Trent’anni sono tanti. Tantissimi. Abbastanza.
Trent’anni sono un’eternità. A contare secondo, dopo secondo, dopo secondo, dopo secondo ci si perde. È impossibile.
Eppure li si contano, si alternano le stagioni, aumentano le unità e poi le decine del numero scritto col carattere più grande sopra il calendario.
Trent’anni sono abbastanza per cambiare vita, abbastanza per visitare gran parte del mondo, abbastanza per dare alla luce una nuova vita e poi vederla diventare estranea.
Trent’anni, se va bene, sono un terzo della vita di un umano, eppure sono anche troppi per la vita di tutte le specie di cui un umano si circonda.
Troppi per gatti, cani, porcellini d’india, uccellini da compagnia, pesci rossi; troppi per per l’alberello debole che non ha saputo resistere all’inverno troppo gelido di un anno crudele, troppi per la volpe che passava a salutare ogni fine settimana in cerca di avanzi di cibo a cui ci si era affezionati.
Trent’anni.
Chiara pensava ai trent’anni passati e a quello che avevano rappresentato per lei.
Un tempo si era sentita fiera del suo nome. Lo portava a testa alta, ne era degna in ogni singolo dettaglio.
Ora se ne avesse avuto il coraggio, lo avrebbe cambiato all’anagrafe, estirpato dalla sua memoria. Non riusciva più a sopportarlo.
Guardava la sua laurea incorniciata nel suo studio, e non riusciva a non provare disgusto.
Di chiaro ormai aveva poco o nulla. La sua pelle candida cominciava a macchiarsi, i chiari capelli erano ormai da anni solamente il risultato di una tinta del discount di scarsa qualità, per la quale provava un profondo astio. Non era il contenuto che le dava fastidio, ma l’esterno. La confezione, sopra la copertina era rappresentata una splendente “Chiara”, con annesso promemoria ad una versione che lei non avrebbe mai potuto tornare ad essere, quello proprio non lo sopportava. Anche la chiarezza una volta appartenuta agli occhi era svanita, rimpiazzata da una vaga opacità, nonostante il colore sempre uguale.
Trent’anni sono, veramente tanti.
Ventinove anni lo sono altrettanto, i secondi passano allo stesso modo, gli animali da compagnia e le pianticine non sopravvivono comunque.
Ma ventinove anni non sono abbastanza.
Non abbastanza per riempire fino all’ultima goccia la cisterna dell’esasperazione, non abbastanza per sentire con veemenza il bisogno di cambiare vita.
Non abbastanza per lasciare che il cervello digerisca e metabolizzi i propri desideri. Che poi provengono da lui, perché ci mette così tanto.
Forse è sadico, forse preferisce crogiolarsi sul sentiero sbagliato pur di non percorrere lo sterrato in mezzo per tornare a quello giusto. O forse non ha proprio voglia, preferisce avere una scusa per lamentarsi.
Chiara si lamentava spesso: del lavoro, dei colleghi, dei mezzi, delle mattonelle del bagno che non erano mai del giusto colore e che non arrivavano mai una volta ordinate le nuove. Si lamentava dello yogurt con fermenti lattici e del suo irriverente corpo che gliene richiedeva il consumo, della pasta integrale e dei giri in bici, del freddo e del caldo, del capello fuori posto.
Si lamentava di continuo, anche del fatto di lamentarsi troppo, ma la verità è che era il suo hobby preferito. Amava lamentarsi al ristorante per l’ordine errato delle posate o della pietanza arrivata in ritardo e non servita sul piatto giusto. Le dava un senso di sicurezza, di controllo.
Questo, per ventinove anni.
Perché ventinove anni, non bastano. Sono troppo pochi.
È ai trenta che uno non ce la fa più e impazzisce.
È a trent’anni che una donna decide di lasciare il proprio marito e prendere un appartamento a migliaia di chilometri da casa, nel posto in cui Chiara (la vera Chiara, per intenderci, non la versione sbiadita ed incupita) avrebbe sempre voluto vivere.
Perché in una relazione ed in un luogo soffocanti, ci si può stare, certo.
Se un qualcosa ci toglie l’ossigeno, ci si abbandona ad esso. Si aspetta, entrando in una specie di trance che offusca i pensieri, ci si lascia affogare nell’oblio.
Si affonda; ogni tanto si aprono gli occhi per guardare la superficie, ma l’acqua ricopre tutto e brucia la pupilla, le immagini sono offuscate e il tenere la palpebra alzata fa male.
È più comodo lasciarsi andare, continuare a scendere nel fresco avvolgente, e lasciare che le reazioni chimiche di sopravvivenza diano senso di pace.
Ma questo vale solo fino ad un certo punto; fino a che i polmoni non cominciano a far male e a reclamare aria, o, se non ci si trova in acqua, fino a che non passano trent’anni.
A quel punto non si può più fingere, non ci sono branchie, ed il posto di appartenenza non è quello. Tutto il corpo improvvisamente lo sa, e si adopera per uscirne al più presto. Si lotta con tutte le forze, e la riuscita nella salvezza dipende solo da quanto si è scesi in basso.
Chiara pensava di essere ancora in tempo, ne era certa.
È difficile scoprire sé stessi dopo così tanto tempo. Se fosse vera la storia dell’anima, ci sarebbero state certamente delle ragnatele.
L’orologio segnava le 7.36.
In una classica giornata, Chiara a questo punto sarebbe stata sul comodo sedile in pelle della macchina che ormai era diventata la sua seconda casa, diretta verso l’ufficio che era invece una seconda prigione. Si sarebbe guardata intorno, trovando dinanzi a lei solo le luci rosse del traffico, e la nebbia mattutina.
