Trovare l’ipnotista richiese non poca fatica. Prima di incontrarlo, temevo che non mi avrebbe accolto, vista la mediocrità dell’uomo che ero. Non disponeva né di una segretaria né di biglietti da visita, si veniva a conoscenza della sua esistenza solo se una voce ti faceva il suo nome all’orecchio. Aveva l’aria di essere un esteta tutto scalcinato, indossava un completo sbiadito e opaco, poteva essere stato confezionato da un sarto altrettanto povero di brillantezza e alquanto decrepito, se non già passato a miglior vita. Portava disinvolto un fiore all’occhiello ormai appassito e camminava con un’andatura leggiadra e spensierata.
Aveva concesso il mio accesso alle intricate stanze in cui abitava come se fossi stato un suo caro e vecchio amico, pur ignorando le mie intenzioni e il mio nome.
Eravamo seduti a un tavolino da bar rotondo a bere cognac e caffè al centro di una stanza ottagonale senza finestre, illuminata da lampade a olio. Si entrava da una porta celata da un tendone turchese, le pareti erano tappezzate da carta da parati cremisi, ricoperta a sua volta da sette quadri dalle immagini perturbanti, un quadro per ogni parete senza porta. L’aria era impregnata dall’odore di cera per pavimenti.
Mi chiese cosa desiderassi e risposi con garbo che non avevo bisogno di un’ipnosi.
«Per quale motivo il signore si è recato da un ipnotista allora?»
Ribattei che cercavo qualcosa.
«Sa che cosa?»
Una radio, risposi.
Mi scrutò con una sigaretta sospesa tra le labbra, liberando il silenzio dal suo timbro di voce mal levigato.
«E sa perché?»
Negai scuotendo la testa. Avevo l’esigenza di cercare qualcosa. Non sapevo perché proprio una radio. Mi piaceva la musica.
«Mi racconti com’è arrivato qui. Magari troverò il modo per aiutarla a trovare la radio.»
Allora finii di bere il caffè e mi feci accendere una sigaretta. Presi a raccontare, o meglio, a ricordare.
All’incirca due giorni prima mi ero svegliato con un terribile vuoto, un indefinito bisogno di qualcosa, ma trascuravo che cosa. Così decisi di concedermi una breve vacanza. Mi ero sentito particolarmente attratto dalla città di F. – in cui attualmente mi trovavo – e mi ci recai. Arrivato, cercai un albergo che mi sarei potuto permettere; trovatolo presi una camera singola per una notte. Trascorsi la sera passeggiando da solo per le vie della città, non ero sposato e non frequentavo chissà quali compagnie, nessun divorzio alle spalle, né tantomeno una carriera troppo brillante. Ero un foglio bianco. Quando fu ora, un po’ annoiato, andai a letto. Faticai ad addormentarmi per via di un’insegna al neon, attaccata a un edificio davanti alla finestra della mia camera. Emetteva bagliori colorati a intermittenza, riportando la scritta «Chi cerca trova!», tuttavia io non sapevo neanche cosa cercare. L’insegna illuminava un piccolo balcone. Dalla porta che dava sul balconcino uscì una ragazza. Indossava abiti che seguivano quella moda trasgressiva dei movimenti di rivoluzione culturale. Ce n’erano stati anche quando io ero più giovane, ma non vi avevo mai preso parte. La ragazza posò sulla ringhiera arrugginita un giradischi a valigetta e mise su un trentatré giri. Trentatré. Presi l’orologio che avevo lasciato sul comodino, segnava la mezzanotte. Quel giorno io compivo trentatré anni. Lei ballava come l’erba di un campo mossa dal vento. I suoi capelli diventavano morbide spighe di grano immature e i suoi arti fronde che ondeggiavano. Il vento la faceva danzare in movimenti sinuosi. Il disco si riscaldò e si liquefece. Il corpo di lucida sterpaglia della ragazza bruciò. I suoi movimenti si erano trasformati nella danza della fiammella di una candela. La mia camera era rischiarata dal suo bagliore. Passarono minuti infuocati. Di lei non rimase nient’altro che cenere portata via dal vento. Non smettevo mai di meravigliarmi della caducità delle cose.
Il mattino seguente iniziai la giornata con una colazione sostanziosa ma, come avevo immaginato, non mi sentivo ancora riempito. «Chi cerca trova!» Era necessario che iniziassi a cercare e che capissi cosa avrei dovuto trovare. Mi diressi al banco del Centro informazioni – troviamo per te ciò che cerchi! che l’albergo metteva a disposizione dei suoi clienti. Non c’era coda, a lavorare al banco c’era una signorina tutta tirata a lucido, ma con il naso troppo a punta, gli occhi troppo piccoli e il viso troppo tondo. Assomigliava a una salamandra. «Buongiorno», salutai. «Buongiorno», rispose lei. «Cerco informazioni», dissi. La signorina Salamandra si scusò e disse che andava a chiamare il collega addetto al Centro informazioni – troviamo per te ciò che cerchi! e aggiunse che lei era lì solo per bella figura. Come una specie di pubblicità ingannevole, pensai. Al posto di Salamandra arrivò un tritone. Tritone indossava una camicia con una fantasia che era un misto tra pois e strisce, peccato rimanesse umida per via della sua pelle viscida. Era un individuo di altezza media, ma bisognava dire che la sua coda lo snelliva. Mi chiese come potesse aiutarmi e gli dissi che cercavo qualcosa, ma non sapevo cosa. «Uhm» fece lui pensandoci su. «Lei ha bisogno di un’imitatrice.» Meravigliato, chiesi cosa fosse un’imitatrice. «Qualcuno che imita qualcosa» rispose. Chiesi dove potessi trovarla. Disse che lo sapeva solo il direttore dell’albergo e abbassando la voce aggiunse che era perché l’imitatrice era stata la sua amante. Annuii e chiesi un incontro con il direttore. Rispose che potevo incontrarlo a una condizione.
