Era la fine di una monotona mattinata di aprile del mio primo anno di superiori e sotto una pioggia oramai incessante, armata solo di un ombrello, correvo verso la fermata dell’autobus fuori scuola, per cercare riparo tra la massa di studenti che si stringevano gli uni agli altri sotto alla tettoia, per non tornare a casa zuppi d’acqua. Avevo le cuffiette e ascoltavo, isolata, della musica, quando mi sentii scuotere dalla spalla, mi voltai e vidi un volto noto: era una ragazza che avevo già incontrato spesso in quello stesso luogo, ma con la quale non avevo mai parlato e spesso da lontano ci eravamo lanciate sguardi incuriositi. Con un filo di ansia nella voce, mi chiese se il suo pullman fosse già passato e io, regalandole un sospiro di sollievo, le risposi di no; così cominciammo a chiacchierare del più e del meno, finché l’arrivo delle vetture fece cessare bruscamente quel momento. Una volta salita, non riuscivo a smettere di sorridere e continuavo a ripensare a lei, con quei suoi occhi talmente azzurri che ti ci potevi perdere dentro e i ricci di un castano chiarissimo, che al sole avevano striature bionde. Dopo mi accorsi di un fatto: non le avevo chiesto il suo nome e lei non sapeva il mio; sperai solo di rivederla al più presto e nel mentre iniziai a chiedermi perché in sua presenza mi fossi sentita in quel modo, così rapita da lei, da dimenticare tutto ciò che c’era intorno. La rincontrai nei giorni e nelle settimane successive e oramai io e Agnese, questo è il suo nome, eravamo diventate molto amiche, avevamo un forte legame, ci scrivevamo tutti i giorni e a questo punto, la parte migliore della mia giornata, era vederla, anche se per pochi minuti, allo stesso posto, fuori scuola. Poi semplicemente un giorno non si presentò, né a scuola né alla fermata, e la stessa situazione si protrasse per due settimane, in cui io mi accorsi di non riuscire più a essere felice senza di lei. Inaspettatamente, quando avevo già perso le speranze, visto l’anno scolastico che stava per finire, vidi una figura, che mi correva incontro, sotto al caldo fin troppo afoso dei primi giorni di giugno, e prima ancora che io potessi capire chi fosse, si era già fiondata tra le mie braccia, nonostante l’arrivo dell’estate, mantenemmo quell’abbraccio per svariati minuti e mi sentii di nuovo completa con lei al mio fianco, la guardai in quei suoi occhi meravigliosi e provai il desiderio di baciarla, e al solo pensiero arrossii; poi ci salutammo come di consueto all’arrivo dei rispettivi autobus. Appena mi soffermai a riflettere su quanto era successo, mi fu molto difficile ammettere quella verità a me stessa: mi piaceva Agnese, avevo una cotta per lei e anche bella grande; fui pervasa da un’enorme paura riguardo a ciò che avrebbero detto e pensato tutte le persone che conosco. Mi crederanno diversa o sbagliata o anormale? Amerò mai? Sarò mai amata da qualcuno? E se quello che sono non andasse bene? E se forse è così? Se io fossi davvero sbagliata? Se fossi io quella in torto? Sarò mai capita? Se lo raccontassi a qualcuno sarebbe ancora disposto a volermi bene? Smetterò mai di sentirmi sbagliata per questa cosa? Già da diverso tempo credevo che potessero piacermi le ragazze ma quando, in buona fede e con innocenza, l’avevo raccontato ad alcuni amici e pochi familiari, loro non presero molto bene la cosa, e provarono a convincermi del fatto che quelle sensazioni non fossero vere e sarebbero scomparse con il tempo, dissero che era solo una fase, e se così non fosse? Questa paura aveva messo il suo seme in me e cresceva velocemente, come l’amore che provavo per lei. Un pomeriggio di metà giugno mi mandò un messaggio, nel quale mi chiedeva se l’indomani sera, visto che era sola a casa, sarei potuta venire a farle compagnia; io ovviamente accettai volentieri, e inoltre, sapendo che so suonare, mi chiese di portare con me la mia chitarra, perché era curiosa di sentirmi suonare dal vivo, e non più solo in video. Mi presentai alla sua porta emozionata, era la prima volta che andavo a casa sua, mi aprii accogliendomi con un sorriso e un lieve e dolce bacio sulla guancia; dopo una semplice cena a base di pizza, guardammo un film e poi salimmo in camera sua. La stanza era grande e spaziosa, situata nella mansarda, proprio dove c’è il tetto, con una grande finestra sul soffitto da cui si vedevano le stelle, ed era illuminata da una luce tenue e calda. Ci sedemmo sul suo letto, una di fronte all’altra, io preparai qualche accordo per accordare la chitarra, lei mi disse solo di stupirla; non sapendo che per tutto il giorno avevo studiato Take on me degli A-ha, la sua canzone preferita, solo per lei. Mentre suonavo ogni tanto ci guardavamo negli occhi, sorridendoci e quando finii ne fu entusiasta. Mi ritornò quel recondito desiderio di baciarla, e spostai la chitarra a lato del letto e lei si fece più vicina, diminuendo di molto il già poco spazio che ci separava, fui nuovamente pervasa da tutte quelle paure e mi allontanai un poco, lei credo che capì, perché mi chiese: «Qual è il tuo più grande desiderio in questo momento?». «Baciarti» risposi io di getto, quasi senza rendermi conto di quello che stavo dicendo, arrossii, guardai in basso, e per il terrore di perderla per aver detto una cosa del genere, iniziai ad accampare una giustificazione: «Io… non… intendevo», lei mi interruppe prendendo le mie mani tra le sue, e mi baciò. Sentii una scossa dentro come se avessi un terremoto nel cuore, in quell’attimo abbandonai tutte le mie paure e i miei dubbi, non mi importava più di niente e nessuno, ma solo di lei.