Era l’estate del 1871, avevo viaggiato per dieci giorni in carrozza su pessime strade sterrate. I cavalli dovevano essere sostituiti e le numerose fermate avevano reso il tragitto interminabile. Avevo già intrapreso molti viaggi giungendo in città lontane come Vienna, cinque notti e quattro giorni di trotto in calesse, oppure Ginevra, attraversando il Lago Maggiore, Arona, Domodossola, Briga e Losanna. Ma questo era il tragitto più impegnativo che si potesse affrontare, ero giunta a Parigi.
Era la città del cambiamento, se ne parlava in tutta Europa e girava voce che il barone Haussmann avesse deciso di ristrutturare la città. Rimasi affascinata: non avrei mai potuto immaginare qualcosa di così immenso, in tutto il centro i grandi palazzi erano stati abbattuti, le case demolite e Parigi era un grande cantiere che stava diventando una piccola meraviglia. Scoprii che stavano lavorando alla costruzione di una rete fognaria e di una metropolitana… tutto sembrava puntato al futuro! Mi incamminai per i boulevards, che avevano semplificato e migliorato le comunicazioni e la vita. Notai i lampioni destinati a illuminare la strada, popolata da numerosi carri. Osservavo la straordinaria metamorfosi di Parigi, la città era colma di parchi, musei, teatri e bar. Entrai subito nel più accattivante di essi, «Café Procope» diceva l’insegna. Era uno dei locali più antichi di Parigi, prima della rivoluzione era il luogo dove si riunivano gli oppositori, ora era quasi un simbolo della libertà. Una giovane donna mi versò una tazza di caffè, era caldo e scuro, un forte odore mi riempì le narici al primo sorso. Dopo aver pagato chiesi alla barista di consigliarmi qualche posto da visitare durante la mia permanenza in città. Mi sorrise e mi disse di dirigermi sulla collina di Montmartre, al mulino ci sarebbe stata una festa domenicale. Arrivai alla strada e feci cenno a un cocchiere. La carrozza era alta, quattro grandi ruote e sedili foderati, la struttura era in legno, due cavalli dall’aspetto robusto scalciavano pronti a percorrere i polverosi boulevards parigini. Mentre le ruote scorrevano sulla strada, il paesaggio cominciava a mutare. Ricordai cosa mi avevano detto della città, il centro sarebbe stato reso lussuoso, e i più poveri sarebbero stati cacciati perché non sarebbero stati in grado di pagare gli affitti, ma loro ancora non lo sapevano. Inizialmente non mi ero soffermata su questi dettagli, ora mi sembravano importanti, ripensai alla diversità della vita, c’era chi moriva di fame e chi, come me, poteva viaggiare in tutta Europa. Chi era povero meritava la povertà? Chi era ricco meritava la ricchezza?
Scacciai questi pensieri inutili e mi concentrai sul paesaggio, enormi distese di papaveri rossi contrastavano col verde dell’erba e l’azzurro del cielo, cominciai a sentire del rumore, poi della musica e delle voci, ero giunta alla festa.
Scesi dal calesse, pagai il cocchiere e mi inoltrai nella folla. Tutti attorno a me sembravano spensierati, c’era chi sedeva al tavolo con gli amici e chi si dilettava nella danza. Quel luogo sembrava un caos ordinato, tutto ciò che vedevo mi entusiasmava, così mi sentii avvolta dall’atmosfera e fui assorbita dalla festa. Il sole era caldo e rendeva il paesaggio quasi surreale, ero in un dipinto, dove tutto aveva un motivo e niente era fuoriluogo. Vidi un uomo seduto ad un tavolo da solo, mi accorsi che anche lui mi stava guardando e distolsi lo sguardo, ma un lieve sorriso mi affiorò sulle labbra. L’uomo non era bello, eppure c’era in lui qualcosa che mi attraeva, mi girai verso il suo tavolo, ma se n’era andato.
«Mademoiselle,» disse una voce sicura dietro di me «mi concede questo ballo?»
Mi voltai stupita ma riconobbi lo sguardo dell’uomo, rimasi in silenzio per pochi attimi.
«Oui monsieur» risposi con la mia miglior pronuncia francese. Così cominciammo a ballare, il suo sguardo era fisso nel mio, era in qualche modo malinconico, nonostante il sorriso beffardo contornato dalla barba. Dopo pochi minuti prese la parola.
«Non so ancora il suo nome mademoiselle» affermò l’uomo interrompendo il silenzio.
«Mi chiamo Anna, ma ora sono io a non sapere come chiamare lei» ribattei inclinando leggermente il capo.
«La gente mi conosce come Vincent» disse con noncuranza.
«Lei è molto conosciuto Vincent?» chiesi con tono di voce leggermente più basso.
«Non nel senso positivo della parola mademoiselle Anna» rispose spostando lo sguardo dai miei occhi alle mie labbra. «Sono un artista, eppure molti mi definiscono un folle.»
Mi avvicinai leggermente al suo volto «Non credo ci sia molta differenza tra un folle e un genio, il primo crede che l’immaginazione sia realtà, il secondo rende l’immaginazione realtà». Qualcosa nello sguardo di Vincent cambiò, fece un breve sospiro e un grosso sorriso gli si dipinse sul volto, rimase in silenzio, così ripresi io la parola.
«Perchè la definiscono folle Vincent?»
«Perchè sono un ossessionato madame, nella vita si può avere un’ossessione per una sostanza o un’ossessione per una persona, l’amore; io soffro di entrambe.»
Ci spostammo a un tavolo e parlammo per molte ore d’amore, di ossessioni, di arte e di paure, di quello che sapevamo sulla rivoluzione. Sentivo che lui mi capiva, che in qualche modo sapesse ciò che provavo e avesse i miei stessi pensieri. Poi il sole cominciò a calare e io dovetti dirigermi verso il calesse. Mentre i cavalli trottavano, ripensai alla mia giornata, a Parigi, e a come la vita cambiasse. Stava iniziando una nuova era. Il mio pensiero fisso però era Vincent, non lo rividi mai più, eppure rimase sempre nella mia memoria, o forse nel mio cuore.