Evelyn amava gironzolare per casa, soprattutto in quei giorni di pioggia in cui le nuvole incombevano sulla testa degli uomini senza lasciar trasparire la più flebile luce. Inoltre, la sua non era un’abitazione ordinaria: cinque piani di vetro, uno sopra l’altro, spiccavano nella metropoli in cui abitava, quasi a voler rappresentare una teca, in cui lei e il padre passavano giusto il tempo necessario per rifocillarsi e riposarsi. Del resto, nel quarantunesimo secolo il tempo era oro.
«Evelyn, dove vai?» Suo padre, sempre lui.
Non smetteva mai di controllarla. Da quando lei aveva scoperto le piccole compresse blu che teneva nell’ultimo cassetto in basso a sinistra nella scrivania del suo studio, poi, era diventato soffocante. Chissà perché aveva iniziato a preoccuparsi dell’incolumità della figliola proprio in quel momento.
«Sarà per la crisi», ipotizzava Evelyn nella sua testa. «Però, papà non deve preoccuparsi, non sono mai andata oltre il terzo piano, so che là tiene gli attrezzi per il lavoro, e non voglio ficcare il naso… almeno per ora».
La ragazza rassicurò il padre, facendogli l’ennesima promessa, di non andare a curiosare dove non poteva nemmeno mettere piede, e riprese a camminare per le stanze del secondo piano: arredate con il minimo indispensabile, erano spazi ariosi, ampi, dove la luce del sole giocava a riflettere le forme dei mobili durante le giornate assolate. La sua mente cominciò a viaggiare, arrovellandosi sui soliti interrogativi che assillavano la “bimba” da molto tempo, nonostante i suoi dodici anni.
Spesso infatti le capitava di pensare a come il mondo, nell’interminabile periodo della sua esistenza, fosse cambiato, e a come il padre sostenesse l’esatto opposto, perché «Gli umani non fanno altro che prendere la terra, distruggerla e cementarci sopra per costruire altre case, come se non fossero mai sufficienti». Un’altra cosa che Evelyn aveva sentito dire da suo padre e, prima che se ne andassero, anche dai fratelli maggiori e dalla madre, era che «Il 4008 non è differente dal 2008, in fin dei conti», chissà a cosa si riferivano. In più, da quando la crisi economica aveva iniziato a dare i primi segni di non voler minimamente cessare, nonostante tutti gli sforzi del genere umano, le persone avevano iniziato a scomparire, esattamente come Jacob, Colin e la sua stessa mamma. Quando lei aveva chiesto spiegazioni di ciò all’unico genitore che le era rimasto, questo aveva optato per il silenzio, che si era poi tramutato in paura per ogni passo che lei avrebbe compiuto dal momento in cui aveva scoperto l’esistenza di quelle “caramelline”, come erano apparse ai suoi occhi, custodite gelosamente nello studio. Cosa poteva esserci di così pericoloso o brutto da nasconderglielo?
Calò la notte, ed Evelyn e il padre si rifugiarono nel salotto, uno dei pochi luoghi non interamente ricoperto dalle pareti di vetro, in cui si poteva quindi accendere la luce artificiale senza essere osservati dall’intero vicinato. La ragazza si addormentò, o finse di essersi appisolata, così il padre la portò in camera, e lei si svegliò, due ore dopo, con l’intento che aveva da due anni: andare ai piani alti per svelare il segreto che si celava dietro a quel silenzioso impiegato che era suo padre.
Si alzò senza fare rumore e salì, arrivando al quarto piano: aprendo la porta rimase quasi delusa, era un luogo “fantasma”, colmo di scatoloni contenenti i vecchi mobili che risalivano alla prima casa che i suoi genitori avevano comprato, ancor prima di avere figli. Poi, per un qualche motivo misterioso di cui non aveva alcun ricordo, avevano fatto costruire una casa “degna del loro rango”, forse perché sua madre aveva ricevuto una promozione a lavoro. Insomma, poco importa, questo era tutto ciò che sapeva.
Andò quindi al quinto piano, molto più piccolo rispetto alle sue aspettative: sembrava in tutto e per tutto una vecchia mansarda, e da dentro, forse a causa del buio impenetrabile della notte, pareva che il vetro fosse stato ricoperto da una moltitudine di assi di legno, strato dopo strato, inchiodate senza lasciare nemmeno una minima crepa su di esso. Non c’era granché, solo due lunghi tavoli imbanditi da uno stuolo di ampolle, tutte in vetro, e, nell’angolo più remoto dalla porticina d’ingresso, un lenzuolo macchiato e impolverato che copriva un oggetto dalla forma irregolare parecchio ingombrante. Evelyn si avvicinò piano all’oggetto in questione, quasi come se temesse un’improvvisa esplosione o qualcosa di simile.
Scostò il lenzuolo, scoprendo un marchingegno parecchio rovinato, nonostante sembrasse ancora in grado di funzionare. Un minuscolo brandello di carta attaccato alla buona sulla base dell’invenzione riportava la scritta Macchina del tempo – distruggere. Evelyn ne rimase talmente stupita che incespicò nei suoi stessi piedi, cadendo sulla macchina e schiacciando un pulsante che ne provocò l’accensione.
Dopo pochi minuti, la ragazza era già tornata nel medesimo posto in cui era poco prima, con una forte emicrania e la mente affollata da tutte le cose che aveva visto in un lasso di tempo così contenuto: l’intera storia dell’umanità, dalla nascita dell’universo a quello stesso giorno. Dagli avvenimenti che la macchina le aveva permesso di osservare, Evelyn comprese che la visione cinica del padre era purtroppo corretta, perché era proprio l’uomo che aveva creato tutte le situazioni sgradevoli in cui si era poi trovato a combattere. Persino la crisi. Addirittura, la morte di sua madre, di Jacob e di Colin, voluta da suo padre.
Con le lacrime che le annebbiavano la vista, Evelyn scese in fretta e furia fino al secondo piano, incurante del rumore che avrebbe potuto svegliare il padre. «Che venga pure a sapere che ora ho capito tutto, non mi interessa», si ripeteva la ragazza nella testa. Spalancò la porta dello studio, cercò a tentoni nell’oscurità l’ultimo cassetto in basso a sinistra della scrivania e inghiottì una di quelle compresse blu, le stesse che avevano fatto scomparire sua madre e i suoi fratelli.