lui, sfidarlo per poi assimilarne la potenza. Non si accorse che Gordon era in piedi, appoggiato alla porta, che la guardava. La città era ancora addormentata e la casa era avvolta dal silenzio. Lui si avvicinò, le toccò una spalla, lei sussultò, lui avvicinò l’indice alle labbra, poi le prese la mano. Si sedettero l’uno accanto all’altra, lui le carezzò la guancia, piano, lei lo guardò con quegli enormi occhi blu, mai stanchi, e fremette come le porte e le finestre durante i bombardamenti. «Please remember you will always be my little wife» le disse. Per favore, ricorda che sarai per sempre la mia piccola moglie.

Il suo primo bacio lo diede ad un soldato inglese biondo e dal sorriso innocente. Avrebbe sopportato altri bombardamenti, altri schiaffi per avere un bacio come quello.

La guerra, pensò, la guerra non è niente in confronto a un bacio. La morte, pensò, la morte non spaventa gli amanti. Le incursioni nella stanza di Gordon si fecero sempre più frequenti, gli sguardi fra loro sopperivano alla mancanza di parole. Lei era il suo pianoforte e lui era il pianista, con un tocco la faceva vibrare e suonare. Ma la loro armonia era sempre improvvisazione. Stare con Gordon la faceva sentire ribelle come quando andava in missione, e quando toccava la sua pelle chiara le sembrava di sfiorare la libertà e di guardare il sole, come un’aquila. Era ancora bambina, con le trecce nere e la pelle lentigginosa, gli occhi affamati e quel carattere coraggioso, determinato, testardo ma profondamente sensibile, concentrato in un metro e cinquantasei.

«Gli uomini», diceva sempre suo padre, «gli uomini non hanno paura». Si chiedeva se fosse vero, se Gordon quando le baciava il collo non avesse paura, paura di innamorarsi di lei. Gordon, occhi di cielo e capelli di grano, la travolse con una forza dolce e spazzò via ogni altro pensiero, dimenticando così che la guerra faceva da sfondo ai loro baci.

Dalla Resistenza arrivò il via libera per far uscire i due soldati da Firenze. Suo padre le chiese di accompagnare lui, Nigel e Gordon ad Acone, nella zona di Pontassieve, dove alcuni partigiani della zona li avrebbero aiutati a passare la linea del fronte. Quaranta chilometri la separavano da Acone. Quaranta chilometri in bicicletta la separavano da un addio. Il suo primo addio al suo primo amore. Il viaggio fu lungo e pericoloso: se i tedeschi li avessero intercettati la pena sarebbe stata la fucilazione.

Erano in piedi l’uno di fronte all’altra. Non ebbe il coraggio di abbracciarlo. Lo fissò intensamente e lui restò impigliato in una rete nel mare dei suoi occhi blu.

«Se la guerra finisce» disse solo, «se la guerra finisce ritorna». Una lacrima scese lentamente sulla guancia di lui. Lei invece no, non pianse nemmeno allora. Lei è un guerriero celato nel corpo di una esile quattordicenne.

«War will end and i will return». La guerra finirà, promise lui, la guerra finirà e io ritornerò.

Restarono immobili ancora un istante. Quando la lacrima gli scese sul collo si voltò. Lei vide per l’ultima volta le sue spalle ossute.

Il rumore degli aeroplani è svanito lentamente nel cielo di nuovo sereno. Fra i presenti qualcuno è già uscito dal rifugio per monitorare la situazione. Lei e la sua famiglia escono poco dopo per fare ritorno a casa. Lei si raggomitola sulla poltrona di velluto marrone e finalmente tira fuori il libro dal cappotto. Ne bacia la copertina rossa rovinata, è Il richiamo della foresta di Jack London. Lo apre e ne estrae un foglietto spiegazzato che porta la data del 14 dicembre 1943 e il suo nome, Oriana.

Poco più in basso, con caratteri minuti e disordinati c’è scritto: Gordon sends his love to his little wife.

Gordon manda il suo amore alla sua piccola moglie.

Postilla: le vicende riportate sono state liberamente tratte dalla biografia di Oriana Fallaci e, pertanto, sono in parte realmente avvenute. Per tutta la vita Oriana conserverà la lettera di Gordon e cercherà di rintracciarlo in ogni modo, senza successo.

Pubblicato: 1 Giugno 2021
Fascia: 19+
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