«Vinca la C.A.L.M.A. – e sangue freddo! e non le resterà che recarsi dal direttore.»
Perplesso, chiesi cosa fosse.
«Competizione del più Ardito Leader Multiforme per l’Albergo.»
Ringraziai e mi iscrissi alla C.A.L.M.A. – e sangue freddo! senza essere né ardito, né un leader, né multiforme. Non avevo nemmeno il sangue freddo come la signorina Salamandra e il signor Tritone. Era proprio un albergo di anfibi. In effetti l’albergo assomigliava un po’ a una palude, peccato che non avessi con me degli stivali di gomma. Il direttore dell’Albergo degli anfibi doveva essere un rospo. Nonostante tutto, vinsi la competizione con nonchalance, forse perché avevo scaldato il sangue dei giudici, forse perché gli altri concorrenti erano svaniti. Fui nominato nuovo direttore e m’intrufolai di fretta nell’ufficio dell’ormai ex-direttore. Se ne stava seduto in un completo gessato. Guardandolo di sfuggita, era un uomo ben curato e pettinato, mettendolo a fuoco, era – come avevo immaginato – un grosso rospo. Chiesi dove potessi trovare l’imitatrice. Restando muto, tirò fuori dal cassetto una statuetta di gesso. La poggiò sull’intarsiata – ma viscida – scrivania e la fissò con lo sguardo vitreo. L’ex-direttore tornò ad avere le sembianze di un uomo. La statuetta raffigurava una donna. Lui mi guardò e mi intimò con la voce di prenderla e andarmene. In seguito tornò a gracidare. Dopo quel momento non avrebbe mai più parlato o indossato completi gessati.
Uscii dall’Albergo degli anfibi. Il mio stato di vuoto non faceva altro che aumentare. Solo dopo mi accorsi che l’ex-direttore non mi aveva detto cosa fare con la statuetta di gesso. Stavo pensando così intensamente a come utilizzarla che, non vedendo dove mettevo i piedi, inciampai e cadendo ruppi la statuetta. La polvere dovuta alla sua frantumazione mi rese cieco provvisoriamente. Quando ripresi la vista, ero seduto su un tappeto persiano steso su un prato che circondava un laghetto, al centro di un suggestivo giardino.
Ecco che a bere del tè verde dinanzi a me c’era una giovane donna che mi scrutava da dietro degli occhiali dalle quadrate lenti gialle, con i capelli crespi e arruffati, numerose collane intorno al collo, gli abiti un po’ sciatti e odoranti di incenso. Io non avrei proferito parola per tutto il nostro incontro. Posò la tazzina di porcellana e mangiò un biscotto. «Hai bisogno di un ipnotista. Ti dirà e troverà ciò che cerchi» disse senza indugi. Dove potevo trovare un ipnotista? Che aspetto poteva avere un “ipnotista” poi, lo ignoravo. L’imitatrice si alzò e si contorse in strani movimenti. Al suo posto apparve quello che più tardi avrei saputo essere l’ipnotista. A pensarci ora, la sua imitazione dell’ipnotista somigliava di più all’ipnotista che non egli stesso. Ma io in quel momento capii all’istante cosa dovevo cercare: una radio. Io non necessitavo dell’ipnotista! Urlavo la parola radio, senza sosta. Il profumo dei fiori di quel giardino mi faceva sentire il sangue più denso, arrivai a non sopportare più quell’odore e svenni. Mi ero ritrovato davanti a un arzigogolato edificio, la dimora dell’ipnotista, che mi aveva fatto entrare e portato nella stanza ottagonale. Terminai di raccontare, o forse ricordare.
Tornai violentemente alla realtà, seduto davanti all’ipnotista. Alla fine mi aveva ipnotizzato. Incredulo, chiesi perché l’avesse fatto. Mi rispose con un’altra domanda: chiese il mio nome. «Dario», risposi. Un sottile sorriso gli si aprì in volto.
«L’ho ipnotizzata perché doveva ritornare sui propri passi, non si sarebbe aspettato di capire ciò che cercava in ciò che conosce di più. Metta a confronto la parola radio con Dario, scambi le lettere di una e otterrà l’altra. Lei non cerca una radio, lei cerca la verità su se stesso. Trovi la verità non in un futuro effimero e caduco, ma nel principio.»
Così scostò il tendone e aprì la porta, che inaspettatamente si aprì sulla mia camera all’Albergo degli anfibi: sul letto sedeva sognante l’imitatrice. La stanza si consumava senza la propulsione di fattori esterni, collassava dall’interno, degradandosi. Le pareti divennero un formicaio al cui interno formiche danzavano imperturbabili, come i migliaia di eventi dell’universo. L’ipnotista mi confortò come un confratello, in volto egli portava sconforto, nell’animo io portavo il nulla. Ero lì per la verità che cercavo. L’imitatrice espresse il verdetto, e così parlò: «Cerchi la verità perché ti senti vuoto dentro, la tua vita è inconsistente, perché non è nient’altro che l’imitazione di quella che è la tua vera vita, tutto questo è fittizio, qualcuno ti ha generato con la mente a modello di come vorrebbe essere. Questo mondo è un’utopica imitazione. Non disperare, trovare la verità su chi sei davvero non è impossibile, colui di cui tu sei il riflesso si trova sul piano di un’altra realtà. Tuttavia, se troverai l’uomo del quale sei l’imitazione, cesserai di esistere.»