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Fascia 16-19
Lei

Ricordo gli anni della mia giovinezza; l’ambiente caldo in cui sono cresciuta e la figura autoritaria di mio padre che non potevo non guardare con grande ammirazione. I suoi modi amorevoli e il suo equilibrio lo avevano reso la persona che più stimavo e che in futuro avrei voluto tanto diventare. Mia madre, invece, non riuscivo neanche a guardarla; non era mai riuscita a farsi strada nel mondo del lavoro; trascorreva le sue giornate a curarsi della casa e sembrava che persino questo non le riuscisse bene.
La pasta scotta, le dite callose che tentavano di accarezzarmi senza successo e le camicie stirate male non facevano che diminuire la stima che provavo per lei, non sapevo ancora cosa volessi fare da grande, ma una cosa era certa, non sarei mai diventata come mia madre.
Lei, con lo sguardo costantemente verso il basso, la pelle pallida e i capelli sempre raccolti. Lei che sembrava quasi si sforzasse per cancellare ogni segno di femminilità e bellezza che aveva gelosamente custodito fino all’avvento della sua prima gravidanza e che poi, suo malgrado, aveva passato a me. Lei che che veniva inghiottita dalla tappezzeria. Lei sempre con quella stanchezza di chi aveva vissuto e sofferto, una stanchezza che su di lei pareva innaturale. Lei che passava le ore a spolverare avidamente vecchi libri, come se eliminare il più piccolo frammento di pelle morta e ricordi sarebbe bastato a renderla felice.
Mi vergognavo di lei e di ciò che rappresentava.
Con l’avvento dell’adolescenza iniziai a distaccarmi sempre di più dal nucleo famigliare. Venni strappata via dalle mura della mia stanza dei giochi per essere buttata nel mondo adulto, quella fu la prima volta che lo sentii, quel peso che avrebbe per sempre gravato su di me. Dovevo imparare a sorridere di più, a stare composta sulla sedia e ad annuire. Con il tempo i miei capelli divennero sempre più lunghi e le gonne sempre più corte, gli sguardi più mirati e l’indole più accondiscendente.
Crescendo mi resi conto che il mondo in cui ero stata buttata con così poco preavviso e del quale avevo fantasticato per anni mi stava lentamente divorando. Per quanto tentassero di convincermi del contrario, non ero altro che una bambina e presto realizzai quanto fosse semplice soggiogare una persona tanto giovane e ancora di più con quanta facilità qualche goccia di sonnifero potesse scivolare in un bicchiere.
A distruggermi, però, non fu l’ombra silenziosa che si posò maldestramente sul mio corpo addormentato e i cui sospiri a lungo mi tormentarono ogni volta che un uomo, persino mio padre, si avvicinava me. No, fu un male molto più oscuro e perverso.
Mentre contemplavo la mia impotenza, il frutto di quel fantasma senza nome penetrava le sue radici dentro il mio ventre con violenza, nutrendosi come un parassita della mia linfa vitale e risucchiandomi con sé nell’oscurità della mia psiche ancora acerba.
Quando mi accorsi dell’inutilità delle grucce e degli infusi andai da mia madre, sempre con la testa china, intenta a lucidare l’argenteria; avevo poco meno di vent’anni e per la prima volta ebbe il coraggio di guardarmi negli occhi e io, per la prima volta, non riuscii a pensare con cattiveria alle sue iridi spente.
Dopo l’aborto decisi di denunciare. Che frivola fantasia che fu la sola idea che l’assenza della mia volontà potesse rendere quell’atto meno legittimo.
Li avevo delusi tutti, uno a uno, non ero solo impura, ma anche un’assassina. Come avevo potuto porre fine alla vita del sangue del mio sangue? Io, che in quanto donna, avevo solo un compito. Come potevo guardarmi ancora allo specchio senza osservare con malinconia i miei dolci lineamenti, gli stessi che mia figlia avrebbe potuto ereditare. Come potevo aver provato sollievo dopo che quella creatura aveva smesso di risucchiare la mia anima?
Il passaggio di quell’ombra e di ciò che con sé aveva portato scomparve nel giro di qualche anno e quella fu la seconda volta che sbagliai, che non fui conforme a ciò che la società aveva progettato per me.
