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Metamorfosi di gloria

Gennaio. Roma Termini. Il fulcro dell’Urbe. Un orologio ticchetta. Mi ritrovo sperduta in quell’enorme labirinto di binari. Un odore acre mi colpisce le narici, l’odore della folla, della gente ammassata che corre in ogni direzione. Mi lascio trasportare volentieri dal flusso verso l’uscita che non riesco mai a trovare da sola. Odore di cibo, di caffè appena fatto, di profumo da donna e di dopobarba si mescolano all’aria pesante di fuori. Il sole pomeridiano di gennaio si riflette sui volti pallidi delle persone: concentrate, frustrate, arrabbiate, di rado qualcuno sorride. Guardo il 14, un vecchio autobus colorato di rosso spento. Sembra un drago con le porte aperte come bocche spalancate pronte a inghiottire uomini e donne: i passeggeri che si accalcano per entrare volontariamente nella pancia della bestia. Il mostro comincia a tossire fumo. L’autista, rigido sul sedile, si prepara a partire. Appena mi siedo, guardo dal finestrino: osservare la gente in movimento mi fa compagnia. Preferisco quella degli sconosciuti, perché quelli che ti conoscono ti assillano sempre con le loro pretese e le loro aspettative. Sulle strade si forma un arcobaleno di colori, di volti, di religioni. Il mondo si confonde e si ritrova sotto lo sguardo sotterraneo dei martiri. L’autobus sa di benzina, ma l’odore viene quasi subito coperto da quello delle chiacchere. Si parla della situazione difficile in Medio Oriente: sapore di amaro; delle battaglie in Parlamento tra Berlusconi e la sinistra: sapore di pesce; in fondo all’autobus due studenti parlano di Socrate: sapore di miele. Socrate sa sempre di miele. Questa è gente colta, raffinata, elegante: è gente seria. Ed eccola lì che spunta all’improvviso, l’antica Roma, la gloria di pietra: il Colosseo. Una nostalgia m’invade, ma non solo. Insomma, che razza di diritto ho io, ragazzina insignificante, di calpestare la stessa terra su cui hanno camminato Cesare, Cicerone, Augusto? L’autobus procede piano, il sole splende di una luce di pace, ma nessuno sembra accorgersene. Quasi subito mi ritrovo un po’ stupita a piazza Venezia: l’Altare della Patria si erge prepotente dando le spalle al Colosseo. Ci sono due mondi che si incontrano: il vecchio e il nuovo convivono sotto lo sguardo di Dio. Sull’autobus salgono donne cariche di buste, accompagnate da uomini esausti e ragazzi rumorosi. Sto percorrendo via del Corso: macchine su macchine si riversano nelle strade, schiacciate tra vetrine, negozi, palazzi colorati. Mi travolge una rabbia improvvisa: quanto poco rispetto abbiamo per la nostra città. La distruggiamo per renderla più comoda. Le persone in via del Corso sono frenetiche, i sorrisi ben stampati sulle facce delle donne, le sopracciglia curate degli uomini, il modo frettoloso e distratto con cui poggiano i piedi per terra, marionette senza pensieri. Sulle strade strisciano come zombi vestiti bene. Mi sono persa nei miei pensieri e non mi sono accorta che intanto è calato il buio e la città sta mutando aspetto, drasticamente. I palazzi grigi e rovinati con l’intonaco caduto e le finestre rotte sostituiscono i bei locali del centro. Murales si impongono allo sguardo, scritte a sfondo politico invadono i muri. Le strade cominciano a stringersi diventando una ragnatela di fili anonimi, quasi tutti uguali, che mi fanno venire ansia. Per le stradine girano motorini, ragazzi col cappuccio e quella che sembra una sigaretta perennemente bloccata fra le dita. Gente rinchiusa nei propri pensieri, che cammina con la testa bassa come se cercasse risposte nelle crepe del marciapiede. La gente scende dall’autobus a ondate, così rimango quasi sola per un piccolo tratto. La periferia di sera non è un bello spettacolo. L’autobus si ferma: una cascata di persone ci si riversa dentro chiacchierando allegramente come se fosse un’unica famiglia. Mi ritrovo schiacciata tra un omone biondo e una ragazza con gli occhiali parecchio bella. Il caldo aumenta. Riesco faticosamente a superare due donne che mi guardano in cagnesco per aver osato muovermi in quella calca e mi avvicino al finestrino. L’eleganza del centro si è totalmente sbriciolata; ora regnano i palazzi grigi e squadrati. Ci sono solo quelli. Dove sono finiti i colori? Qualcuno deve aver rubato i colori a questa gente. Guardo meglio, cerco di osservare meglio le persone fuori: deve esserci qualcosa qui. I ragazzi si muovono, si incontrano guardandosi negli occhi, poi con mia sorpresa si abbracciano. Su una vecchia panchina due studenti si baciano appassionatamente senza preoccuparsi di nulla, spensierati. La polizia passa spesso a sirene spiegate e mi manca il respiro ogni volta. Su un muro compare una scritta enorme e rossa: Quarticciolo. Se tocchi uno di noi tocchi tutti noi. Non proprio poetica, ma chiara. 

