Giornate intere passarono in un batter d’occhio, le ore ormai monotone parevano ripetersi una dopo l’altra, come un disco rotto. Ma lei non si stancava mai di questo ciclo uniforme, anzi, le faceva comodo; la teneva fuori da ogni tipo di guaio troppo grande per lei da gestire. Ogni singola mattina, deboli raggi di sole si facevano strada attraverso le tendine sottili alla finestra, baciando delicatamente le sue guance lentigginose e riscaldando la sua pelle già abbronzata. Quel pallido fascio di luce bastava a toglierla dalle braccia di Morfeo, risvegliandola pian piano dal suo sonno. Eppure le ci volevano almeno dieci minuti per alzarsi. Le coperte calde del letto sembravano trattenerla ogni volta, sussurrando al suo orecchio in modo così seducente «ancora cinque minuti». E lei chi era per rifiutare? Quando finalmente si decideva a lasciare il suo amato materasso erano almeno le otto. A volte persino le otto e mezza. A lei non importava, tanto il caffè apriva alle nove e aveva tutto il tempo del mondo per prepararsi e andare al bar dietro l’angolo. Camicia beige, pantaloni marroni e anche un maglione intonato se necessario: quella era la sua divisa da lavoro. I capelli castani rimanevano legati in una treccia ordinata e per lei era d’obbligo tenere alcune ciocche fuori a coprire i piercing all’orecchio. Ogni giorno si malediceva per essere uscita di casa ubriaca. Una sera in particolare si era messa in testa di voler «arricchire» il suo stile e il locale malandato dove era andata accettava anche clienti non sobri abbastanza per prendere decisioni concrete. Dopo essersi controllata allo specchio si metteva le scarpe. Quella destra, però, andava messa prima della sinistra, era necessario che fosse così. L’unica volta che fece il contrario finì per slogarsi la caviglia e non voleva correre il rischio di ferirsi un’altra volta per un motivo così stupido. Poi se ne andava al lavoro, si allacciava il grembiule alla vita e iniziava a servire i soliti clienti mattutini.
Tra loro spiccava particolarmente un uomo dalla sciarpa gialla. Di lui non si sarebbe mai dimenticata, dato che ogni mattina – sempre alle 11.45, né un minuto prima, né un minuto dopo – si presentava davanti al bancone. Chiedeva sempre la stessa tazza di cioccolata calda con panna e caramello; nonostante avessero probabilmente la stessa età, l’uomo misterioso sembrava amare la bevanda dolce che tanti bambini adoravano.
I primi giorni l’ordine alquanto bizzarro la intrigava molto e osservava sempre il cliente con la coda dell’occhio mentre lo preparava, ma presto decise di lasciare stare la questione. Era una semplice ordinazione dopotutto, ed era il suo lavoro consegnare il cibo voluto. Meno domande si faceva, meno problemi avrebbe avuto.
Il tempo scorreva velocemente ogni volta, e prima che potesse accorgersene erano già le dieci di sera. L’orario di chiusura. Si toglieva il grembiule e lo appendeva accanto alla porta, poi dopo essersi assicurata di aver chiuso a chiave il bar si incamminava verso quel palazzo malridotto che conosceva ormai come il palmo della sua mano. In meno di un quarto d’ora si ritrovava di nuovo nel suo monolocale buio. Si sdraiava sul letto mettendo in disordine le lenzuola ben fatte e si stiracchiava senza contegno. La solita lattina di birra in una mano e il cellulare nell’altra. Una tana accogliente e il suo piccolo frigorifero, quello bastava per rendere qualunque postaccio un paradiso personale. Tutte le giornate passavano così, senza un minimo di cambiamento in quella che sembrava una settimana già registrata. Come se fosse tutto programmato. A volte la ragazza era costretta a controllare continuamente il calendario perché neanche si ricordava la data, poiché i giorni erano tutti una copia esatta del precedente.
Però in un apparentemente normale giorno d’autunno, tutto cambiò drasticamente. La mattina passò in modo tranquillo; si svegliò riposata, arrivò al lavoro in orario e i clienti erano cortesi. Era particolarmente freddo quel giorno, quindi tutti andavano in giro con qualche strato di vestiti in più. Lei si era portata un cappello rosso di lana per coprirsi le orecchie arrossate e dei guanti, un cappotto nero nascondeva la sua figura dentro di esso, assorbendo ogni traccia di curva. Era sempre stata molto freddolosa.
