Lorenzo
È sabato mattina e non c’è un filo di vento. Fuori dal finestrino solo ritagli di cielo azzurro. Sono sul tram numero tre per andare in biblioteca, devo concludere delle ricerche per la mia tesi, spero di laurearmi a breve. Nello zaino che ho sulle spalle, oltre ai libri, c’è la macchina fotografica che porto sempre con me. Faccio fotografie perché a parlare non sono bravo. Una fotografia racconta in un attimo ciò per cui servono mille parole e non fa arrossire, una fotografia non fa tremare le labbra o sudare le mani. Passerei ore a osservare le persone: come muovono le mani, come dondolano la testa mentre ascoltano la musica, come sorridono all’improvviso per un solo intimo pensiero. Seduta davanti a me in questo tram verde sala d’aspetto una donna di colore dalle labbra belle guarda fuori dal finestrino e i suoi occhi riflettono l’azzurro di chissà quale sogno. Accanto a lei un uomo con la fronte corrucciata la guarda con disprezzo e borbotta toccandosi la barba folta. Poco più indietro una bambina dalle trecce bionde stringe la mano di un uomo dall’aria annoiata e guarda un bambino sui dieci anni che ha occhi solo per il suo cellulare. L’uomo seduto a fianco della donna continua a scuotere la testa, il suo borbottare si fa sempre più forte, fino a diventare maleducato. Poi all’improvviso, stavolta ad alta voce, dice con cattiveria «Tornatene nel tuo paese, qui non ti vogliamo». La donna si gira, lo fissa con i suoi occhi grandi, con fermezza, senza paura, e lo incenerisce con lo sguardo. L’atmosfera sul tram si congela, la maggior parte delle persone fa finta di niente nascondendosi dietro gli smartphon o frugando nelle borse. Solo la bambina bionda osserva la scena con gli occhi spalancati, più curiosa che impaurita, mentre l’uomo a cui stringe la mano è visibilmente sdegnato. Vorrei dire qualcosa, fare qualcosa, avere coraggio. Ma è per questo che faccio fotografie: perché non ho coraggio, perché a parlare non sono bravo, mi trema la voce e mi sudano le mani. Ma poi, inaspettate, parole decise scivolano dalla mia bocca e con un tono che non conosco affermo: «Si vergogni!». Non posso credere di averlo fatto davvero, mi guardo intorno preoccupato delle reazioni che potrei aver suscitato mentre l’uomo riprende a borbottare abbassando gli occhi. Sembra che stamattina in viale Regina Margherita i passeggeri del tre mi sorridano con ammirazione e stupore. La bambina mi scruta inclinando la testa. Le porte si aprono e la donna dalle labbra belle scende. Scendo con lei.
Miriam
È un sabato mattina dall’aria immobile. Sono sul tram numero tre per andare a trovare la mia amica Lucia, davanti a me c’è un ragazzo magro con i capelli spettinati; in piedi, a fianco a un uomo assorto nei suoi pensieri, un bambino e una bambina dai capelli dorati, come non esistono a Mogadiscio. Vivo a Roma da quattro anni ma il mio cuore è rimasto lì. Il cielo azzurro profondo fuori dal finestrino mi ricorda il mio mare. Mi chiamo Miriam. E il mio nome significa appunto “goccia del mare”. A Mogadiscio c’è il mare, bad, ma c’è anche la guerra, dagaal, che sta distruggendo il mio paese. Prima il conflitto contro l’Etiopia e la dittatura di Siad Barre, poi la guerra civileele persecuzioni. Anche contro mio padre e la mia famiglia che si è sempre opposta al regime. A Mogadiscio il vento profuma di salsedine, di thè allo zenzero e di cardamomo. A Mogadiscio le donne si vestono di stoffe colorate e si incontrano ogni sera sotto la quercia della discussione. Oggi qui a Roma il sole si riflette sulle pozzanghere lasciate dalla pioggia di stanotte. Mi manca la pioggia di Mogadiscio, la pioggia potente di giugno che lava le strade e lascia profumo di terra. Un uomo con la barba si siede accanto a me ma mi guarda con disprezzo sussurrando qualcosa che non riesco a capire. Mi sento sporca quando mi guardano in questo modo, ma il colore della mia pelle non si schiarisce lavandola col sapone. In alcuni momenti non mi sento a casa, daar, non ho ancora la cittadinanza italiana, sono una rifugiata politica. Mi chiedo se questa lingua potrà mai diventare la mia lingua, questa città la mia città, questa storia la mia storia. Roma mi ha accolto e la mia vita è iniziata daccapo: ora non sono più la figlia di un dissidente, di un oppositore, ora posso essere chiunque io voglia, ma nonostante tutto alle volte mi sembra di non poter essere nessuno. Qui a Roma ho incontrato persone che mi vogliono bene, persone che mi sono state vicine quando pensavo di crollare, come Marta, la mia vicina di casa, che mi ha insegnato a cucinare la carbonara, o come Luca, l’uomo che ha asciugato le mie lacrime, salate come il mare di Mogadiscio. Eppure alle volte non potrei sentirmi più straniera: mi sento straniera quando mi guardano come mi sta guardando quest’uomo, quando non trovo la parola giusta. Mentre mi alzo per prenotare la fermata, il suo borbottio si fa sempre più insistente, fino a quando urla: «Tornatene nel tuo paese, qui non ti vogliamo». Lo guardo, non ho paura di lui, non è la prima volta che mi dicono una cosa del genere. Il ragazzo spettinato che era seduto davanti a me si alza, guarda con rabbia l’uomo con la barba, gli dice con decisione: «Si vergogni!», e l’uomo ricomincia a borbottare con gli occhi bassi. Scendo, sono arrivata. Il ragazzo scende con me.
