La fine della scuola era finalmente arrivata e l’estate si sarebbe distesa pigramente sui successivi tre mesi, facendo dimenticare almeno per un po’ di tempo verifiche, interrogazioni e i pomeriggi interminabili trascorsi a studiare. Un benefico intervallo che avrebbe tenuto lontano il famigerato «stress da voto», offrendo in cambio lunghe giornate da riempire a proprio piacimento. Proprio da questo avevano inizio i problemi per Mia che non sapeva cosa fare di tutto quel tempo libero: «Libero esattamente per cosa?», si chiedeva. Mia trovava la solita routine giornaliera noiosa ma rassicurante. I suoi studi da liceale erano certamente impegnativi, il suo rapporto con i compagni non sempre idilliaco, ma quella era la sua vita, scandita da sveglia mattutina, campanella, lezioni, pomeriggi di studio e qualche uscita nel fine settimana. Mentre rifletteva, Mia era affacciata al balcone del suo appartamento, posto al terzo piano del vecchio palazzo in cui abitava con i suoi genitori, il gatto Ettore e il barboncino Leo; il caldo rendeva tutto più lento, anche le auto sembravano procedere meno velocemente del solito e lungo le strade i passanti erano rari. Scuotendosi da una sorta di torpore decise di vestirsi e fare un giro in bicicletta. «Che splendida invenzione la bici» pensò Mia, «ti permette di girovagare in assoluta libertà per le vie della città». Scese di corsa i gradini che la separavano dal piccolo garage per poi risalire la rampa in sella alla sua bicicletta: mentre pedalava senza una meta, il vento le accarezzava il viso infondendole una piacevolissima sensazione che finì per farle perdere il senso dell’orientamento. Fermò la bicicletta di fronte a un dedalo di viuzze strettissime mai viste prima e si soffermò incuriosita a osservare le piccole abitazioni basse e multicolori, che con quelle piccole finestre e i portoni ad arco, sembravano uscire dritte dritte da una favola dei fratelli Grimm. Dimenticando paura e timidezza, due sensazioni che le erano decisamente familiari, Mia scese dalla bicicletta, la legò a un palo della luce e iniziò l’esplorazione di quei vicoli così singolari. Aveva fatto pochi passi quando, osservando una scritta in asso sul muro di una di quelle strane abitazioni, si accorse che qualcosa non andava, non riuscendo però a capire subito di cosa si trattasse. Guardando con più attenzione sobbalzò e si fermò impietrita, sentiva un vortice nella testa ed ebbe paura di cadere: non vedeva più la sua ombra! Girò su se stessa come impazzita ma dell’ombra non c’era traccia. Le sorprese non erano finite: alzando lo sguardo vide la sua ombra – non c’era dubbio che fosse proprio lei – mentre si accingeva a svoltare l’angolo poco più avanti. Con la bocca spalancata, le gambe prima molli e ora diventate di pietra, Mia rimase lì a guardarla chiedendosi da quanto tempo la sua mente avesse iniziato a perdere l’uso della ragione. In un attimo recuperò un minimo di sangue freddo, o forse perseverò nella follia, e si lanciò all’inseguimento: voltato l’angolo, l’ombra era lì che l’aspettava, guardandola con quello che le sembrò l’abbozzo di un sorriso in quella sagoma scura del tutto uguale a lei, ma senza colore. Sembrava invitare Mia a seguirla e lei lo fece, tenendosi però a debita distanza: la paura era sempre lì in agguato ma in quel momento era la curiosità ad avere la meglio. Si accorse che l’ombra varcava quella che le sembrò la porta di un negozio, si avvicinò e vide che la vetrina era piena zeppa di strumenti musicali e che al centro troneggiava un magnifico pianoforte a coda. L’ombra era proprio lì, acquattata vicino a quel meraviglioso strumento. Spingendo con delicatezza la porta d’ingresso si addentrò all’interno di quello strano negozio che a quanto sembrava, era sprovvisto di proprietari. Dovette ammettere che vi aleggiava una strana atmosfera, tutt’altro che spaventosa, anzi piuttosto «magica». Con circospezione si avvicinò al piano, si sedette sullo sgabello posto di fronte a esso e, sentendo crescere dentro di sé una leggera euforia, appoggiò le dita sui tasti. Sobbalzò udendo una musica dolcissima provenire proprio dallo strumento che lei aveva appena sfiorato. Era quasi caduta dallo sgabello per la sorpresa. «Com’è possibile? Da dove viene questa melodia? Io non so suonare il piano, anche se desidero da sempre imparare a farlo.» Quello era, infatti, uno dei suoi più grandi sogni al quale lo studio l’aveva costretta a rinunciare. Si fece allora una promessa: non avrebbe più permesso che quel desiderio restasse irrealizzato, avrebbe trovato il tempo di dedicarsi a questa sua grande passione. Sicuramente i suoi genitori le avrebbero permesso di frequentare una volta la settimana l’istituto