Era seta sottile, quello strato che la proteggeva dal mondo intero, suo malgrado.
Una delicata cortina, che l’avvolgeva, la stritolava, rendendo inaccessibile quella vista al resto dell’umanità.
A partire da quel fatidico giorno in cui una rosa le era sbocciata dentro, a dodici anni, aveva scrutato il cielo, velo che mai nasconde, inviando una domanda silenziosa.
Allah, è così sbagliato non provare vergogna di me stessa?
Ogni sera, finalmente priva di coperture, si scrutava davanti allo specchio e prendeva nota dei cambiamenti del proprio corpo.
Come potrà mai qualcuno desiderare di avvicinarsi a me, se ogni mia particella è gelosamente celata da queste dannate vesti nere, nerissime, come il mio futuro di cui lui vuole appropriarsi?
Una vita divisa in scompartimenti, un’anima frammentata.
Così come l’avevano nascosta alla terra, lei stessa prese a nascondere sogni e obiettivi, di cui non era ritenuta degna in quanto donna.
Il rischio di essere scoperta dal padre e il terrore delle conseguenze la attanagliava a ogni coprifuoco violato e a ogni firma falsificata, ma ne sarebbe valsa la pena, se dopo anni di sacrifici fosse riuscita a realizzare uno tra i tanti desideri che custodiva gelosamente.
Un gradino dopo l’altro, avanzava minuta e curva, nel tentativo di essere notata il meno possibile.
Si sedette su uno dei pochi posti rimasti vuoti, lontano da tutti, nell’ombra.
«Una vita nell’ombra, nella voragine delle cose inesplorate», si ritrovò a pensare sorridendo amaramente.
Nessuno si accorse di quella smorfia. Come avrebbero potuto?
«Maysa Yazici», tuonò una voce maschile inciampando su qualche sillaba.
Allora la giovane alzò timidamente la mano, sentendosi per un miracoloso attimo centro dell’attenzione generale.
Ma nessuno vide come fosse fatta Maysa. Come avrebbero potuto?
Da quel giorno, tra un corridoio e l’altro, si diffusero infinite supposizioni su quella ragazza, nell’aula di Filosofia politica.
«La ragazza col burqa», la chiamarono erroneamente. La ragazza di cui non si sapeva niente, nemmeno che aspetto avesse.
La sua naturale propensione alla scoperta generò in lui una smisurata voglia di saperne di più.
L’aveva osservata per l’intera durata della lezione, mentre avida di conoscenza pendeva dalle labbra del professore. Malgrado la pessima illuminazione della sala, aveva percepito i suoi occhi brillare, ma disgraziatamente non era riuscito a individuarne il colore.
L’aveva fissata per tutto il tempo, e lei non si era distratta nemmeno per un istante.
Una minuscola ciocca di capelli le ricadeva sulla fronte sfuggendo al controllo del velo, scurissima, di un colore mai visto prima. Inchiostro alla massima potenza.
Alla fine della lezione aveva scosso delicatamente la testa, risvegliandosi da quello stato di isolamento totale nel quale era inconsapevolmente scivolata.
Con movimenti graziosi era sgattaiolata in fretta via dall’aula e fuori dal suo campo visivo.
Si stringeva al petto il volume di seconda mano di Diritto privato quasi temendo che qualcuno potesse rubarglielo, mandando quell’illusione, che faticosamente acquisiva le fattezze della realtà, definitivamente in pezzi.
Camminava a testa bassa e con le spalle ricurve, in un atteggiamento di costante sottomissione, nel tentativo di domare una fierezza innata e una rara fiducia nelle proprie capacità.
Era passato qualche mese da quando aveva messo piede per la prima volta in facoltà.
Aveva frequentato i corsi in modo altalenante, rinunciando a gran parte delle lezioni per non essere scoperta.
A tutti pareva che quell’esile figura, mimetizzatasi alla perfezione negli angoli bui dove era solita sedersi, fosse un’ombra sbiadita e vacua, priva di identità. Maysa ne soffriva immensamente, impotente di fronte al ruolo marginale che era costretta a recitare.
Non le restava che impegnarsi al massimo, con ogni fibra di quel corpo che a nessuno era concesso ammirare. Cercava di superarsi con zelo, mentre divideva il suo tempo tra il lavoro che il padre la costringeva a fare, l’insignificante impiego che si era trovata autonomamente, e lo studio.
Aveva appena svolto il primo esame della sua vita avendo come incoraggiamento solo la propria tenacia e la propria ambizione, ed era stato un successo.
Mentre si affrettava verso l’uscita della facoltà sentì qualcuno picchiettare le dita sulla sua spalla.
Convinta ci fosse un errore, si voltò lentamente, stringendo nervosa il libro che le copriva il cuore.
Finalmente, la ragazza si voltò e lo squadrò esitante, con uno sguardo interrogativo.
Gesù, che occhi.
Cristalli di ghiaccio, incastonati nelle sue orbite.
Cercando di mantenere la voce ferma, le porse la mano: «Mi chiamo Filippo, è un piacere poterti finalmente parlare. Frequentiamo alcuni corsi insieme».La ragazza allungò la propria, e il contrasto tra la pelle olivastra di Maysa e quella lattea di Filippo esplose in una stretta gentile.
«Sono Maysa », sussurrò con voce incredibilmente sottile, e lui quasi stentò ad afferrare quelle parole.
Tentando un approccio amichevole, sorrise e le propose: «Ti andrebbe di studiare insieme, qualche pomeriggio?».
