Era sparito.
Quella mattina mi ero alzata tardi, perciò ero stata costretta a prendere l’autobus successivo al mio. Appena scesa, mi ero diretta di corsa verso il mio liceo, cercando di recuperare qualche minuto di tempo.
A scuola, avevo notato la bici sgangherata del mio professore di latino appoggiata sulla ringhiera. Sarebbe potuto venire giù il mondo, ma non avrebbe mai fatto a meno della sua bicicletta, anche se ormai aveva la vernice scrostata e il campanello quasi completamente accartocciato.
Fortunatamente ero riuscita a entrare in classe appena prima della professoressa della prima ora. La mattinata era trascorsa lentamente, fino all’arrivo della quinta ora, quella di Latino.
Dato che ogni lezione poteva rivelarsi un’interrogazione a sorpresa, eravamo tutti molto agitati. Tutti tranne Camilla, una tra le mie migliori amiche, che adorava il Latino.
Filippo Moretti, il nostro docente di Lettere, era un uomo puntiglioso e severo, disponibile ad aiutare gli studenti, sempre impeccabile e puntuale.
Quella mattina però, tardava ad arrivare. Era strano, perché entrava sempre un minuto dopo il suono della campanella, anche quando pioveva o stava male. Sembrava che si teletrasportasse a scuola con qualche incantesimo.
«Moretti non è ancora arrivato,» tuonò Camilla «sai dove può essere?»
Scossi la testa. Magari stava soltanto prendendo un caffè con un collega e non si era accorto del suono della campanella, la quale, tra l’altro, a volte nemmeno suonava.
La mia amica era agitata: lo percepivo, mentre sfogliava nervosamente le pagine del libro di Latino. Se Moretti mancava, lei era probabilmente una delle poche persone della classe a dispiacersi. Si divertiva proprio, a svolgere le versioni e a imparare a memoria tutte le eccezioni esistenti: probabilmente ne conosceva più del professore stesso.
«Andiamo a vedere se c’è, chiediamo in portineria» supplicò, gli occhi verdissimi che mi scrutavano.
Storsi il naso.
«Sei la rappresentante di classe, se non ci vai tu, chi deve farlo?»
Sbuffai infastidita, ma dopo essermi accertata che nessuno della classe l’avesse sentita, per evitare di essere insultate senza pietà, scendemmo in portineria.
Carlo, un collaboratore della scuola, se ne stava pigramente seduto mentre guardava un’agenda piena di post-it, senza osservarla veramente. Ci rivolse un’occhiata sdegnosa e disse che nessuno l’aveva visto, consigliandoci, solo dopo che Camilla gli ebbe posto di nuovo la nostra domanda con fare sbrigativo, di provare in sala insegnanti.
La stanza era vuota, fatta eccezione per un grande tavolo centrale, una macchina del caffè stantia e qualche penna abbandonata in un vecchio barattolo di conserva. Notai subito che l’inconfondibile borsa di tela verde scuro di Moretti era stata lasciata su una sedia. Alcuni libri erano appoggiati lì accanto. D’istinto, mi avvicinai.
Dentro era rimasto ben poco: un romanzo, un block-notes, una bolletta ancora chiusa, il suo cellulare.
Una busta blu, nascosta sotto a un libro di letteratura latina, attirò l’attenzione di Camilla. Non c’era né mittente né destinatario ed era stata aperta con un tagliacarte. Dentro c’era un biglietto dello stesso colore.
Ricordi quel giorno, ai giardini pubblici? Mi hai detto che avresti preso il mio posto, quello che ho sempre sognato.
Non riuscivo a crederti. Per un attimo pensavo che mi stessi prendendo in giro.
Evidentemente non era così.
atque olim missas flemus amicitias – CatC96
Camilla mi guardò. Io la guardai.
«Non hai capito?» mi chiese, stupita dal mio silenzio interrogativo, poi scosse la testa sospirando.