Rassegnata al dover spegnere la macchina in attesa che uno spazio di almeno qualche metro si fosse liberato, avrebbe cercato a quel punto nella borsa fino ad afferrare il suo piccolo segreto. Fumava; ma solo una volta al giorno e solo durante il tragitto da casa a lavoro. Sapere che c’era un momento della giornata, di cui nessuno era a conoscenza e dedicato solo ed unicamente a lei, le dava un senso di tranquillità che superava di gran lunga quello della nicotina.
Per i cinque minuti successivi avrebbe aspirato le sostanze chimiche del fumo mischiate a quelle dello smog, e per lei quei cinque minuti avrebbero significato un dolce e sensuale richiamo alla morte, che ormai non temeva più da tempo. Questa non era una classica giornata.
All’alzarsi dello sguardo, gli occhi di Chiara incontrarono non le sagome stazionarie delle macchine invischiate nell’ingorgo, bensì un susseguirsi di figure che non riusciva bene a mettere a fuoco a causa della velocità. L’Eurocity aveva appena superato il centro urbano e stava ora attraversando delle colline. Di fronte a lei si trovavano una madre ed una figlia, che, basandosi sugli spezzoni di conversazione che Chiara continuava ad udire pur involontariamente, probabilmente stavano andando a trovare una nonna che abitava lontana.
Stando alle previsioni annunciate dalla voce meccanica, le mancavano circa cinque ore di viaggio per raggiungere la sua destinazione.
Distolse lo sguardo dal finestrino, e si rigirò ancora una volta tra le mani la locandina di quel paesino sperduto della Germania che ormai da anni custodiva come un vero e proprio tesoro, al sicuro dalle opinioni indiscrete di familiari e amici, nel fondo di un cassetto.
Spesso si era dimenticata anche per mesi della sua esistenza, ma quando la vita di tutti i giorni sembrava un po’ più soffocante del solito, sapeva sempre che ci sarebbe stato quel fogliettino di carta ad aspettarla, pronto a farle sembrare tutto quanto un po’ più piccolo. Anche solo il fantasticare innocentemente su quella meta irraggiungibile bastava a calmarla, o meglio, ad accettare le piccole insoddisfazioni.
Allo scoccare dei trent’anni di relazione col compagno, Chiara aveva sentito di nuovo quel soffocante peso al petto ormai così familiare riproporsi con una prepotenza inaspettata, e aveva tentato di tamponare la sensazione col solito rituale, andando a ripescare quel foglio prodigioso.
Si stupì e non poco quando, inaspettatamente, le sue mani invece che dirigersi verso la confortante tazza di tè fumante, avevano preso il computer utilizzato per lavoro e cominciato a cercare il primo biglietto conveniente verso la destinazione dal nome impronunciabile.
Questo era accaduto circa un mese fa, e nel frattempo le sue mani possedute non avevano più voluto agire razionalmente, scrivendo la mail per l’annuncio del licenziamento dal lavoro, comprando una nuova sim per il telefono, e contattando persone su persone alla ricerca di una casa.
Un po’ la divertiva pensare alle reazioni che questa sua “fuga” avrebbe scatenato. Probabilmente le colleghe con cui amava passare molte serate dopo il lavoro, tra una bibita alcolica e un’altra, avrebbero fatto di lei il nuovo argomento di scherno per almeno qualche settimana. D’altronde non ne sarebbe stata delusa, dato che sapeva che l’unica cosa ad unire ed animare quella compagnia era la ricerca di un capro espiatorio, spesso identificato in una segretaria o nel capo stesso. Ora semplicemente sarebbe arrivato il suo turno.
Con un sorriso beffardo stampato in faccia, Chiara aveva appena realizzato che tutto ciò che l’aveva tenuta in una posizione di stallo per tutti quegli anni, non era reale.
Un concetto stupido, no?
Tutti i libri di sviluppo personale che aveva letto e tutti gli psicoterapisti che aveva frequentato gliel’avevano ripetuto più e più volte, ma non ci aveva mai creduto a fondo.
Non si può cambiare fin quando non lo si vuole realmente, ed il desiderio di cambiamento non è tangibile o reale tanto quanto non lo sono tutte le paure che lo ostacolano. L’unica cosa reale sono le azioni successive.
Aveva sempre avuto paura delle eventuali conseguenze negative senza mai considerare quelle positive.
Si dice che la vita passi davanti agli occhi nel momento che precede la morte, ma una cosa simile, se non equivalente accade nei momenti di “noia nervosa”, quella sensazione piacevole ma sgradevole in un momento di forzata attesa prolungata prima di un grande avvenimento. Ed era esattamente quello che stava succedendo a Chiara, per la quale la noia nervosa era perfettamente rappresentata dal testardo ed incessante, anche se apparentemente lentissimo, susseguirsi dei binari al di sotto dei passeggeri.
Il vento era freddo. Anzi. Fresco, nuovo.
Tutti i cartelli erano scritti in tedesco, linguaggio per Chiara quasi del tutto incomprensibile, se non fosse stato per quel corso di breve durata a cui aveva preso parte durante il suo percorso universitario. Continuava a guardarsi intorno con sguardo smarrito ma allo stesso tempo contento e spensierato, come quello di una bambina allontanatasi dai genitori ad un parco divertimenti per arrivare furtiva allo stand dello zucchero filato.
Forse un modo per passare i prossimi trent’anni lo sarebbe riuscito a trovare.