«No, sul serio, chi gli ha dato la patente?!» chiese Louis con voce un po’ troppo alta. Era passato il solito vecchietto del quartiere che sfrecciava per le strade con la propria macchina e saliva su tutti i marciapiedi che incontrava. Era un pericolo pubblico.
«Poveretto, Louis, lascialo stare, – lo rimproverò Agata ridendo – sa a malapena dove abita…»
«Non è colpa mia se non riesce ad andare in strada senza rischiare di investire qualcuno» ribatté lui facendo spallucce.
Agata e Louis erano due ragazzi, amici da sempre, inseparabili e sempre presenti l’uno per l’altra. Agata avrebbe compiuto sedici anni ad agosto di quell’anno, ovvero il 2057. Era alta e snella. Portava una camicetta di seta viola e un paio di pantaloni beige che le donavano tantissimo sulla sua pelle ambrata. I capelli castani facevano da cornice a un viso grazioso e solare, arricchito da labbra fini e da due occhi dello stesso colore delle nocciole. Stava camminando insieme al suo più caro amico verso il bar in cui erano soliti a fare colazione nei sabati di scuola. Ogni tanto ci andavano anche d’estate soltanto per stare un po’ insieme e divertirsi, come avevano intenzione di fare quel giorno.
Erano quasi le 4 del pomeriggio, perciò decisero di ordinare qualcosa con cui fare merenda. Louis chiese quello che prendeva di solito. Era molto abitudinario e preciso, non aveva mai un capello fuori posto e tutto quello che faceva era sempre curato nei minimi particolari. Era composto ed educato, ma sapeva anche divertirsi. Quel giorno portava una maglietta dalle maniche corte bianca, perfettamente stirata e una giacca di jeans azzurra uguale ai pantaloni. Aveva gli occhiali che gli cadevano di continuo sul naso e i capelli neri perfettamente in ordine abbinati alla sua carnagione abbronzata.
«Allora, come sta andando l’estate?» chiese la ragazza per fare conversazione.
«Bene, faccio i compiti, vado in giro… niente di speciale. E la tua invece com’è?»
«Noiosa, come al solito» fece lei.
I due ragazzi continuarono a parlare e a sorseggiare le loro bevande, riportando alla mente ricordi di quando erano bambini. Poi il telefono di Louis squillò e il ragazzo dovette tornare a casa. Prima di andare si diedero appuntamento in biblioteca qualche ora dopo per giocare a un gioco che li divertiva tantissimo. Si salutarono e si diressero ognuno per la propria strada, ma Agata non stava tornando a casa.
Si trovarono in biblioteca, come d’accordo. La “loro” biblioteca, come gli piaceva chiamarla, era un enorme edificio bianco costituito per la maggior parte da finestre che illuminavano ogni singola stanza ed era situato più o meno al centro della città. L’atrio era molto spoglio, c’era solamente l’ologramma azzurrino di una donna che faceva da bibliotecaria. Le altre stanze con i libri non erano meglio: tutte bianche, vuote, sembrava più un ospedale che una biblioteca. Il silenzio era tale che quasi fischiavano le orecchie. I libri erano divisi per genere e a ogni genere corrispondeva un piano. Il piano preferito di Agata era l’ultimo, perché lì c’era una stanza con una vista spettacolare sulla città.
Quel giorno la ragazza e il suo amico si erano dati appuntamento proprio in quella stanza e mentre aspettava, Louis iniziò a guardarsi intorno. La vista era bellissima: il sole stava calando ma illuminava ancora tutti i palazzi e grattacieli e soprattutto i giardini della città. Gli alberi sembravano sorridere godendosi gli ultimi raggi di luce. Era davvero magnifico. Poi Louis si girò dall’altra parte e il suo sguardo si posò sui libri della sezione, se così si possono chiamare. Erano ologrammi che giravano su un nastro-trasportatore. Potevano sembrare uguali ai libri stampati, ma riportavano solo autore, titolo, trama e le prime pagine, la copertina era composta solo dalla luce dell’ologramma e non facevano per niente venire voglia di leggere. «Ecco perché tutti odiano i libri» pensò Louis, e non aveva torto. Ne prese uno in mano solo per fare una faccia disgustata e rimetterlo giù. In quel momento si aprì la porta ed entrò Agata. Aveva la solita camicetta viola e i pantaloni beige di quando si erano visti poco prima.
«Scusa il ritardo, mi ci è voluto un po’ a convincere Pittsburgh a venire.» disse lei, soffermandosi particolarmente sul nome.
«Viene anche Pittsburgh?»
