Anno 2356. Mese di luglio. Ho perso il conto dei giorni. Potrebbe essere mattina, come mezzogiorno, come potrebbe essere notte. Non ne ho idea. Qui è tutto buio, silenzioso. Se guardo in alto dentro di me si apre una voragine, nel momento in cui il mio sguardo tocca quel piccolo punto luminoso che un tempo chiamavo casa. Quando mi è stato proposto questo viaggio interstellare ero un giovane ventottenne che non bramava altro che l’avventura. Ora sono un giovane ventottenne che non sa più chi è, intrappolato su un satellite da 72 anni terrestri. Un esterno nello specchio vedrebbe l’immagine di un ragazzo forte, vigoroso, contro il quale il tempo non può nulla. Io prendo in mano lo squallido specchietto in dotazione agli astronauti la cui data di ritorno è indeterminata, e vedo un vecchio. Non avrò le rughe, o i capelli bianchi, ma sono stanco. Stanco di avere 28 anni, stanco di vivere in 300 metri quadrati di territorio, stanco di poter togliere il casco solo all’interno della capsula. Sono stanco di essere solo. Laggiù, sulla terra, mia sorella è morta, le sue figlie hanno messo su famiglia o hanno fatto carriera, e io sono sempre qui, con il tempo che mi scivola addosso, che scorre lento e impercettibile come una nebbia mattutina. Ah, quelle mattine di inizio maggio. L’aria fresca dell’alba, aria pulita, respirabile. E il sole. Il sole caldo e luminoso, con i suoi raggi che incontravano la mia pelle, il pizzico di quel piacevole tepore. Quanto mi mancano quei giorni, così tanti anni luce a separarci che il ricordo va sbiadendosi nella mia mente. E io non voglio lasciarlo andare. Voglio continuare a rivivere quei momenti, voglio sentire ancora una volta la brezza nei capelli. Apro gli occhi. Di nuovo il buio, illuminato a malapena dalle stelle. Non più il vento, non più il sole, non più casa. Mi alzo da terra senza un rumore, nelle mie orecchie solo il rauco rombare dell’universo, e mi avvio. Rientrando in capsula noto che c’è un calendario sulla parete. È dell’anno in cui sono partito. Faccio due conti e capisco che giorno è oggi. È il mio centesimo compleanno. Il mio sguardo corre istintivamente all’oblò, che affaccia sul sistema solare. Almeno, lì sarebbe stato il mio compleanno. Qui, dove sono adesso, non sono altro che un comune ventottenne centenario. Che senso ha essere qui? Non lo so. Volevo tanto vedere la galassia all’infuori del nostro sistema, e ora che l’ho vista? Non so più nemmeno come mi chiamo. È passato tanto tempo dall’ultima volta che ho sentito pronunciare il mio nome. Adesso sono solo 20514, un esploratore come tanti che non ha fatto ritorno. Lancio un ultimo sguardo al calendario e mi avvio alla porta. Dopo tanti anni ho smesso di aspettarmi la differenza di temperatura, il vento, gli uccelli. Ora quando esco so che c’è sempre lui, di fuori, ad aspettarmi. Il buio. Faccio qualche passo e poi mi fermo. Con lo sguardo indugio per qualche istante sul cielo, le costellazioni diverse da come le ho sempre conosciute, la Terra minuscola sopra di me. Un tempo provavo qualcosa osservando il cielo. Lo bramavo, desideravo raggiungerlo, lo divoravo con gli occhi di un ragazzino curioso e innocente. Io aspiravo a quel cielo, ma è stato tutto prima… Le mie mani corrono al casco. Qui non ci sono gravi problemi di pressione, ma l’ossigeno è completamente assente ovunque. Ho un momento di esitazione. Voglio davvero farlo? Ho deciso di smettere di vivere? E soprattutto, da 72 anni a questa parte, quella che ho fatto si può davvero definire vita? Trattengo il fiato, più per nervosismo che per altro, ma alla fine sfilo il casco e lo lascio cadere. Non sento il tonfo, naturalmente, ma sento qualcos’altro. Avverto l’aria sul viso, dietro la nuca, sulle orecchie. Non sono sicuro si possa definire aria, ma sicuramente per me, che sono abituato a quella sintetica della capsula, lo è. È diversa da quella sulla Terra, quella dei miei ricordi lontani. È pastosa, densa, non respirabile. Di colpo mi ricordo di cosa sto facendo, ma la mia mano non corre al casco, i miei piedi non si affrettano verso la capsula e non provo nessun impulso che mi conduca all’ossigeno. Invece il mio corpo rimane fermo, immobile. Alzo la testa, e il vetro non c’è più. Non ho più una lastra a separarmi dall’incredibile spettacolo del firmamento. Mi scuote un brivido. Il gelo mi penetra nelle ossa, ma non distolgo lo sguardo. Provo qualcosa. Provo qualcosa di nuovo. Guardando questo cielo dentro di me si è accesa un’emozione che non provavo da decine e decine di anni. La stessa del ragazzino curioso che passava le sue serate disteso su un prato in contemplazione o a un osservatorio anziché uscire con gli amici, la stessa che riuscivo a ricordare solo in terza persona. Sono tutte le medesime costellazioni che vedo ogni giorno, gli stessi corpi che mi sembravano così distanti fino a un minuto fa. Però è tutto diverso, è tutto più vero, perché lo sto guardando attraverso i miei occhi e nient’altro. L’aria mi preme nel petto, l’ossigeno sta rapidamente terminando, ma non mi importa. Espiro una nuvoletta calda in mezzo al clima freddo che mi circonda. Quel magnifico cielo colmo di miliardi di punti splendenti che tanto mi aveva catturato comincia a farsi più scuro, non ne scorgo più una parte. Partendo dagli angoli la mia vista si restringe, fino a che non mi ritrovo a guardare un unico, piccolo, punto della galassia. Casa. Poi perdo conoscenza.