«È Catullo! “e piangiamo le perdute amicizie di un tempo”, chiaro no? È un messaggio per Moretti» esclamò con fare concitato.
Fissai sconcertata il foglio blu sul quale, scritte con un inchiostro bianco, risplendevano quelle parole misteriose. Mi sembrava tutto così assurdo.
«Secondo me guardi troppe serie Tv poliziesche. Moretti ci starà segnando assenti, in questo momento. È meglio se torniamo in classe.»
«Come puoi negare l’evidenza? Questo è il codice della biblioteca, guarda: Cat sta per Catullo, mentre C96 simboleggia sicuramente un libro, andiamo» concluse uscendo dalla sala insegnanti. «Emma, vieni. Ho un brutto presentimento, ha anche lasciato qui il suo cellulare.»
Già, era vero. Anch’io stavo cominciando a preoccuparmi. La seguii in biblioteca, dove non c’era nessuno: era ancora troppo presto perché qualcuno andasse alla ricerca di libri. Mi domandai se i nostri compagni si fossero accorti della mancanza nostra e del professore, ma probabilmente non ci avevano fatto caso. La biblioteca della scuola era formata da una stanza con poltroncine e tavolini e una specie di grande ripostiglio dove erano stati montati gli alti scaffali per i libri. Ci precipitammo nella sezione dedicata a Catullo, ma nessuno dei volumi polverosi sembrava poterci aiutare un po’.
Camilla girava tra gli scaffali, pensierosa.
«Forse l’ha lasciato da qualche parte, su un tavolino» disse tornando nella parte della biblioteca riservata alle poltroncine per la lettura e la consultazione dei manuali.
«O forse se l’è portato dietro e quindi non lo troveremo mai…»
«Emma, ti dispiace evitare di essere così pessimista?» mi apostrofò Camilla.
Su uno dei tavolini rotondi c’era un piccolo libro. Camilla era scattata verso la poltrona sulla quale, secondo la sua teoria, si era seduto Moretti un attimo prima di essere sparito.
«Guarda!» esclamò indicando qualcosa scritto in matita. Non sembrava la scrittura del nostro insegnante.
«È la grafia di chi ha scritto il biglietto, potrebbe essere un codice o un indizio» disse tirando fuori dalla borsa di tela verde il foglietto blu. Lo confrontò con gli appunti accanto alle poesie in latino. Camilla aveva indovinato, perché quelle infinite serie alfanumeriche sembravano proprio essere un indizio.
DF.0FBCCGGAGEECIID, AC.BCFIDAECIHCB0ID
«Che cosa sono?» chiesi.
«Non lo so, potrebbero essere delle password, o forse un codice» mi rispose dubbiosa. Anche Camilla ora sembrava persa.
Mi avvicinai al libriccino e lo presi in mano. Un foglietto bianco scivolò fuori dalle pagine, lo raccolsi. Sul piccolo pezzo di carta c’era un elenco numerato con le lettere dell’alfabeto scritte una sotto l’altra con la grafia del nostro docente.
«Ma certo! È da decifrare!» esclamai entusiasta della mia scoperta. Cominciai a trascrivere la cifra che corrispondeva a ogni lettera trovata sul libro, lasciando intatti gli zeri.
46.062337717553994, 13.236941539832094
«Dei numeri di cellulare? Altre password?» domandai alla mia amica.
«Sono delle serie numeriche molto lunghe, ci devo pensare. Intanto torniamo in classe, forse è arrivato qualcuno a fare sorveglianza.»
Non era arrivato nessuno, così ne approfittammo per capire cos’erano quelle sequenze di numeri. Mi ricordavano costanti matematiche come il rapporto aureo o il pi greco, ma non mi sembrava di conoscere nulla di simile. In ogni caso, non vedevo come un numero irrazionale potesse aiutarci a scoprire dove o perché il nostro insegnante era sparito.
Presa dalla disperazione, digitai tutte quelle cifre su Google.