Ero cresciuta con l’immagine di eroine che come fenici risorgevano dalle ceneri di una tale violenza, era una delle uniche cose in grado di cambiarle e renderle degne di essere raccontate. Era come se queste ragazze, una volta essere state squarciate dalla brutalità dell’uomo e dell’uomo soltanto, perché era inconcepibile in una società come la nostra che un bocciolo di tale purezza osasse deturpare un suo simile e allo stesso modo un suo opposto, potessero finalmente diventare donne. Proprio per questo fui sempre accompagnata da un profondo senso di inadeguatezza e mi vergognai sempre del fatto che il dolore non mi avesse resa più forte, ma solo consapevole.
Compiuti venticinque anni mia madre tirò fuori da un baule di quercia il mio corredo nuziale. Vi aveva dedicato molto tempo, srotolando il mio ego ancora inconsistente e usandolo per ricamare fiori e linee vezzeggiate, simbolo dell’amore puro e sincero che avrei donato al miglior offerente.
Il baule, ormai vuoto, venne riempito di tutti i miei sogni e le mie ambizioni, per essere poi riposto in fondo alla soffitta, pronto a essere dimenticato.
L’uomo che avrei sposato si rivelò essere poco più grande di me, gentile, credo, abbastanza ricco da poter sfamare me e ciò che avrei generato e noncurante dei miei fianchi troppo stretti e del desiderio, che all’epoca ancora nutrivo, di essere qualcosa di più di un soprammobile.
Non feci mai troppo caso al suo carattere e neanche al suo aspetto fisico, ad oggi non so ancora quale sia il colore dei suoi occhi, immagino che non mi importasse molto, né che mi riguardasse. Mi dava sicurezza e l’amore che mio padre aveva smesso di darmi una volta compiuti quindici anni e questo mi bastava.
I quindici anni, furono quelli il momento della svolta; il momento in cui fui costretta a lasciare il candido stato di eterna letizia a cui ero stata legata per tutto il periodo della fanciullezza. Fu l’anno in cui sbocciai. Era così che ci descrivevano, come fiori, destinati a essere colti per poi appassire in fretta. Noi, creature dalla bellezza momentanea, pure e innocenti, lasciate in balia delle api. Ci veniva insegnato con parole velate ad assecondarle e lasciare che spargessero il nostro polline per continuare stirpi centenarie, stirpi che non sarebbero mai state nostre.
Alcuni ci immaginavano come frutti maturi e dal dolce succo, altri come bruchi che si trasformano in meravigliose farfalle; ma non importava come ci chiamassero, perché non avrebbe cambiato il fatto che smettevamo di essere agnelli da sacrificare per diventare carne da macello e nessuna metafora ci avrebbe permesso di dimenticarlo. La verità è che eravamo solo bambine che un giorno si erano svegliate nel corpo di donne, senza alcun preavviso, senza alcuna rassicurazione. Venimmo lasciate sole nel corso della nostra metamorfosi, abbandonate per essere trafitte da sguardi indiscreti e carezze fin troppo amichevoli.
Ricordo benissimo i miei quindici anni, quando fui chiamata a essere donna e iniziai finalmente a comprenderla; lei sempre con la testa bassa, lo sguardo perso e le mani consumate.
Fu però la mia luna di miele il momento in cui realizzai di essere figlia di mia madre, come lei lo era stata della sua prima di me, di non essere diversa da tutte le altre. Ero nata anche io per servire e ascoltare, accorrere in aiuto di eroi, essere la loro meta o solo un mezzo come un altro per raggiungerla, fomentare il loro desiderio, arrossire ai loro complimenti, vivere aspettando di essere portata in salvo e amare incondizionatamente, a ogni costo.
Prima figlia, poi moglie, passata dalle braccia di mio padre a quelle di mio marito, senza mai dire una parola. Con il tempo imparai anche io a scomparire, proprio come faceva lei, tra la pallida carta da parati e i ripostigli, a soffrire in silenzio, come una codarda ingrata.
Così iniziai a essere smembrata dal mondo che mi circondava, ma far finta che il mio sia stato un omicidio sarebbe un gesto pieno di ipocrisia.
Ho usato anch’io cullarmi tra le braccia morbide e delicate dei costrutti che avevo tanto odiato, e continuo a farlo.
Non c’è conforto più grande di una prigionia blanda, fatta di gabbie inconsistenti e guardie amorevoli, pronte a guidarti e consigliarti con l’unico scopo di proteggerti.
Nel profondo facciamo tutte parte di questo sadico meccanismo e il nostro non è altro che un graduale suicidio che ci porta ad abbandonare la convinzione di potere essere migliori di tutte coloro che ci avevano precedute per vivere nella speranza che le nostre figlie ci guardino sempre con disprezzo, senza mai avere la possibilità di compatirci.

Pubblicato: 24 Maggio 2022
Fascia: 16-19
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