Ti amerò sempre Leo.
«Emma, dobbiamo tornare a casa: mamma ha già telefonato otto volte» mi dice mia sorella. «Chissà quanto doveva essere bella la vita quando non esistevano i telefoni!» sbuffo.
Io e Chiara salutiamo i nostri amici e chiamiamo un taxi mentre usciamo dal locale. Venti minuti dopo siamo nel salotto di casa a sentire l’ennesimo rimprovero di mamma, riusciamo a cavarcela con una punizione di due giorni. Vado in camera mia, mi cambio, mi sdraio sul letto e cado in un sonno profondo. A svegliarmi è il rumore di un treno, cosa alquanto strana dato che non abito vicino ad una stazione. Appena apro gli occhi, noto che non sono nel mio letto e che indosso una vestaglia al posto della tuta che avevo la sera prima, o così mi sembra di ricordare. Possibile che abbia bevuto così tanto da non sapere nemmeno dove mi trovo? Decido di chiamare mia sorella per domandarglielo, ma ben presto mi accorgo che non c’è traccia del mio cellulare sul comodino.
Mi guardo intorno per cercare di capire dove mi trovo: sembra tutto così antico. Esco dalla stanza e incontro una donna con un grembiule legato in vita. «Buongiorno signorina Giulia. Cosa gradisce per colazione?» mi chiede. Perché questa donna mi chiama Giulia e perché si comporta come se abitassi in questa casa? Faccio finta di niente e le chiedo di prepararmi dei pancakes ma lei sembra non capire.
«Mi scusi signorina, ma non so cosa siano i pancakes. Posso portarle una fetta del suo dolce preferito, l’ho preparato poco fa». Per la seconda volta tengo per me le domande che mi frullano per la testa. Poco dopo sono seduta nel letto a bere del tè e a mangiare una torta ancora calda. Decido di uscire per chiamare mia sorella in qualche modo, ma mi accorgo di indossare ancora la vestaglia. Mi dirigo verso l’armadio e i vestiti che ci trovo sembrano usciti da un dipinto del Novecento. Non mi resta che prenderne uno e indossarlo. Mi sciolgo i capelli ed esco da quella casa. Noto subito che la città è molto diversa: i colori sono spenti, i palazzi antichi, le macchine sembrano uscite da un vecchio film in bianco e nero e le persone sono vestite con abiti strani. Mi guardo intorno sbalordita e cerco di orientarmi per le vie della città di cui riconosco qualche particolare. Entro in una panetteria e chiedo ad una donna: «Scusi, in che anno siamo?». Lei mi guarda confusa mentre dice: «Nel 1940». Come posso aver festeggiato tre mesi fa il primo giorno del 2022 ed ora trovarmi nel 1940? La signora borbotta qualcosa ed esce dalla panetteria e così faccio anch’io.
Ho le idee troppo confuse per tornare a casa perciò continuo la mia passeggiata. Cammino per le vie della città e osservo i passanti, le macchine e i negozi, senza capire cosa mi sia successo. Sto passeggiando nell’erba di un prato quando scorgo una panchina vuota e mi siedo. Mi guardo intorno e gli occhi mi si riempiono di lacrime. Piango; un po’ per la sensazione di solitudine che provo, un po’ per la confusione, un po’ perché solo adesso realizzo l’importanza di cose che ho dato per scontate per tutta la vita: la mia famiglia, i miei amici, la mia scuola… Cosa devo fare per riavere indietro la mia vita?