«”Mi metto qualcosa di decente e arrivo”, parole sue» rispose Agata alla domanda del suo amico. Louis si lisciò i vestiti e si sistemò gli occhiali sul naso. Mentre aspettavano, i due iniziarono a parlare del più e del meno, tanto non c’era nessuno in quella stanza quindi non rischiavano di disturbare.
La porta si aprì di scatto e sbatté nel chiudersi, facendo sobbalzare i ragazzi.
«Buongiorno a tutti, signore e signori!» era arrivato Pittsburgh.
Il suo vero nome era Rafael ma si faceva chiamare da tutti Pittsburgh, non si sa perché. Era un ragazzo alto, di bell’aspetto, con un ciuffo di capelli neri. Anche gli occhi erano neri e risaltavano ancora di più sulla sua carnagione chiara. Portava una giacca di pelle nera, una maglietta bianca a caso e un paio di jeans, neri anch’essi. Si vestiva praticamente sempre così, voleva fare lo sbruffone, ma chi lo conosceva davvero sapeva che in realtà era buono come il pane.
Pittsburgh percorse a grandi falcate la stanza e prese un libro a caso da uno dei nastri. Probabilmente non fece neanche in tempo a leggere il titolo che se lo lanciò alle spalle con noncuranza e il libro tornò al suo posto volteggiando magicamente. Il ragazzo si avvicinò ai due amici, mise le mani sui fianchi e con un sorriso bianchissimo fece la sua fatidica domanda: «Come state?».
«Ma non dovevi metterti qualcosa di decente?» lo rimproverò la ragazza. Pittsburgh, che fino a quel momento aveva fatto passare lo sguardo da Agata a Louis come se stesse seguendo una partita di tennis, si concentrò sull’amica e replicò, con tono di amichevole indignazione: «Che cosa c’è che non va con quello che mi metto? Mi critichi tutte le volte!».
«Ti critico tutte le volte perché ti metti sempre le stesse cose, genio» commentò lei, quasi rassegnata.
«Okay, non importa, pensa quello che vuoi», rispose lui alzando le mani: «Allora, vogliamo iniziare il nostro gioco?»
Agata gli lanciò un ultimo sguardo contrariato e poi si divisero le sezioni di libri. Il “loro gioco” consisteva nel trovare i libri con le trame più strane e leggerne un pezzo insieme. Una volta avevano letto di un tizio che si trasformava in uno scarafaggio.
Ognuno osservava attentamente ogni libro e controllava ogni trama finché Louis non richiamò l’attenzione degli altri due.
«Ragazzi, guardate cos’ho trovato» il ragazzo aveva in mano un vero libro di carta. I due amici si avvicinarono e Pittsburgh afferrò il libro. Era pesante e molto vecchio, la rilegatura rossa faceva da sfondo per il titolo in lettere dorate, scritto con un elegante corsivo. Si chiamava Niente più pianeta. Lo prese in mano Agata e iniziò a leggere la trama ad alta voce. Il libro parlava di quanto il pianeta Terra fosse stato a rischio di distruzione. La ragazza rimase impressionata da tutto questo e lesse la prima riga.
«Anno 2020. La Terra sta morendo.»
Lanciò un’occhiata preoccupata ai suoi amici accanto a lei, chini sul libro, curiosissimi di capire perché il loro amato pianeta fosse stato malato. La ragazza tornò a concentrarsi sul libro, prese aria per continuare a leggere ma in quel momento fu interrotta dal l’ologramma della bibliotecaria appena comparsa davanti a loro per ricordargli che la biblioteca stava per chiudere. «Odiosissima bibliotecaria» pensò Agata prima di chiudere il libro con cura. Tutti e tre gli amici si alzarono e uscirono dall’edificio. Si diedero appuntamento il giorno dopo alla collina per continuare la lettura insieme. Si salutarono e Agata tornò a casa a piedi, sempre con il libro sotto il braccio. Una miriade di pensieri affollavano la sua testa: com’è possibile che sia successa una cosa del genere? Il suo sguardo non poté fare a meno di posarsi sull’enorme giardino vicino a casa sua, una specie di parcheggio sotterraneo verticale che però si alzava altissimo in una spirale verso il cielo ed era pieno di alberi. Lei non sarebbe mai riuscita a vivere senza quella fonte di vita così semplice ma così importante. «La Terra sta morendo»: quella frase le frullava nel cervello come un uragano. E alla sera, quando stava per addormentarsi, la frase era sempre lì e non voleva saperne di andarsene.
