«Che pensi di fare stasera?», gli chiedono in coro. Come suo solito, aggrotta la fronte, squadra le nuvole e lancia una preghiera. È sabato. È chiaro che i suoi amici gli chiedano se sia interessato a organizzarsi con loro. Continua a stare zitto, immobile alla fermata dell’autobus, aspettando l’arrivo di quest’ultimo. Quelle nuvole si muovono velocemente, fastidiose come il ronzio dei suoi problemi in testa. Probabilmente ha già deciso cosa farà in quella serata. Rimarrà a casa, come le ultime volte, insieme a una birra, una televisione pronta a trasmettere qualche noioso film d’amore, a coronare l’apoteosi del disagio in sottofondo, e un libro già iniziato troppe volte. Il libro è peculiare in sé. Riesce ad appassionarlo ogni qualvolta legga le prime tre righe. Al cambio pagina scatta in lui qualcosa di misterioso, si alza dal suo divano e inizia a riflettere. I suoi pensieri viaggiano come schegge impazzite e tutto sembra ruotargli senza freni intorno. Torna a sedersi, gusta la sua volgarissima 33 centilitri e ripone il libro nello scaffale. Mentre si immagina la serata carica di nulla vicina a essere vissuta, è arrivata la sua carrozza. Posti a sedere? Neanche a pagarne. Resterà fermo, un mausoleo, per tutta la durata del viaggio, dalla fermata a casa. Continua a pensare al libro nello scaffale, a che non sia stato un errore iniziarlo per l’ennesima volta. Realizza la meschinità di relegare ai suoi amici l’ennesimo cumulo di bugie. I vari «Stasera non posso, ho dei servizi da fare con i miei», «Non riesco a uscire stasera, mi sento qualche decimo di febbre» saranno il culmine delle sue menzogne, cose per le quali proverà un certo disagio e tenterà di insabbiare il più velocemente possibile. A nulla serviranno le classiche scuse del lunedì e le ripromesse sempre cariche di speranza per i prossimi weekend. Ormai non ha più senso dire «Speriamo prossima settimana riesca ad uscire», «Che peccato essermi perso anche questo fine settimana». Tutte scuse. Solo scuse, flebili, destinate a crollare. Arriva il pranzo in tavola e il cellulare continua a squillare. Tutti si sono organizzati come meglio credevano per trascorrere delle ore all’insegna della libertà. Il gruppo di amici uscirebbe tutto insieme se anche lui avesse la voglia. Tra le varie monotone notifiche dei gruppi, però, appare sullo schermo una luce diversa. Lui, sorpreso, si appresta ad accendere il cellulare e leggere il mittente del messaggio. «Sarà la solita promozione telefonica» pensa tra sé mentre riappoggia il cellulare sul muretto, allontanato da un’eco lontana, senza conoscere il nome di chi gli ha scritto. Sorride amaro, consapevole di avere intorno persone pronte a pensare a lui, a interessarsi a lui. Si sente manipolatore delle vite degli altri, non consapevole che la vita è un flusso capace di muoversi senza di lui. È troppo distante dal cellulare per poter veder arrivare le chiamate. Si sono già fatte le 19 e non accenna a prepararsi per la serata. Inizia a sistemare la sua postazione classica. Sente l’atmosfera farsi strana, inusuale. Dovrebbe andare a comprare le birre ma, pigro, si accontenta dell’ultima rimasta in frigo. Riprende il libro, alla scoperta delle righe finali di quella storia iniziata in autunno e mai portata a termine per noia o altri vizi. Ormai si è fatta estate e il caldo lo indebolisce. Demolisce, quindi, il suo luogo ameno della lettura per cercare una postazione dove l’arsura non lo consumi. Esce dalla porta di casa e trova davanti a sé il sole morente dietro una collina. Crede che il tramonto sia rimasta l’unica cosa degna di essere apprezzata. Dopo il tramonto, l’inquietudine data dalla notte lo riporta a una serata non troppo lontana. Strilla, improperi, abbracci negati, lacrime. Ancora urla e lacrime. Era un freddo inverno, e la speranza di potersi riscaldare il cuore stava pian piano finendo. Le nuvole grondanti lo riportano sulla terra, al presente. Inspiegabilmente piove. Lui non vorrebbe rientrare e, infatti, si apparta sotto la tettoia della terrazza. Il libro si è un po’ bagnato, ma l’odore che emana è ancora di carta di giornale, come piace a lui. Ormai è un ciclone. Il libro lo ha finito, è tarda notte e alza lo sguardo contemplando le stelle presenti nel cielo, limpido dopo la pioggia. Ha un rapporto speciale con le stelle. Da piccolo, quando l’estate era ancora la sua stagione preferita, lui si stendeva di notte sul prato e, per rilassarsi, contava le cadenti ad una ad una. Minuzioso, sperava di non perdere nella sua conta nessun astro. Si stende adesso, sperando di ritrovare il bambino che fu, e l’odore dell’erba bagnata lo inebria. Le fastidiose goccioline di pioggia dormienti sui fili d’erba gli ricordano del messaggio del pomeriggio non controllato. Accende il telefono. Gli crolla immediatamente dalle mani. Vede tutto quanto vissuto palesarsi di nuovo come fantasmi, pronti a torturarlo. Si ricorda delle prime volte in cui neanche parlavano, delle volte in cui comunicavano con gli sguardi. Si ricorda dei baci dati di nascosto, dei ritorni trafelati dagli amici con indosso un profumo non suo. Tra tutte le memorie dolci riportate alla mente, pensa anche al tormento di quei giorni. Gli attacchi di panico nel suo letto, il sangue colato dai polsi, i pasti saltati. Unico regalo lasciatogli era stata la noia verso la vita, alla quale lui non aveva saputo reagire, trasportato dal flusso delle bugie. Bugie troppo semplici da dire, a partire dai nervosi «va tutto bene» risposti a chi si preoccupava realmente di come stesse.
Il pomeriggio di quel sabato era stata lei a scrivergli, dopo mesi che neanche si salutavano. Lei, con uno «stasera devo parlarti», secco, deciso, aveva chissà cosa da comunicargli dalle 14.23, o forse da quando si erano visti per la prima volta e non avevano mai trovato le parole giuste, mossi dalla sfrenata voglia di superarsi a vicenda, senza mai riuscire a camminare in simbiosi. Ormai sono le 2 di notte, è troppo tardi per rispondere. Beffardo degli altri, beffato dalla vita. Così si sente, mentre si intrufola nella stanza dei suoi e scippa dal pacchetto del padre una sigaretta. Si era ripromesso che non l’avrebbe mai fatto, non avrebbe voluto essere uguale a suo padre. Mentre cerca di non ustionarsi le mani con l’accendino, si lascia cadere sul divano. A ogni boccata, un respiro mancato. Ripensa alla fenice di cui parlava il suo libro, finito in quella tragica nottata. Ripensa alle lacrime della fenice, curative. Intanto ricomincia a piovere, ma stavolta è chiuso in casa. Una goccia di pioggia caduta dai suoi occhi spegne la sigaretta.
«Quindi, che hai fatto sabato sera?» gli chiedono gli amici preoccupati. «Ma niente, ho letto» risponde lui con un sorriso. Con la mano che accenna un saluto, si avvia alla fermata dell’autobus. È iniziata un’altra settimana.