Biondo, occhi azzurri, 1,75 m, carnagione avorio.
Se avesse avuto un passaporto, questi i dati che avrebbero tratteggiato di Oleksandr, un ragazzo ucraino di soli 16 anni cresciuto troppo in fretta, provato dalla sofferenza e dalle avversità, privato fin da subito degli affetti più cari.
Un ragazzo, uno dei tanti che, segnati da un destino crudele, ciondolano nelle loro vite senza meta, senza futuro, senza scuola, senza affetti e per i quali vivere è solo esistere, per i quali ogni cosa resta sempre uguale ed è solo il niente. Scorre il tempo, si rincorrono i mesi, l’inverno con l’estate, ma la loro vita rimane senza stagioni, scandita solo dalla monotonia del vuoto in un susseguirsi di un giorno dopo l’altro.
Oleksandr, abbandonato in fasce sulle scale di un istituto, era cresciuto in un orfanotrofio e, sebbene ci fosse stato sempre qualcuno a provvedere ai suoi bisogni essenziali – ma neanche tanto visto che aveva provato fin dalla sua giovane età fame e indifferenza -, non aveva mai sentito il calore di una mano che gli avesse accarezzato il volto e nemmeno aveva conosciuto quel profumo di pulito che hanno i poppanti dopo il bagnetto; era stato il «vuoto» ad accompagnare la sua crescita, l’«amarezza» a rubare la spensieratezza di un bambino a cui era stata negata la gioia di perdersi negli occhi amorevoli di una madre che ti prende per mano, ti guida, ti accompagna, ti incoraggia e sorride per poi, all’occorrenza, abbracciarti e stringerti forte.
Queste cose Oleksandr non le aveva mai provate e, nemmeno le «esperienze familiari» vissute in alcune famiglie affidatarie, avevano saputo nutrire il suo cuore che non aveva mai provato un sussulto d’amore, mai pulsato di gioia.
Ora era grande o, forse, si sentiva grande, ma senza alcuna prospettiva né futuro.
Quella mattina, una come tante altre, Oleksandr aveva «foldato» (nel gergo giovanile, «marinare») la scuola ancora una volta; la riteneva poco utile, tempo perso tra compagni che non rispettava; la sua intelligenza vivace gli consentiva di apprendere con immediatezza, gli bastava poco per poter essere più avanti degli altri e la lentezza altrui lo annoiava enormemente. Però, in quella mattina di fine febbraio, piena di sole e di luce, c’era qualcosa nell’aria che lo agitava; mentre camminava inquieto e ramingo tra i vicoli di Lugansk percepiva uno strano presentimento, gli sembrava di assaporare insolite sensazioni.
All’improvviso un boato assordante, un’esplosione che fece tremare l’asfalto e il ragazzo si ritrovò in terra stordito; una colonna di fumo nero si elevava verso il cielo a squarciarne l’azzurro. «Ma cosa è stato?» si chiese fra sé e sé Oleksandr, portando la mano sulla fronte.
Senza avere neanche il tempo di imbastire una qualche risposta, fu raggiunto e travolto, calpestato da una folla in corsa che strillava in preda alla disperazione «Una bomba, una bomba! È la guerra, è la fine…».
Ancora più intontito, a fatica riuscì a trascinarsi e appoggiare la schiena verso il muro; non capiva, non sapeva… Provava una strana sensazione, come se i suoi pensieri fossero fuggiti via e lo avessero lasciato lì con la testa vuota e dolente. La folla non smetteva di correre, dalle case a flotte si riversavano in strada, uomini in pigiama e pantofole, donne con i bigodini, nella più grande confusione, mentre lui era lì in terra spettatore frastornato, finché una voce stridula e rotta dal singhiozzo diede la terribile notizia «La scuola… la scuola… i ragazzi… una bomba…».
In quel momento Oleksandr comprese la drammaticità di quello che era accaduto. Una bomba aveva colpito la sua scuola. In quello stesso attimo mille pensieri ritornarono prepotentemente alla sua mente, senza ordine, allo sbando, strattonandosi e calpestandosi gli uni con gli altri, proprio come poco prima era stato il suo corpo a essere calpestato e travolto; si alzò di balzo e cominciò a correre anche lui, ma, diversamente dagli altri, lui una meta inconsciamente l’aveva.
In un momento arrivò davanti alla sua scuola, o meglio a ciò che rimaneva dell’edificio fumante e crollato sotto la violenta esplosione; tutto intorno, uno scenario di devastazione e sangue. Il ragazzo all’improvviso si fermò impietrito, incapace di seguire oltre quei pensieri che lo avevano trascinato fin lì e che lo avrebbero voluto tra le fiamme e le rovine; poi si accasciò in ginocchio, con la testa fra le mani, sprofondando in un pianto disperato, incapace di comprendere se fosse più forte il dolore per ciò che i suoi occhi stavano vedendo, in quello scenario di distruzione e morte, oppure la disperazione per non essere stato anche lui lì, al momento dell’esplosione. Era paralizzato, con le ginocchia quasi bullonate all’asfalto anche se, in lui, era forte il desiderio di fare qualcosa per portare aiuto ai suoi compagni, ai professori che, comunque, rappresentavano il suo presente, un presente che, ancora una volta, il destino aveva voluto distruggere. Immobile, con il viso ancora rigato di lacrime, non riusciva proprio a muovere le gambe e negli occhi scorrevano, alternandosi, atroci immagini di disfacimento e crudi frammenti della sua vita violata, sopraffatto da una domanda che continuava a farsi spazio con prepotenza nella sua mente «Perché non ero anch’io con loro?».
