Caro Nico,
ti ricordi quando l’ultimo giorno di scuola ti ho detto: «Perché non facciamo un resoconto di questi cinque anni?». Ci siamo messi a ripensare a tanti momenti e tu mi prendevi in giro perché li ricordavo tutti, come se fossi stata una maniaca.
Mi ricordo anche quello che mi hai detto la primissima volta in cui abbiamo parlato. «Non è ossessiva come cosa?»
Anche tu ricordavi tutto però. Gli scherzi, le riflessioni filosofiche e i litigi senza motivo. Quando arrivi alla fine e guardi indietro ti rendi conto di quanto tempo è effettivamente passato. La monotonia della scuola a volte mi manca. Non ci dicevamo mai «buongiorno», convenzioni sociali superate. A dire la verità eri praticamente l’unica persona che non salutavo. Non so perché, me lo sono chiesta tante volte, ma sinceramente non ne ho idea. Iniziavamo a parlare e basta. Più che altro iniziavi. Scusa se ho parlato davvero poco per tutto questo tempo e lo so che ti dà fastidio quando mi scuso per motivi che non ti sembrano validi, ma sento di doverlo fare. Scusa.
«La smetti?»
«Di fare cosa?»
«Di chiedere scusa a caso. Mi fai sentire un deficiente.»
«Ok, scusa.»
Un po’ ero stupida, un po’ lo facevo apposta. Tu non eri più semplice: in mezzo alle lezioni passavi dal mettere in dubbio l’esistenza di Dio al recensire il panino di un pub romano, tutto con la stessa solennità. Quando ti ascoltavo mi chiedevo se il mondo fosse a conoscenza della tua intelligenza o se ti divertivi a nasconderla sotto un velo opaco di stupidaggine adolescenziale.
«Se non esistesse Dio cadrebbero tutti i valori assoluti per l’uomo.»
«Sì, ma questi valori sarebbero assoluti se l’uomo stesso fosse assoluto.»
Mi dispiace Nico, ma non penso che abbiamo mai dato un concreto contributo alla filosofia moderna, non siamo nemmeno riusciti a trovare il senso delle nostre vite anche se ci abbiamo provato. Ti ricordi il terrore che avevo quando mi chiedevi cosa avrei fatto dopo le superiori? Me lo hai chiesto più di una volta e io non rispondevo oppure cambiavo discorso, poi un giorno ho preso coraggio e ho detto:
«Forse il conservatorio.»
«Guarda che è meno stupido di quello che pensi.»
Detto da te non mi rincuorava particolarmente: tu sapevi che avresti fatto medicina dall’asilo probabilmente, avrei preferito qualcuno con più incertezze e dubbi però a quel punto a che cosa mi saresti servito? Eri utile quando ero perplessa, i tuoi consigli erano quasi sempre buoni e credo che anch’io ti sia stata d’aiuto nei tuoi momenti d’incertezza: qualsiasi cosa ti suggerissi tu facevi sempre il contrario.
«Ari, secondo te devo prendere la patente per la moto quest’estate?»
«Secondo me no, tanto tra due anni potrai prendere quella della macchina.»
E a settembre sei arrivato nel parcheggio del liceo con la tua Yamaha MT-125. Però mi facevi sentire utile in tante altre occasioni: per esempio quando ti scordavi la penna, la matita, la gomma, l’astuccio, i fazzoletti, i libri oppure i compiti. Anche quando sono venuta a trovarti all’università mi hai chiesto una penna, che ovviamente non ho più rivisto. Poi quello strano potere di scaldare tutto ciò che tenevi in mano: ti prestavo qualcosa e quando me la restituivi (se me la restituivi) era bollente. Tu con le mani sempre calde, io con la sindrome di Raynaud.
Ti ricordi il clipper che tenevo sempre in tasca, che ti prestavo sempre?
«Perché hai l’accendino se non fumi?»
«Mi piace bruciacchiare le cose.»
«Sei matta.»
Quando la sera tardi, prendevo il treno per tornare a casa e mi ritrovavo da sola alla stazione lo stringevo nella tasca, mi sembrava di darti la mano e, per quanto fosse una cosa stupida, mi calmava. Sì Nico, sono matta.
«Prima non ero così.»
«Così come?»
«Matta, strana.»
«Probabilmente non eri ancora nata.»
«No, ci sono diventata. Mi si è iniziato a staccare il cervello in terza media. Ogni tanto qualche pezzetto cade e fa lo stesso rumore delle foglie secche che si staccano dal ramo.»
Non ero facile, lo so.
«Ari, che hai fatto di bello ieri?»
«Ho vomitato, tutto il pomeriggio.»
«Perché?»
«Il solito mal di testa. Magari lo studierai e ci farai la tua tesi di laurea.»
A volte ce l’ho ancora. Il medico dice che è cefalea muscolo-tensiva e la causa principale è lo stress. Allora dispensavi il tuo consiglio da vita vissuta.
«Fa male tenere tutto dentro.»
«Lo so.»
«Perché non scrivi?»
Quando speravi in una conversazione semplice rendevo tutto pesante, ma anche tu non eri da meno:
«Ari?»
«Dimmi.»
«Piangeresti al mio funerale?»