Il giorno dopo Pittsburgh si avviò verso la collina in cui avevano deciso di trovarsi i suoi amici. Era uno dei punti della città in cui non c’erano costruzioni, intorno solo natura. Il ragazzo non l’avrebbe mai ammesso, perché doveva sembrare uno a cui non gli importava di quello che aveva accanto, ma in realtà adorava quel posto. La collina gli dava un senso di imponenza e di fragilità allo stesso tempo. In cima c’era una quercia. Era una delle poche in città ed era sicuramente la più antica. Anche quella faceva rabbrividire Rafael perché lassù se ne stava completamente sola eppure era lì da secoli e non aveva mai dato segno di cedimento. Il ragazzo imboccò il sentiero che lo avrebbe portato in cima. Quando arrivò su, entrambi i suoi amici erano lì ad aspettarlo. Si sedette di fianco ad Agata, che era al centro. L’amica portava un vestito bianco molto semplice, lungo fino al ginocchio, con lo scollo a V e le spalle scoperte. Quando gli si sedette accanto, Pittsburgh si accorse di quando il vestito facesse risaltare la sua pelle. I suoi occhi color nocciola risplendevano alla luce del tramonto come le fiamme calde delle candele. Il vento le portava indietro i capelli riccioli. Era semplicemente bellissima.
Prima di aprire il libro che i ragazzi dovevano leggere insieme, Agata si prese un momento per guardarsi intorno. Era sotto l’ombra della quercia a cui era appoggiata, sopra di lei il verde scuro delle foglie e ancora più sopra l’azzurro del cielo. Sotto di lei invece, il verde dell’erba la circondava, con qualche margherita bianca qua e là. Tutti questi colori erano sopraffatti dalla potenza del tramonto, che gettava una luce soffusa e tiepida su tutto ciò che incontrava. La ragazza chiuse gli occhi e sentì il profumo dei fiori, dell’erba tagliata ai piedi della collina. Udì alcuni uccellini e il soffio del vento accanto alle sue orecchie. Percepì la libertà nella natura che la circondava.
A quel punto prese il libro che i tre amici avevano trovato il giorno prima in biblioteca e si schiarì la gola, pronta a leggere. Pittsburgh e Louis si fecero più vicini. L’amica iniziò a leggere:
«Anno 2020: la Terra sta morendo. Sono anni che la situazione resta critica ma nessuno fa niente, come se la gente non capisse che stiamo distruggendo la nostra stessa casa. I mari, l’aria, la terra stanno cadendo vittima dell’azione dell’uomo e dell’influenza che ha sul pianeta. E il sentimento più diffuso riguardo a questo enorme problema resta sempre l’indifferenza. Non sono inquinate soltanto l’aria e l’acqua, adesso sembra essere inquinata anche la nostra vista, offuscata dalla noncuranza che impedisce di vedere cosa sta succedendo. Ci sono stati alcuni giovani attivisti che hanno provato a cambiare qualcosa, a fare un passo verso uno stile di vita più rispettoso dell’ambiente, a crearsi la possibilità di un futuro. Ma il vero problema non è quante persone protestano o quante persone provano a migliorare le cose, il motivo per cui la nostra casa sta soffrendo è perché molti dei governi del mondo non fanno niente per curare questo dolore, e quelli che invece si applicano sono davvero pochi.»
Mentre Agata leggeva, Pittsburgh non poté fare a meno di pensare a quanto fosse fortunato, a sedere lì sotto l’ombra di una quercia in mezzo alla natura. Questo pensiero lo colpì, come se qualcuno gli avesse dato uno schiaffo in piena faccia e gli avesse detto: «Svegliati. Ti rendi conto?». E lui infatti se ne rendeva conto, capiva che magari le persone tanti anni prima non ce l’avevano un albero sotto il quale riposarsi e godersi il panorama. Forse loro avevano solo palazzi e strade e edifici e non c’era posto per la natura. Ascoltò Agata ancora un po’ e colse i sentimenti nella sua voce: le faceva male leggere quelle parole, come coltellate al petto abbastanza forti da far soffrire ma non abbastanza da uccidere. Pittsburgh non era affezionato alla natura quanto lo era Agata ma faceva comunque paura il pensiero di vivere senza.
La ragazza finì il libro quando ormai si era fatto buio. Era sfinita, e non solo per la giornata impegnativa. Era distrutta per quello che aveva letto. Come si può essere così crudeli nei confronti della propria casa? I tre ragazzi scesero insieme dalla collina e si salutarono. Agata si avviò verso casa ma aveva il cuore pesante, si sentiva male per le generazioni passate che avevano dovuto affrontare tutto questo. E aveva una domanda, una sola domanda che le ronzava in testa e non riusciva a farla andare via. La seguiva, la assillava, la torturava e proprio quando pensava di essersene liberata ecco che tornava a farle visita, come un’influenza che ogni anno si ripresenta e fa ammalare le persone. Il libro diceva tante cose, ma non la risposta a quella normale e lecita domanda: come hanno fatto a salvare il pianeta?