Sembrava che tutto andasse bene, proprio come le altre volte. Tuttavia quando controllò l’orologio e vide che erano ormai le 11.58, notò che nessuno aveva ancora ordinato la solita tazza di dolcezza paradisiaca. Strano, pensò lei, ma cercò subito di concentrarsi sul cappuccino che stava facendo. Un semplice cliente mancante non l’avrebbe fatta distrarre dal suo lavoro. Il timido sole che illuminava appena i marciapiedi fu presto sostituito dal buio gelido della notte, e dopo l’ennesimo cucchiaino lavato la ragazza fu finalmente libera di lasciare il caffè. Si mise il cappotto addosso, assicurandosi che il tessuto l’avvolgesse per bene, poi si coprì il capo castano con il berretto soffice. Dopo aver chiuso la porta iniziò a camminare, affondando il naso nel colletto del soprabito. Le lentiggini che di solito le adornavano le guance erano così pallide da essere quasi inesistenti. Camminava a testa chinata, appoggiando con cura i piedi per terra e accertandosi che la suola non toccasse nessuna crepa. Osservò lo spirale bianco che lasciò le sue labbra, l’aria glaciale pareva tagliarle la pelle ormai secca per il clima tanto scomodo. Era troppo assorta nelle mattonelle del marciapiede per notare l’individuo che si avvicinava sempre di più a lei. Ma quando lo vide era troppo tardi. Il suo fianco urtò contro un braccio sconosciuto, decisamente più robusto e massiccio del suo. Il colpo la fece cadere a terra sul fondoschiena, il copricapo rosso fuoco atterrò sul terreno leggermente umido. Si preparò a fare un commento acido all’estraneo che non si era neanche degnato di chiedere scusa, ma non vide nessuno dietro di lei. La strada era completamente deserta. Sbuffò e si riprese il cappello, pregando che non si fosse sporcato. Però quando lo tirò su vide che sotto l’accessorio si trovava un oggetto piuttosto particolare: una chiave. Non era la chiave in sé a essere tanto eccentrica, ma la strana decorazione arricciata su di essa. La stessa decorazione che si trovava sulla cassa di noce che aveva a casa. Prese l’oggetto di bronzo con una mano guantata e decise di portarlo a casa. Tanto non importava molto se appartenesse allo sconosciuto maleducato o no, non c’era anima viva in giro quindi non avrebbe potuto riconsegnare la chiave al proprietario neanche se avesse voluto.
Quando aprì la porta dell’appartamento, il solito calore che la abbracciava ogni volta che tornava non era presente. Venne accolta da un’insolita aria tesa. Forse perchè aveva trovato una chiave che avrebbe aperto la tanto misteriosa cassa? Può darsi, ma non poteva essere sicura che i due oggetti fossero veramente collegati. C’era solo un modo per scoprirlo. Andò in camera e si accovacciò vicino al contenitore marrone. Si aprì con un clic.
Gioielli, tesori, vestiti. Quello si aspettava dentro alla cassa chiusa a chiave. Eppure dentro trovò solo pezzi di carta. Decine e decine di fogli pieni di scritte uno sopra l’altro. Ne prese uno a caso per leggerne il contenuto: erano fogli di giornale. Lesse il primo articolo – era evidenziato di giallo – e rimase sorpresa dall’argomento: una ventenne era stata ritrovata morta nel suo appartamento. Poi ne prese un altro, un’altra donna uccisa. Cercò di leggere più articoli possibili, ma giravano tutti attorno allo stesso tema.Corrugò le sopracciglia. La cosa stava diventando alquanto inquietante. Erano tutte donne, gran parte appena diventate maggiorenni o comunque attorno alla sua fascia di età, e vivevano da sole. La polizia aveva trovato segni attorno al collo di tutte le vittime, qualcuno le aveva strangolate a morte. Il solo pensiero la fece rabbrividire, allora decise di mettere tutto a posto e dimenticare l’accaduto.
Prima che potesse chiudere la cassa a chiave vide un tessuto giallo passarle davanti agli occhi.
Poi buio.