Sento qualcuno accanto a me schiarirsi la voce e, quando alzo lo sguardo, vedo un anziano signore che mi sta osservando. Possibile che non l’abbia sentito avvicinarsi? Mi alzo dalla panchina e lo sento dire: «Chissà quanto doveva essere bella la vita quando non esistevano i telefoni». Mi volto di scatto, ma lui non c’è più e io comincio a correre. Non so bene da cosa o da chi io stia scappando, ma la tensione accumulata trova sfogo nella corsa e le gambe sembrano muoversi da sole. Quando mi fermo ho il fiatone, il sole ha ormai lasciato spazio alla luna e non riesco a capire dove mi trovo. Devo assolutamente tornare a casa e così aumento di nuovo il passo dirigendomi verso la via principale. «Ehi ragazzina!» urla un uomo seduto al tavolo di un bar poco più avanti. «Vieni qui, piccola!» dice quello seduto vicino a lui. «Vogliamo solo fare due chiacchiere» dice un altro ancora. Non li guardo, sono quasi riuscita a superarli quando una mano mi tira indietro con forza: è la mano di uno degli uomini che hanno parlato. Cerco di fuggire ma la sua presa è salda e lui non ha intenzione di lasciarmi andare. Mi guarda dritto negli occhi quando dice: «Ti ho detto di venire qui!». Poi avviene tutto in un brevissimo lasso di tempo, così breve che mi viene difficile capire cosa stia succedendo. Un pugno colpisce l’uomo in faccia, quest’ultimo molla la presa dal mio braccio e un’altra mano mi trascina via. Degli uomini ci rincorrono e ci ordinano di fermarci, ma la mano che mi sta trascinando mi guida in un vicolo e coloro che ci stanno inseguendo non riescono a trovarci. Solo in quel momento alzo lo sguardo su colui che mi ha salvata e i miei occhi incontrano i suoi.
Il ragazzo che si trova di fronte a me ha i capelli del colore delle nocciole che mia mamma mi comprava quando ero piccola e due occhi azzurri del colore del mare calmo e del cielo limpido. «Non devi girare da sola di notte!» mi dice. «Questo non dà a loro il diritto di toccarmi, non credi?» rispondo. Vedo un lampo di sorpresa nel suo sguardo quando mi dice: «Sono Leonardo». «Grazie, Leonardo. Sono E…Giulia» dico, presentandomi con il nome con cui mi ha chiamato la cameriera questa mattina. «Non c’è di che, Giulia» sembra riflettere un attimo prima di dirmi: «Vieni con me». Non so per quale motivo, ma sento che di lui mi posso fidare. Sarà che mi ha appena aiutato con quegli uomini, sarà che gli occhi azzurri danno un tocco angelico al suo volto, sarà che questa situazione mi ha messo talmente sotto pressione da perdere quel poco di ragione che mi era rimasta, ma lo seguo. Lo seguo per le vie di una città che mi sembra familiare anche se è così diversa, lo seguo perché non ho nulla da perdere, dato che ho perso la mia vita da un giorno all’altro. Così, in una fresca notte di giugno, vedo Torino mezzo secolo prima della mia nascita ed è stupenda. Saliamo sul suo motorino che ci porta fin sopra una collina, il vento mi accarezza il volto e mi scompiglia i capelli, le mie braccia lo stringono forte, forse per paura di cadere o forse per paura di perdere ciò che ho appena trovato: una persona che mi abbia protetta come mai nessuno prima d’ora ha fatto.
Appena scendo dal motorino due mani si posano sui miei occhi. «Non riesco a camminare se non vedo» gli dico. «Fidati di me» mi sussurra all’orecchio e, per la seconda volta nell’arco di poche ore, lo faccio. Appena toglie le mani dal mio volto resto senza fiato. La città è ai miei piedi, con uno sguardo riesco a cogliere le luci delle case e le macchine in movimento. Sono senza parole. Sento le lacrime scendere sul mio viso e piango sfogando la tensione accumulata, non solo in questa giornata, ma in tutta la mia vita: non sono mai riuscita ad affezionarmi a qualcuno, forse per la paura di essere abbandonata o forse perché mamma mi ha sempre insegnato a cavarmela da sola e a non aver bisogno di nessuno. È stato proprio grazie a una frase detta in un momento di rabbia fuori dal locale la sera prima se mi sono svegliata nel secolo precedente, se ho conosciuto questo ragazzo e se ho capito di non essere sbagliata se ho il cuore di un’altra epoca. Perché pretendere regali costosi quando il regalo più bello è un mazzo di fiori? Perché ridurre tutto a un messaggio quando si può scrivere una lettera? Perché dedicare i post su Instagram quando si può dedicare una frase del proprio libro preferito? Eppure la mia generazione certe cose non le ha mai provate e il romanticismo è andato a sfumare fino a diventare raro da trovare. Non capirò mai se si stava veramente meglio quando i telefoni non esistevano, in fondo le persone non mi sembrano così felici come mi aspettavo. Grazie al ragazzo dagli occhi blu come il cielo d’estate, però, ho compreso che avere qualcuno su cui contare non è poi così male come pensavo. Così, osservando l’alba mentre scendiamo giù dalla collina, apprezzo ogni istante di quella mattina.