musicale che, tra l’altro, era proprio a due passi da casa. Aveva appena finito di formulare questo proponimento quando, alzando lo sguardo, si accorse che l’ombra sgattaiolava fuori dal negozio. «Dove troverà tutta questa energia con il caldo che fa? In questo non mi assomiglia per nulla» pensò Mia mentre si affrettava a seguirla. La raggiunse poco dopo e, fermandosi per riprendere fiato si accorse che si addentrava in un piccolo giardino pubblico: spostò il cancelletto di ferro battuto e la raggiunse dentro. Tra il verde dei pini e il rosso scarlatto degli splendidi roseti disseminati ad arte in quel piccolo spazio, Mia notò con disappunto che l’ombra si era dileguata. Irritata, cominciò a chiedersi se si stesse prendendo gioco di lei o se fosse più probabile che la sua mente cominciasse a dare inequivocabili segni di follia. Fu allora che, seminascosta da un cespuglio, vide una ragazza seduta – o forse sarebbe più corretto dire rannicchiata – su una panchina. Temendo di spaventarla, Mia non la raggiunse subito limitandosi a pronunciare un timido «Ciao», tenendosi a distanza. La sconosciuta, sobbalzando, alzò il capo dal libro che teneva tra le gambe, mostrando un viso dove campeggiava una distesa di piccole efelidi simili a minuscole stelle, sormontato da una cascata di riccioli biondi e illuminato da un sorriso che a Mia parve dolcissimo. Folgorata dall’aspetto e dall’atteggiamento della sconosciuta, Mia rimase muta, incapace di muoversi dalla sua «postazione» così sicura. Aveva paura di dire qualcosa di sbagliato che avrebbe finito per guastare quell’atmosfera idilliaca. Fu Stella ad avvicinarsi: era questo il nome della ragazza che si presentò con dovizia di particolari, confidandole che solo da pochi giorni aveva scoperto quel posto incantato e solitario, dove poteva leggere in pace. Si affrettò ad aggiungere però che era felice che Mia fosse capitata lì e di quanto fosse forte la sensazione di averla già incontrata in precedenza. Fu allora che Mia iniziò a raccontare di sé, della scuola tanto impegnativa, della sua famiglia, della fatica di vivere sentendosi sempre fuori posto, meno furba, meno «social» dei suoi coetanei. Stella l’ascoltava annuendo spesso, e solo quando Mia tacque e rivelò quanto si fosse riconosciuta in quelle paure e in quel senso d’inadeguatezza che la sua nuova amica le aveva appena descritto con tanta sofferenza. Fu come se all’improvviso quel cupo peso che le opprimeva l’animo, rendendola fragile e insicura, si sciogliesse poco a poco: Mia provò un sentimento di profonda gratitudine guardando il volto dolce e buffo di quell’adolescente appena conosciuta e che le era già tanto cara. Dopo un’ora, o forse due, si lasciarono per tornare nella rispettiva abitazione, non prima di essersi scambiate i propri numeri di telefono ed essersi promesse di rivedersi l’indomani. Mia percorse il tratto di strada che la separava dalla sua bicicletta in uno stato di assoluta felicità. Fu solo dinanzi alla porta del suo appartamento che si ricordò della sua ombra, e preoccupata la cercò intorno a sé. L’ombra era lì, dove avrebbe dovuto essere, allungata ai suoi piedi. La guardò con affetto e le sembrò che qualcosa scintillasse in quel grigio fumoso, forse un sorriso. Sussurrò un «grazie» sottovoce. Mia quel giorno aveva capito un po’ di più di se stessa ed era stata proprio la sua ombra a mostrarle quanto poteva essere bella e avventurosa la sua esistenza, quanto ancora aveva da offrirle, a patto però che anche lei s’impegnasse con passione e tenacia a realizzare i propri sogni. Mia capì all’improvviso che l’ombra non era altro che la parte più nascosta e profonda di sé, che lottava per vivere, gioire, per ribellarsi e sfidare un futuro in cui fosse bandita la paura e in cui la rinuncia non era contemplata. Avrebbe preso lezioni di pianoforte, letto i libri che le piacevano e non solo quelli consigliati dai suoi insegnanti, avrebbe difeso di più le sue idee ed espresso con gentile fermezza le proprie opinioni. Non sarebbe crollata non sarebbe neppure rimasta sola, senza amici che la comprendessero: era forte e aveva tanto da dare agli altri, l’ombra gliel’aveva solo ricordato. Affacciata alla finestra della sua stanza, Mia pensò che quel tramonto fosse il più bello che avesse mai visto, la giusta cornice per una giornata memorabile. Guardò con affetto Ettore e Leo che la fissavano adoranti e con loro si avviò dai suoi genitori che l’aspettavano per cenare insieme. Sorridendo pensò che a Stella avrebbe raccontato dell’avventura con la sua ombra l’indomani, quando si fossero riviste. Con un senso di calore capì che non avrebbe riso di lei, e che avrebbe creduto a quella storia incredibile: Stella avrebbe capito.