Quindici minuti: dai dieci ai venti. Questa è la durata della cosiddetta fase REM, la fase di sonno profondo dove si riesce a sognare e avviene dopo novanta minuti circa di sonno. Un’improvvisa paura mi sveglia, mi guardo intorno in quella camera asettica, bianca, piena di medicinali e flebo, cercando con lo sguardo l’interruttore della luce posizionato, come per sfregio, lontano dal letto.
La luce si accende, ma quasi controvoglia: inizia con una leggera intermittenza che diventa via via più intensa fino ad accendersi completamente con un lieve e fastidioso ronzio; la mia attenzione si posa sull’orologio a muro che segna l’una e mezza di notte, facendomi rendere conto di essermi svegliato anche stavolta nel cuore della notte; allungo il braccio verso il tavolino per prendere le pastiglie di melatonina, lasciate dall’infermiera ultra-sessantenne che paragona ossessivamente delle pastiglie per dormire a droga pesante, me la rivedo davanti agli occhi mentre stringo nelle mani quelle pillolette bianche, lei e i suoi occhi giudicanti. Non ci penso oltre e le butto giù. Alla faccia tua, vecchia. Buio. La voce profonda e irritante dello psicologo arriva a svegliarmi in tarda mattinata e, cercando di essere cortese, dice: «Buongiorno Nathan, hai fatto colazione?». «No» rispondo ricacciandomi la faccia nel cuscino. «Posso dormire ora?» Non ho nessuna voglia di intavolare discussioni con lui. «La seduta era alle dieci, sono le dodici. Non pensi di aver già dormito abbastanza?» Il camice bianco lo fa sembrare ancora più basso e l’unica cosa che riesco a notare, al di fuori della sua barba folta, è il suo sguardo corrucciato pronto a giudicarmi per l’ennesima volta. Mi alzo senza rispondere alla sua domanda, palesemente non sarcastica, e cerco di dirigermi verso il suo studio senza guardare le pareti bianche attorno a me che tappezzavano l’intero corridoio. Mi siedo, aspettando che, come al solito, inizi a parlare cercando di far uscire qualcosa da me, ma questa volta rimane muto e fa uscire dalla tasca una foto piuttosto piccola per poi riporla davanti a me. La osservo, sento vuoto e paura, tanta paura: lì, dinanzi a me avevo una mia foto dove sorridevo spensierato, con lei, lei che mi aveva ridotto a nulla, distruggendomi fino a portarmi qui. Guardo lo sguardo di quel maledetto che credeva di aver fatto un bel gesto nei miei confronti, mentre la voglia di andarmene era sempre più alta. «Cosa ti fa provare questa foto?» Lo sa, questa stronzata serviva per farmi sfogare? Non penserà mica che io gli conceda questa soddisfazione? «Nulla.» «Cosa vedi?»
Non te la do vinta.
«Ma è una ragazza, è una normale foto.» «Questa foto è stata scattata il primo maggio 2019, qualche mese prima del tuo primo ricovero, ricordi?» Bastardo, dove l’ha trovata? «Sfortunatamente ho una memoria a breve termine che lavora male, dottore. Dovrebbe saperlo che i ricordi non sono il mio forte.» Alza un sopracciglio, cercando di non far notare il suo disappunto nei confronti delle mie risposte pungenti. «Puoi tenerla se vuoi, magari il tuo inconscio potrebbe ricordare qualcosa durante la notte.» Prendo la foto, per poi alzarmi e uscire dalla porta di quello studio, troppo buio per i miei gusti, ignorando il saluto del dottore seduto dietro la scrivania; cerco disperatamente di mantenere lo sguardo dritto verso la porta del bagno, sperando di non scoppiare a piangere lì, in mezzo al corridoio. Mi chiudo dentro, provando a scaricare all’interno del cesso quella maledetta foto e lei, più la guardavo e più mi sentivo male, come se la stanza si rimpicciolisse e io ero il bersaglio da schiacciare. Volevo scappare dai miei pensieri, dalle mie paure. Era così tanto complicato essere normale e stare bene? Forse sì, la mente umana è così complessa da capire che nemmeno mi ci impegno ormai, a ogni azione corrispondono mille pensieri, mille paranoie da cui scappare per ostentare una vita normale. Caldo. Sento solo caldo mentre guardavo la foto che veniva risucchiata dall’acqua dello scarico, la stanza è sempre più piccola, corre verso di me quasi a volermi distruggere. Il caldo si fa più intenso, fino a offuscarmi la vista e mostrarmi la tranquillità che il buio mi regala. Mi sveglio da solo nella mia stanza, a fianco ho una pillola bianca con un foglietto che riporta, scritta con una grafia appena leggibile «Ingerisci a stomaco vuoto», ingoio la pillola senza pensarci e mi rendo conto, sentendo dei passi, che qualcuno è diretto proprio nella mia stanza. La porta si apre e entra quello che definivano «psicoterapeuta» ma che per me era solo un maledetto che non sapeva farsi i fatti suoi. «Ben svegliato, hai una visita.» «Non voglio vedere nessuno, può andare via.» «Mi spiace ma sono costretto a insistere, servirà a farti stare meglio fidati.» E la vedo, lei, è proprio lei a entrare in quella stanza, lei che non vedo da anni è tornata, per cosa? Per distruggermi di nuovo ? Il suo volto sorridente continua a guardarmi sperando in una risposta, mentre quello del dottore mi scruta come se volesse trapassarmi la mente per leggere i miei pensieri. Mi guardano e io non riesco a calmarmi, non riesco a capire ciò che sta succedendo, ho solo paura, troppa. La voglio via dalla mia vita, non riesco a trattenere tutte le emozioni che prendono possesso del mio corpo fino a farmi svenire per l’ennesima volta, facendomi vedere come ultima immagine il suo volto in preda alle urla.