Antonio
Sono su questo tram solo perché non voglio stare a casa, dove mia moglie si lamenta e guarda la televisione, guarda la televisione e si lamenta e mi dice che sono buono solo a bere birra. In effetti è questo che faccio da quando ho perso il lavoro, ed è quello che farò anche oggi sotto questo cielo tanto azzurro che mi fa rabbia. Mi siedo mio malgrado accanto a una donna di colore. Guardo fuori dal finestrino e non riconosco più la mia città: negozi cinesi con lanterne rosse, ristoranti di sushi e kebab, fruttivendoli egiziani, venditori ambulanti africani. E il chiosco di fiori del mio amico Giuseppe? Il barbiere? La trattoria dove andavo la domenica con Paola? Neanche l’ombra. Finalmente si è alzata. Era ora! Questi immigrati sono troppi, li manteniamo con i nostri soldi, ci rubano il lavoro e non rispettano le nostre leggi. Non è più come una volta, adesso non ci si sente sicuri a girare in metropolitana, a camminare per le strade quando è buio. Le lanterne rosse mi fanno rabbia, trovare il curry al supermercato, vedere uomini col turbante, sedermi vicino ad una donna di colore mi fa rabbia, e mi fa rabbia questo cielo azzurro. «Tornatene nel tuo paese, qui non ti vogliamo», le urlo. Lei mi guarda con occhi neri e appuntiti che non riesco a sopportare, il ragazzo seduto davanti a me si alza e dice che dovrei vergognarmi. Non sopporto gli immigrati come non sopporto chi li difende, chi pensa che si possa convivere pacificamente, che in Italia ci sia posto per tutti quando non c’è posto nemmeno per gli Italiani. Ma sono stanco e abbasso gli occhi per non vedere.
Anna
Finalmente è sabato. Sono sul tram con papà e Giulio, mio fratello maggiore. Stamattina papà ci porta allo zoo visto che è bel tempo e io sono talmente contenta di vedere i leoni che ho messo la gonna nuova. Giulio però dice che papà ci porta allo zoo solo per farsi perdonare, anche se non sono sicura di sapere cosa significa “perdonare”. Papà e la mamma l’altra sera avevano facce strane: papà aveva una faccia arrabbiata, mamma aveva una faccia triste. Ci hanno detto che papà va a vivere con i nonni per un po’, ho sentito la parola “separazione” ma io non sono sicura di sapere cosa vuol dire “separazione”. Mamma ha lasciato la cena nel piatto e papà le ha detto «Mangia Monica che il purè si fredda». Quando abbiamo finito di mangiare io e Giulio siamo andati a vedere Maghi contro Alieni, papà ha chiuso la porta della cucina ma io ho spiato dal buco della serratura e ho visto papà sbattere il bicchiere sul tavolo e mamma piangere mentre lavava i piatti con i guanti gialli. Noi andiamo allo zoo, ma tutti gli altri dove vanno? Dove sta andando quel ragazzo magro con lo zaino? Un uomo con la barba si è messo a urlare contro una donna dalla pelle scura, ma lei non ha fatto proprio niente di male, io ho visto tutto. Non ha fatto i dispetti a nessuno, non ha pianto, non ha rotto niente, ha anche chiesto “permesso” e mamma mi dice sempre che devo chiedere “permesso” quando non riesco a passare. Papà mi stringe la mano più forte. Il ragazzo magro risponde al signore con la barba, poi scende con la donna dalla pelle scura: lui va da una parte e lei dall’altra. Forse, “separazione” vuol dire proprio questo; boh. Il tram riparte. Papà mi accarezza la testa e dice che manca poco. Sono impaziente di vedere i leoni.