In quel putiferio assordante, all’improvviso, si sentì afferrare il braccio e, senza neanche riuscire a vedere in volto quell’omone coperto da un casco giallo, annerito dal fumo e una divisa verde militare, fu strattonato bruscamente. «È pericoloso stare qui, può esplodere ancora… Sei ferito?»
Il ragazzo avrebbe voluto strillare «Io non c’ero…. dannazione!», ma le parole non uscirono, rimasero aggrovigliate in un nodo alla gola che gli toglieva il fiato; l’uomo non attese una risposta, ma forse neanche la cercava; lo trascinò via, quasi di peso, per consegnarlo agli operatori sanitari assiepati oltre la linea di perimetro che delimitava la zona rossa.
Fu fatto salire in ambulanza, accudito, avvolto in una coperta isotermica e condotto al pronto soccorso dell’ospedale di Lugansk. Mai in sedici anni così tante persone si erano prese tale cura di lui.
Fu affidato a una anziana infermiera che, con fare amorevole e protettivo, dopo aver medicato le piccole escoriazioni e ascoltato la sua incredibile storia, estorta con pazienza e dedizione, si diede un gran da fare per trovargli un letto per la notte e un pasto caldo, avendo compreso la profonda disperazione di quel giovane solo al mondo; la donna si assicurò che la stanza dismessa al terzo piano, che in passato aveva utilizzato con le sue colleghe per interrompere turni massacranti, fosse ancora attrezzata, si procurò un cuscino e delle coperte e lo lasciò lì a riposare.
La mattina dopo ritornò nella stanzetta e trovò Oleksandr immobile a guardare il soffitto.
Il ragazzo era ancora irrigidito e non aveva chiuso occhio tutta la notte.
Non era sola e, con voce pacata gli disse: «Non puoi rimanere qui tra gli orrori di questa assurda guerra; sarai trasferito in Italia, ti ho fatto inserire in un programma di accoglienza. Lì troverai rifugio e vedrai che la vita comincerà a sorriderti».
I due uomini che la accompagnavano cominciarono a fare domande a cui il ragazzo rispondeva senza grande interesse, non credendo possibile che la sua miserrima vita potesse mai cambiare; riempirono moduli, gli fecero delle foto e alla fine lo portarono via, ma lui non smise neanche un momento di guardare gli occhi intensi e rassicuranti di quella donna.
Attraverso un corridoio umanitario, dopo due giorni trascorsi nel frastuono e nella confusione di un viaggio interminabile e senza anima, Oleksandr si ritrovò a Roma dove fu affidato alle Figlie di Maria ausiliatrice. Il ragazzo fu condotto in un istituto della capitale immerso nel verde e nella pace del silenzio, una condizione che seppe subito sedare il suo spirito tormentato; fin dal primo giorno in cui mise piede in quella struttura, si sentì proiettato in un mondo a lui sconosciuto.
Fu accolto con amorevolezza e, sebbene non capisse la lingua, tutto intorno a lui cominciava ad avere un profumo di buono, un sapore dolce e intenso. I giorni scorrevano nella serenità di un amore incondizionato che lo circondava e di cui il suo cuore, irrigidito dalla sofferenza, si nutriva instancabilmente, come balsamo per le sue ferite.
Fu inserito in una classe terza liceale e affiancato da Margareth una giovane, ma non più giovanissima insegnante di sostegno che potesse aiutarlo con la lingua. Tra i due si creò inaspettatamente un’intesa meravigliosa; bastava loro guardarsi negli occhi per capirsi, in una complicità totale e assoluta.
In pochissimo tempo Oleksandr non solo imparò l’italiano, ma si mise in pari con i suoi compagni e riuscì a completare l’anno scolastico con risultati sorprendenti, animato come era da un forte desiderio di apprendere e di approfondire, da una passione vivida per la conoscenza, che mai prima di allora aveva immaginato sua.
Le giornate trascorse in classe con i suoi «amici» di scuola, i pomeriggi sotto la quercia secolare a studiare con Margareth, che cercava di non lasciarlo mai solo, i progetti di gruppo, le uscite didattiche e le feste con i compagni, tutto contribuiva a nutrire la mente e lo spirito del ragazzo che, per la prima volta, si sentiva vivo, amato, capito, finalmente non più solo, ma parte di una comunità che lo aveva accolto a braccia aperte per stringerlo forte a sé.
Gli ultimi giorni di scuola erano stati meravigliosi, ma anche un po’ malinconici per Oleksandr che non voleva rimanere nuovamente solo; aveva paura che i suoi compagni sarebbero stati fuori per l’estate con le loro famiglie; temeva che Margareth potesse fare quel viaggio con Paolo, suo marito, che stavano rimandando da troppo tempo anche se, non avendo avuto figli, non avessero in realtà nessun problema a chiudere dietro di loro la porta di casa per visitare il Messico, mentre a lui sarebbe rimasto solo il silenzio e la pace di una solitudine che però, in quel momento, gli pesava e dalla quale voleva fuggire.
Era in preda a questi opachi pensieri quando sentì bussare alla porta della sua camera che, subito dopo, si aprì; Margareth e Paolo erano sull’uscio, stringendo l’uno la mano dell’altro. Oleksandr fece uno scatto sedendosi sul letto e li guardò avvicinarsi a lui. Non capiva perché il suo cuore batteva a mille. Il suo sguardo aveva incrociato gli occhi lucenti di Margareth che si sedette sul letto continuando a guardarlo intensamente e, senza smettere di stringere la mano del marito; il ragazzo pensò di non riuscire a reggere quell’emozione così forte che lo aveva pervaso, il cuore stava per esplodere quando Margareth, con un filo di voce rotto dalla commozione gli disse «Che ne dici di andare tutti insieme a casa?».