Non si può più continuare così. Ogni giorno lo stesso sedile, il solito vecchio volante scrostato, il solito giro capolinea-capolinea, le solite buche nell’asfalto sempre più voragini, i soliti insulti di quelli che ti stanno dietro perché non ti dai una mossa a superare quelli che hai davanti. Mi tengo in equilibrio come un fenomeno da circo tra fogli di servizio, scioperi un venerdì su due, il sollievo del ventitré del mese e l’angoscia che mi prende alla gola già il ventiquattro. Le mie giornate scorrono uguali come la strada che sfila sotto le ruote fatte avanzare a fatica su questo colabrodo che qualcuno ha ancora il coraggio di definire “Comune di Roma”. Io la chiamerei più “Terra di Nessuno”, che Roma è tutta un’altra cosa. Sono completamente tagliato fuori. Ogni sera me ne vado a dormire con la paura che il domani possa assomigliare sempre un po’ troppo a oggi, tra questi palazzoni grigi a graffiare il cielo in maniera prepotente, quasi maleducata. Il cielo di Roma è sacro tanto quanto la città, è l’angolino di Paradiso che mi ritaglio dall’enorme parabrezza che ho di fronte, e che mi dà la forza di tenere ancora il piede sull’acceleratore. Prima. Giù frizione. Seconda… E via così. Forse sono solo troppo vecchio, o semplicemente in ritardo con i tempi. Quante generazioni sono passate sul mio scassone, e quante ne passeranno? Ogni giorno qualcuno mi aspetta appoggiato ad un palo giallo, qualcun altro mi rincorre, magari tenendosi in equilibrio tra un paio di buste della spesa. Altri non vorrebbero mai vedermi arrivare: sono perlopiù giovani, che stringono mani di donne altrettanto giovani, e che da bravi cavalieri aspettano la carrozza che si porterà via la loro amata. Almeno per stasera. Stamattina incrocio lo sguardo di un ragazzo, avrà sì e no diciassette anni. Mi taglia la strada con il suo scooter mentre mi trovo sulla via per l’Università, e non contento si avvita su se stesso mostrandomi chiaramente il dito medio. Ha un sorriso sghembo a tagliargli il viso, di sfida. Ovviamente lo conosco, li conosco tutti. Si chiama Giulio, è un ragazzo di Torre Angela, buona famiglia alle spalle, un padre operaio che si spacca la schiena dalla mattina alla sera e una madre casalinga che ha nel figlio adolescente il suo orgoglio più grande, in una vita, la sua, di occasioni perse e di rimpianti, di “avrei potuto” e “forse non ne valeva la pena”. Chissà che sorte toccherà a Giulio. Lo vedo dal mio finestrone e non posso fare a meno di immaginarmelo un po’ figlio mio, quel ragazzaccio che tante volte ho rischiato di tirare sotto su questa strada. Ha una faccia da schiaffi e un caratterino niente male, ma ce la farà. Dirà addio al quartiere, alle torri che graffiano il cielo sopra di me. Dirà addio agli amici, al primo piccolo grande amore. Dirà addio a me, suo eterno rivale nel dominio del “Vialone”, al parco sotto casa e alle infinite partite con i ragazzi del muretto correndo dietro a un Super Santos sbiadito. Ma Giulio ce la farà, non oggi, non domani, ma ce la farà. Sarà uno dei tanti che andrà via senza salutare, che nessuno ha mai tempo per l’autista dello 053. Me lo ricorderò, Giulio. Quando mi scarabocchiavi i sedili sul fondo: “Giulio+Marika”, “Giulio+Lucilla”… Ogni volta una diversa, piccolo Casanova. Mi prendo subito la mia mera rivincita, comunque: tempo tre secondi ed il ragazzo va giù lungo col motorino dopo essere incappato, per l’ennesima volta, nella “Maledetta”, che occupa il secondo posto della mia personalissima classifica delle peggiori buche che costellano le mie strade, di quelle infami che fanno fin troppi danni alla gente, talvolta irreparabili. Per fortuna si rimette subito in piedi, a sfregio del visibile moto di soddisfazione da parte mia, che comunque devo inchiodare bruscamente per evitare di travolgerlo, provocando un sonoro moto di protesta dalle tre arzille signore rimaste sorprendentemente in piedi al centro del corridoio del bus, nonostante la mia mossa avventata. Un gesto distratto nello specchietto per calmare le nonne, e torno ad esaminare il teppista di fronte al mio vetro. I blue-jeans strappati all’altezza del ginocchio e un po’ di paura, una bestemmia a mezza bocca e via di nuovo, di corsa e chissà dove. Ciao, Giulio. Di