Sullo schermo mi apparve il duomo della nostra città, a qualche decina di minuti a piedi dal liceo. Potevano essere coordinate geografiche. Ci guardammo. Forse avevamo trovato una pista, valeva la pena provare.
La campanella annunciò la fine della giornata e noi ci dirigemmo verso la chiesa. Aveva smesso di piovere e il cielo terso, dipinto dell’azzurro tipico di quando finisce un temporale, sembrava annunciare l’arrivo della primavera.
Arrivate davanti al duomo non sapevamo cosa cercare: ci stavamo rendendo conto che le nostre congetture stavano cominciando a traballare, incerte su indizi ancora più incerti.
Alzai gli occhi sul campanile ottagonale che si ergeva accanto al duomo. In cima vidi due figure che sembravano parlare, anche se era difficile dirlo con certezza.
«Saliamo, dobbiamo vedere cosa sta succedendo. Scommetto che sono loro» decise Camilla, il tono che non ammetteva repliche.
Volammo sui gradini, il cuore in gola. Arrivate in cima ci accorgemmo che l’uomo accanto al nostro professore aveva una pistola in mano, puntata contro la testa di Moretti. L’uomo si voltò verso di noi, una lunga cicatrice tracciava i lineamenti della mandibola.
«Emma? Camilla? Che cosa ci fate qui?» gli occhi di Moretti saettarono verso di noi, cupi e grigi, la pupilla allargata dalla paura.
«Che cosa sta succedendo?» balbettò Camilla, che una volta tanto aveva perso il suo sangue freddo.
«Zitte, tutte e due» intimò l’uomo «Il vostro caro professore deve pagare per quello che ha fatto. Non è vero?»
Moretti deglutì. «Non so di cosa stai parlando» biascicò.
«Sai benissimo che ambivo a diventare vicepreside da anni, ma a quanto pare non te ne frega nulla, vero?»
«Giacomo, stai esagerando, poggia quella pistola, per favore» disse il nostro professore, la voce calmissima, fredda e distaccata. L’uomo la premette sulla tempia di Moretti, ridendo.
«Questa? Mi serve per convincerti a buttarti, devi pagare per quello che hai fatto!» la crudeltà di quella frase mi gelò il sangue.
«Mi hai mai voluto bene, Filippo? Hai mai tenuto alla mia carriera, alla mia felicità?» continuò l’aggressore.
Il mio professore tentò di dire qualcosa, ma l’uomo davanti a lui spostò la pistola verso di noi. «Almeno a loro vuoi bene?»
In quel momento temetti il peggio. Mi immobilizzai, impietrita dal terrore.
«Giacomo, non osare. Non ho mai voluto diventare vicepreside, lo sai. Come sai che ho consigliato il tuo nome almeno un centinaio di volte. So che non dev’essere facile, dopo la morte di tua moglie, ma…» la voce del nostro professore venne interrotta dall’uomo che avevamo di fronte.
«Zitto. Non parlare di lei. Avresti dovuto rifiutare, invece guarda un po’? Sei vicepreside» sibilò. Agitava la pistola come se si trattasse di un giocattolo.
«Giacomo fermati, non sei in te. Dammi quell’affare» disse Moretti. L’uomo si puntò di nuovo la pistola alla tempia. «Guardami morire, Filippo.»
«No!» Camilla era stata veloce: prendendo alla sprovvista l’aggressore, gli aveva lanciato contro il romanzo trovato dentro la borsa di tela di Moretti, centrandolo in pieno volto.
L’uomo aveva lasciato andare la pistola e cadendo aveva sbattuto la testa, stramazzando al suolo, svenuto. Il libro era leggermente sporco di sangue sulla costa.
«Il peso della cultura» disse seria Camilla guardando me e Moretti negli occhi. Tentai di sorriderle. Chiamai il 112, mentre il nostro insegnante si assicurava che la pistola fosse lontana da quel pazzo.
«Peccato, era una bella edizione di Anna Karenina» aggiunse.