Ancora adesso mi chiedo che tipo di domanda era: curiosità? Bisogno affettivo? Non lo so.
«Certo che piangerei. Tu piangeresti al mio?»
«Certo che no. Può essere che mi parli più da morta che da viva.»
Quel giorno quando sono tornata a casa ho pensato che mi sarei dovuta impegnare a parlarti di più. Dopo due ore ho pensato che sarebbe stato meglio se fosse stato un processo naturale. Quindi parlavo quando ne avevo bisogno e il più delle volte me ne pentivo pure. Tu reagivi sempre bene, ma mi pentivo lo stesso. Credevo di più alla reazione che mi aspettavo facessi che a quella effettiva. La mania del controllo si estendeva anche alle emozioni che avresti dovuto provare secondo la mia testolina disagiata. Ti chiederei scusa anche per questo, ma mi odieresti ancora di più. A volte il tuo bisogno di coinvolgermi in conversazioni era così plateale da risultare quasi ridicolo:
«Mi sembri un volontario del centro sociale.»
«È il miglior complimento che riesci a fare?»
Ti ricordi quante volte mi hai dovuto dire che non mi odiavi, che non ti facevo pena e che la dovevo smettere di combattere fantasmi che non esistevano? Ci sono giorni in cui penso che sono stata una stupida a rovinarmi l’adolescenza con tutte queste paranoie. Poi ci sono giorni in cui penso che mi odi, che ti faccio pena e che tutto ciò che hai detto o fatto aveva secondi fini che non implicavano me.
*
Caro Nico,
ti ricordi la paura di crescere? La sento ancora. Non è forte come quella di quell’anno. Quella di quando stava arrivando l’estate che ci avrebbe portato ai diciott’anni. Quella in cui il tempo correva e noi non riuscivamo a stargli dietro. L’ansia di non dover sprecare nemmeno un secondo della nostra vita affiancata alla paura di essere rimandati in Fisica. Ti capivo quando dicevi che non volevi perdere tempo. Non perdere tempo, in quell’anno, significava gustarsi ogni singolo attimo prima dell’ingresso ufficiale nella vita adulta. Nessuno voleva crescere eppure eravamo costretti a farlo. Poi a vent’anni cominci ad aver paura dei trenta e poi a trenta dei quaranta. Forse verso i settanta s’inizia a vivere la vita come un dono e forse i pochi mesi che ti separano dai diciott’anni sono l’anteprima di quella vecchiaia. Ti senti privato della libertà a cui sei stato abituato per tutta la vita. È un cerotto che devi togliere: prima la paura e poi, di colpo, lo strappo. Brucia un po’ però dopo non senti più niente, la ferita è cicatrizzata. Qualche anno fa la domanda che mi traumatizzava riguardava l’università, adesso la laurea, un domani i figli.
«Non fare “l’accelerata”.»
«Non sono “accelerata”, mi preoccupo per il futuro.»
Anche tu eri preoccupato, ma riuscivi ad avere paura restando calmo. Era una cosa che ti invidiavo tantissimo, insieme all’ottimismo e alla forma del naso. Ti ricordi com’era correre sulla spiaggia? Ci si sentiva immortali come il mare e leggeri come la sabbia. Nelle sere di maggio, quando ancora non c’erano i turisti e l’estate, ma faceva comunque caldo, le passeggiate in spiaggia aumentavano decisamente l’approccio filosofico della vita. Ti aiutavano a superare anche il trauma dei diciotto. Quella sera ero andata da sola: cinque minuti con i piedi nella sabbia prima di andare a dormire. Si stava davvero bene, Nico. La luna era arancione, il mare calmo e gli ombrelloni ancora chiusi. Era tutto così bello che ho pensato di volere veramente bene alla vita per la prima volta. Sono stata felice di esistere. Poi ho scrollato la sabbia dai piedi, mi sono rimessa le scarpe e sono tornata casa. Verso le due mi hai chiamata. Non era la tua voce, ma quella di tuo padre che provava a dirmi tra le lacrime, che un auto ti aveva investito e che eri morto sul colpo. Avevi ventiquattro anni.
Non l’ho realizzato subito. Penso di averlo realizzato due giorni dopo, al funerale. Alla fine non ho pianto, Nico. Non ho pianto per un anno e mezzo, però sto piangendo ora.
*
«Fa male tenere tutto dentro.»
«Lo so.»
«Perché non scrivi?»
*
Caro Nico,
eccoci qui.
Non è esattamente come scrivere un tema a scuola, però ci ho provato e mi ha anche fatto bene. Mia madre dice sempre che si deve accettare la morte come si accetta la vita. Non ho mai accettato la vita e adesso risulta abbastanza difficile riuscire a farlo con la morte, specialmente la tua. Grazie per tutto quello che sei stato.
Ieri sono passata davanti alla scuola. È rimasta tutta uguale: le scritte sul muretto, gli alberi, tutto… Noi però siamo cambiati, non siamo più lì dentro. Sarebbe bello salire le scale, vederci sui banchi, impegnati a divorare ogni secondo del nostro tempo.
Ti ricordi il clipper che tenevo sempre in tasca, che ti prestavo sempre?
È finito, ma ogni tanto lo stringo ancora.
Arianna