fronte a me c’è un semaforo, ovviamente rosso. Rallento il più delicatamente possibile, fino a fermarmi, per non risvegliare i mastini vestiti di pizzo che ho alle spalle. Fortunatamente sono tornate a discutere di qualcosa che sembra preoccuparle molto, a giudicare da come gesticolano. Da quel che riesco a carpire, ci si confronta su nipoti, tagliatelle e il rosario del venerdì. Dall’altra parte della strada mi aspetta la Sora Lella, un’istituzione del quartiere; se ne sta sempre seduta al suo banchetto, lo sguardo acceso e dardeggiante, fiero oserei dire. Lingua affilata, acuta d’ingegno nonostante l’età ormai avanzata, e un viso che lascia trasparire qualche tratto dell’antica bellezza, come quando leggi un libro un po’ indietro con i tempi e capita che dalle pagine scivoli via un fiore ormai appassito, ma di cui puoi apprezzare ancora la forma, i colori sbiaditi e il profumo. Soprattutto il profumo. Gli odori rimangono, tracce indelebili nella storia. La Sora Lella, per esempio, sa di sapone e cenere. Di macchina da cucire, di nodi, di seta e di lana. Sa di bucato, di quello che faceva la domenica mattina, con la pioggia o col sole, cascasse il mondo. Era bella, la Sora Lella. Si mormora in giro che durante la guerra si fosse innamorata di un disertore del regime fascista, e che lo avesse nascosto per più di un anno nello scantinato del suo misero appartamentino nei pressi del Villaggio Breda, all’epoca di sicuro non il posto migliore per un dissidente politico di quel tipo. Molti si chiedono cosa spinga una vecchietta ormai sulla novantina a starsene praticamente in mezzo alla strada, a scrutare i passanti come a carpirne i segreti più nascosti, i dubbi, le paure. Quello che la gente non sa è che la donna un tempo bambina è in attesa che il soldato mantenga la sua promessa, che torni da lei e la faccia ballare, sentire di nuovo così donna, così guerriera. Me l’ha raccontata lei, la sua storia. L’unico giorno che ha messo piede sul mio bus. «Giovane, lei ci crede nei miracoli?» mi ha detto, prima di lasciarsi completamente andare, come un fiume in piena. La Sora Lella si spegne così, giorno dopo giorno, vivendo nel riflesso del suo primo, unico, grande amore. E chissà che un mattino il soldato non torni davvero, magari con qualche capello bianco in più, tutto tirato ed elegante, con il cappello sulle ventitré e il bastone da passeggio a scandire il passo. Per farsi baciare sotto i baffi dalla Lella, per potersi finalmente sciogliere in quel sapore di cenere e sapone. Passo, e le mando un bacio con la mano; lei si illumina per un attimo, poi si stringe nelle spalle, arrossendo delicatamente. Ma non si scompone. Appena distolgo lo sguardo torna ansiosa ad osservare la strada, le labbra strette e leggermente protese in avanti, pronte a scattare, a dare voce a quel grido che si tiene in petto da troppo, troppo tempo. Questa è la mia vita. Conosco tutti quelli che ho portato in giro per questo quartiere dimenticato da Dio, tutti i ragazzi, tutte le suocere, tutti i disperati emigrati da chissà dove e con chissà quali speranze. Sono loro il mio sangue, la mia linfa, la mia anima, nonostante tutto. Io offro loro un rifugio per qualche fermata, un riparo ai loro sogni, ai loro desideri, alle loro passioni. Quando sei alla guida di un autobus, la mattina presto, ti viene da ridere. Ci sono ancora poche persone, e quelle che occupano i sedili dietro di te sono troppo assonnate per fare due chiacchiere. Magari fuori piove, magari gela eppure non c’è neve. Sono quei venti minuti della tua giornata in cui pensi che sì, in fondo non è così male, vivere tra capolinea e capolinea. Sono umile, di certo non all’altezza dei miei colleghi più illustri, verso su, verso Nord; ma ho la mia da raccontare, da urlare al mondo intero. Il mio scassone si porta le sue grida di dolore, risate di gioia e lacrime di delusione. Qui non si porta la camicia, per la periferia ci si veste comodi. Ho tanto da dire, purché ci sia qualcuno disposto ad ascoltare. Purché ci sia qualcuno disposto ad ascoltarlo, l’autista dello 053. E allora ben vengano queste giornate così simili tra loro, io sono qui che aspetto. In fondo, a chi importa se il domani assomiglia sempre un po’ troppo a oggi?