Arriviamo davanti ad un palazzo e un ragazzo che avrà la stessa età di Leo lo sta aspettando con un borsone di pelle nero. Leo entra nel portone chiedendomi di attenderlo e pochi minuti dopo esce con indosso una divisa da militare e capisco subito che partirà per la guerra. Guida fino alla stazione vicino alla casa in cui mi sono svegliata, ormai, ieri. Mentre il treno sta per partire vedo le mogli salutare in lacrime i mariti, i soldati che stringono al petto i loro figli e poi Leo che, in mezzo a tutta quella confusione, si ferma e posa le labbra sulle mie. «Tornerò, Giulia. Te lo prometto» sussurra. «Aspettami». Così, velocemente come è arrivato, se ne va, lasciandomi un senso di vuoto nel petto. Le pareti intorno a me iniziano a girare e sento il rumore delle rotaie del treno sempre più lontano. Le gambe cedono e gli occhi si chiudono. Poco dopo mi sveglio e sono di nuovo nella mia cameretta, con il telefono sul comodino accanto a me. Tutto è tornato alla normalità. Eppure quel senso di vuoto nel petto sembra non abbandonarmi e sento il bisogno di capire come è finita.
Mi vesto ed esco di casa. Dopo molte ricerche tra biblioteche e uffici pubblici riesco a trovare un vecchio registro dei matrimoni. Cerco il nome di Leo e lo trovo accanto a quello di Giulia. Così risalgo l’albero genealogico fino ad arrivare a me e a mia sorella. Mi manca il fiato quando mi rendo conto che Leo è il mio bisnonno. Da un lato sono felice che sia tornato a casa, dall’altro non riesco ad accettare di aver perso l’unico ragazzo che è stato in grado di guadagnarsi la mia fiducia. Mentre torno a casa, camminando per le vie di una città che finalmente riconosco, il mio sguardo è perso nel vuoto e sono talmente distratta che vado a sbattere contro qualcosa. Alzo il volto e i miei occhi rimangono folgorati da due iridi blu. Ci rivedo lui in quello sguardo, ci rivedo Leo. «Scusami non ti ho proprio visto» balbetto ancora sotto shock per quel flashback. «Non ti preoccupare.» dice lui. «Comunque piacere di conoscerti. Sono Leone. E tu?» continua disinvolto. Un sorriso mi si dipinge sul viso e dopo un attimo di esitazione rispondo: «Sono Emma». Iniziamo a passeggiare e, più lo vedo sorridere, più mi ricordo il militare che ha cambiato il mio modo di vedere il mondo. I giorni passarono e quel ragazzo dagli occhi blu riuscì a rubare il cuore alla ragazza che non aveva mai creduto nell’amore, alla bambina che aveva sempre evitato di affezionarsi per paura di restare da sola. A Emma che, per aver detto una frase in un momento di rabbia, si era ritrovata a vivere sessantacinque anni prima della sua nascita. E a quel punto ciò che tutti chiamano amore non sarà nient’altro che un effetto collaterale di un viaggio nel tempo.