Ora sull’autobus un vecchio uomo sulla settantina si mette a cantare. Penso sia una canzone di Lucio Battisti e parla dell’amore: “Oh, amore mio, non vedo più i tuoi occhi, vedo solo lacrime sgorgare dalla tua anima. Come fuoco mi bruci la mente e come Dio mi guardi allibita quando il mio cuore ti cerca”. Mi commuovo: chissà quale storia nasconde quell’uomo, sembra solo. Al termine della serenata tutti applaudono, me inclusa, che entusiasta gli stringo la mano che lui mi bacia come un vecchio gentiluomo. Sono sconvolta: quest’uomo è poesia vivente, mi ha lasciato senza fiato. Mi soffermo a guardarlo mentre scende dall’autobus soddisfatto della sua esibizione. Mi riavvicino al finestrino e mi accorgo che la notte è padrona. Ancora ragazzi vestiti in tuta scura girano per le strade con il cappuccio ben calato sulla fronte. Riesco a vedere bene con tutte le luci di questa città, eppure mi rammarico che abbiamo ucciso le stelle. Gli uomini hanno bisogno delle stelle per potercisi vedere riflessi, altrimenti perdono il legame con il cielo. Ritorno alla realtà: siamo arrivati a Centocelle che rispecchia completamente la sua cattiva fama. Non si vedono volti, le persone sono coperte e camminano frettolose come se avessero perennemente paura di qualcosa. I bar e i negozi sono vecchi, quasi in rovina. Apro il finestrino: voglio sentire che odore ha la paura. Fumo di sigaretta mi scende come filo spinato nei polmoni. Ma a un tratto sento odore di bucato appena steso, poi di pane caldo e infine di miele. C’è miele nella periferia. Gli edifici tutti uguali sembrano non finire mai con quelle scritte a volte volgari, a volte razziste e persino qualche minaccia stampata sui portoni. Ma ho visto qualcosa tra tutto quel grigio: è una piccola casa schiacciata tra due palazzoni. La casetta è tutta rossa, anche fuori ci sono le luci rosse. Eccolo lì, il cuore del quartiere malfamato. Chissà chi ci abita, chi ci fa affari, di che tipo. Mille domande mi ronzano in testa come api. Davanti a me un signore barbuto ha appena bestemmiato e un gruppo di ragazzi in fondo all’autobus non la smette di dire parolacce. La periferia è un mondo con le sue regole, le sue guerre, la sua corruzione, ma è un mondo vivo. Questi quartieri uniscono l’amore e il coltello, l’affetto con il tradimento e l’onore con la vendetta. Sono un’esplosione di emozioni e di rischi che il bel centro di Roma non può nemmeno pensare di affrontare. Là dove i poliziotti sono infami e la droga gira di mano in mano fino ad arrivare nei polmoni di un dodicenne, la legge dello stato scappa con la coda tra le gambe lasciando il trono alla legge della strada. Sono al capolinea. Scendo dall’autobus ormai a notte inoltrata, mi guardo intorno, cerco di capire chi mi spia. Nella notte Roma arde di vita e di presenze. Gente, un fiume di gente, un mare di gente mi si affolla attorno. Resto immobile. Da qualche parte, in lontananza, mi arriva profumo di miele. Socrate. Un orologio ticchetta. Inesorabile.

Pubblicato: 1 Giugno 2021
Fascia: 19+
Commenti
Questo racconto mi ha colpito molto. Un diario di viaggio che sa di vita, così diversa, che cambia in base alla strada su cui ti trovi. Anche le difficoltà vengono descritte con parole molto curate, quasi ad addolcire il quadro della realtà.
23 maggio 2022 • 09:19