Mi ha vista.
Oh Allah, cosa sta succedendo?
Era pienamente consapevole di dover declinare l’invito. Sarebbe stato davvero rischioso, e sapeva benissimo che lui mai le avrebbe concesso di incontrarlo. Ma lui non c’è.
Un brivido la scosse, e pregò perché il suo interlocutore non se ne accorgesse. Annuì ripetutamente, e il viso di quel Filippo si illuminò: i lineamenti, seppur non memorabili, erano dolci e armoniosi.
Poi, accennando un gesto di saluto, Maysa uscì dall’edificio e iniziò a correre con una nuova emozione a scaldarle il petto.
Lui mi ha visto ed ha desiderato avvicinarsi a me.
Oh Allah, com’è possibile?
La sessione invernale era nel suo pieno svolgimento, e Filippo veniva sballottato tra un impegno e l’altro senza sosta. Da un mese a quella parte poteva contare però sul prezioso aiuto di Maysa, che anche per una misera mezz’ora si presentava nell’aula studio dell’università e lo spronava a dare il massimo.
Con una forza inaspettata aveva gradualmente abbattuto tutti i muri eretti attorno a lei, lasciando esplodere una personalità frizzante e travolgente. La determinazione non abbandonava mai i suoi occhi, continua fonte di meraviglia per il ragazzo, e unica parte del suo corpo che potesse ammirare liberamente.
Filippo era però infastidito da una domanda tenace che gli infestava la mente, e più entravano in confidenza, più era tentato di rivelarle il dubbio che lo attanagliava.
Era stufo di dover immaginare l’aspetto di lei, di non vederla mai sorridere davvero o tormentarsi una ciocca di capelli.
Ne era davvero stufo.
Si era recata a casa sua, come lui le aveva chiesto col suo usuale tono garbato, per preparare un esame particolarmente ostico.
Il suo buonsenso le aveva vivamente sconsigliato di presentarsi a casa di un ragazzo, da sola, all’insaputa di lui, ma aveva prevalso quel volere silenzioso che da tempo la comandava mentre era in compagnia di Filippo.
Così si erano ritrovati vicini, seduti ad una piccola e usurata scrivania, mentre al tramonto un tenue fascio di luce rosea entrava dalla finestra.
Sette parole interruppero la quiete serena che si era creata.
Sette pugnalate.
«Indossi il niqab di tua spontanea volontà?»
Si spalancarono voragini e squarci, da cui iniziarono a stillare migliaia stati d’animo da sempre repressi, a cui Maysa dava spazio solo e soltanto davanti allo specchio, faccia a faccia con se stessa. Ingombranti e soffocanti, si rincorsero per la stanza la rabbia, l’insoddisfazione, la paura, la delusione e la desolazione.
Oh Allah, perché mi fai questo?
Supplicò il Cielo perché il niqab, quel dannato niqab che l’aveva resa l’ombra di ciò che avrebbe potuto essere, potesse celarle anche il cuore, dilaniato come da un macigno.
Agli angoli dei suoi occhi presero ad accumularsi lacrime, e seppe di aver sbagliato.
Che egoista. Come ho potuto essere tanto indelicato?
I pensieri si accavallavano, rendendolo incapace di trovare un modo per migliorare la situazione. Risolse tutto l’istinto: la sua mano si allungò rapida verso il volto di lei, depositandole una tenera carezza con il pollice su un lembo visibile di pelle.
Un singhiozzo le rimase incastrato in gola e lui trattenne il fiato, nella speranza che accogliesse quella tacita richiesta di perdono.
Si avvicinò impercettibilmente al palmo caldo di lui, concedendosi per la prima volta nella vita di essere accarezzata.
Socchiuse gli occhi e sospirò piano, cercando di arginare la tempesta che la stava abbattendo, mentre ogni sensazione le turbinava dentro, inafferrabile.
Con lentezza disarmante appoggiò poi la propria mano su quella di Filippo, e delicatamente abbassò il velo che la copriva, guidandolo in quell’atto infinitamente dolce e passando i polpastrelli di lui sulla propria pelle scoperta.
Piano, si privò anche di quello che le copriva i capelli, che finalmente poté mostrare a un essere umano senza vergogna, perché era quello che da sempre bramava.
E davanti allo sguardo attonito di lui, si ritrovò più nuda di quanto fosse mai stata di fronte a occhi che non fossero i propri.
Gesù, quanto era bella.
Le labbra carnose, scarlatte.
La fronte alta, costellata da qualche piccola cicatrice adolescenziale.
I capelli, neri come ossidiana, folti e setosi, nei quali si permise di affondare i polpastrelli.
Con immensa delicatezza sciolse la semplice acconciatura in cui erano costretti, e permise alle ciocche di incorniciarle il volto.
Occhi negli occhi, non interruppero il contatto visivo nemmeno un istante mentre la luce si affievoliva. In una stanza piena di ombre, Maysa finalmente strappò via da sé quel fardello che le appesantiva l’anima, riacquistando colore. Divenne arcobaleno, nuova sostanza, vita.
Si specchiò negli occhi di Filippo, senza alcuna esitazione.
Lo rese partecipe della propria nudità, arricchendosi di ogni suo sguardo.
Oh Allah, guardami anche tu.
È sbagliato non provare vergogna di me stessa, mentre il tocco delle sue mani rimane impresso sul mio viso?
È sbagliato sentirmi al posto giusto, qui, ora, mentre mi scruta come se ci fosse davvero qualcosa che valga la pena guardare?