Uscii da scuola, correndo verso la stazione ferroviaria. Il treno era in ritardo di dieci minuti – sarebbe dovuto passare alle 14.39 –, quindi riuscii a prenderlo in tempo. Il viaggio fu noioso come di consueto, con i soliti volti coperti, il solito rumore metallico causato dal contatto delle ruote del vagone con le rotaie, le solite voci di sottofondo che ormai avevo imparato a discernere le une dalle altre. «Cioè, ti rendi conto? Quella mi ha messo sei meno! Che bastarda! Quanto le costava mettermi il voto pieno?» diceva una ragazza la cui voce acuta si distingueva particolarmente dalle altre; «Questi ingrati sanno solo lamentarsi dei docenti, senza mai farsi un esame di coscienza!» diceva una donna, probabilmente la stessa che aveva deciso di assegnare alla giovane citata in precedenza quella valutazione; «Quando se ne stanno zitte quelle due galline? Maronn!» borbottava un uomo con un forte accento meridionale, che di certo non si stava mettendo meno in mostra delle altre due. Intanto guardavo fuori dal finestrino: case, prati, strade, muri, cartelli, alberi. Nulla di nuovo, nulla di interessante, nulla di piacevole. La solita strada. Finalmente arrivai alla stazione del mio comune. Solo in cammino mi accorsi che quel giorno la cartella pesava molto meno del solito, e realizzai che era quella la ragione dell’assenza del mio dolore alla gamba sinistra. Per fortuna casa mia non era lontana, ci volevano circa cinque minuti dalla stazione. Frugai nello zaino per trovare le chiavi del cancelletto, le inserii e aprii. Finalmente a casa, nel mio regno di pace e serenità. Circa.
Appena arrivata a casa buttai lo zaino a terra e presi una pizza surgelata per riscaldarla. Il ronzio del forno a microonde aveva un non so che di piacevole. Poi presi una birra dal frigorifero. Buona, la birra. È ciò che ci vuole dopo una lunga giornata di scuola. La ingurgitai tutta in un istante. Ero solita berla sempre così velocemente – e a stomaco vuoto – per ottenere quel lieve senso di confusione e quella leggera mancanza di equilibrio tipica dell’ebbrezza tenue. L’essere brilla era una delle poche cose che mi rallegravano, la prima tra tre. Mi alzai per prendere la pizza, che il microonde aveva appena finito di scongelare, e lo feci barcollando un poco. Portata sul divano la tagliai con molta svogliatezza e la morsi. Aveva un sapore mediocre, come sempre. D’altronde non sapevo fare di meglio. Poi mi lanciai sul mio letto, e la gamba ricominciò a farmi male. Che idiota.
Presi il cellulare – nel frattempo mi erano arrivate una marea di notifiche – e vidi un messaggio di Martina. Voleva andare a Monza con le altre nostre amiche per un po’ di svago, come di consueto. Le scrissi che potevo venire e cominciai a prepararmi. Presi un completo di quelli molto scoperti, composti da una parte superiore simil-reggiseno e una gonna attillata, entrambi di un marrone chiaro. Poi cominciai a truccarmi. Ormai mi veniva automatico: eyeliner, mascara, rossetto, fondotinta. La seconda fonte di letizia era questa: sistemarmi in modo da sentirmi meritevole di essere abitante della Terra. Apparivo tanto sicura di me, ma alla fin fine è una maschera. Una delle tante. Una delle troppe.
Mi diressi verso la stazione, facendo la stessa strada per cui ero venuta. 17.35, il treno questa volta era in orario. Di nuovo le stesse case, gli stessi prati, gli stessi muri, ma sotto lo scroscio rilassante della pioggia e un magnifico cielo grigio. Nulla di nuovo, ma perlomeno era uno spettacolo che si poteva osservare meno frequentemente. Arrivata alla stazione trovai le mie amiche. Erano tutte vestite con indumenti che, probabilmente, andavano contro al «buon costume» a cui sono tanto affezionati alcuni individui. A noi non interessava del pudore. L’unica che ci faceva caso – in modo molto contenuto – era Rosa, ma non per una sua personale verecondia: data la sua debolezza, temeva di essere aggredita. Infatti le poche volte che usciva con noi non aveva preoccupazioni di questo tipo.
Ci dirigemmo verso la città. Per fortuna le altre avevano un ombrello, non immagino il dramma se mi fossi bagnata un poco i capelli. Ci posizionammo sotto una costruzione, probabilmente un ponte, che sovrastava una via poco frequentata. A cosa servisse quell’edificio, non ci era dato sapere. Rimaneva, tuttavia, un ottimo riparo e un luogo piuttosto confortevole, ma non nel senso stretto del termine: mi sentivo a mio agio in quel posto. L’ombra leggera, i muri, le nostre scritte sugli stessi, l’odore dell’asfalto bagnato. Sentivo di poter volare, lì. A breve lo avrei fatto: mi ero portata il necessario per farmi uno spinello, e le altre avevano portato degli alcolici.
Tritai l’erba con cura, la avvolsi nella cartina e ci misi il filtro. Era venuto piuttosto bene. Poi presi l’accendino e cercai di accendere il cilindro, ma feci un po’ fatica a causa del vento che si era portato la pioggia. Dopo una decina di tentativi di accensione, riuscii finalmente a godere del piacere effimero che la droga porta con sé. Cominciai a volare. Mi sentivo come il formaggio che si scioglieva sulla pizza quando la mettevo nel microonde. Il mondo pareva muoversi rimanendo immobile, sembrava che stesse dondolando con me, procedendo al mio stesso ritmo. Mi sentivo enorme e minuscola allo stesso tempo.
Intanto, con quel poco di lucidità che mi rimaneva, riuscii a intravedere che, tra le mie amiche ubriache, c’era Rosa, che era quella più lucida tra tutte. Rosa cercava di non esagerare. Nonostante odiasse buona parte dei soprusi che la sua stessa esistenza la costringeva a subire, aveva un certo attaccamento alla vita. Il mio rapporto con Rosa è stato, fin da subito, unico: era tornata, dopo due anni di assenza, nella mia vita, senza scuse e solo con un rimpianto. Rimpiangeva di non aver cercato di approfondire la nostra amicizia, che era durata poco. Troppo poco. Mi si illuminarono gli occhi quando, quel giorno di aprile, mi scrisse che voleva tornare mia amica perché mi riteneva speciale. Era da tanto che non provavo una sensazione simile senza l’aiuto degli stupefacenti. Anche se eravamo tornate amiche da solo due settimane, mi pareva di conoscerla da una vita. Forse era perché non eravamo tanto diverse. Lei riusciva a empatizzare con me, come nessuna delle altre riusciva. Tuttavia non era ancora degna dello status di migliore amica. La mia diffidenza verso il genere umano non permetteva così tanti cambiamenti repentini di fila.
Quel giorno ci divertimmo un sacco. Andò come di consueto: sparammo un sacco di idiozie strillando e barcollando, giocammo, saltammo, cademmo e ci rialzammo. Questo è l’unico caso in cui l’aggettivo consueto per me non aveva un’accezione negativa: amavo passare il tempo con loro. Ecco, questo era il terzo degli elementi che mi portavano gioia. Stare con loro. Amavo le mie amiche. Ognuna aveva le sue peculiarità, anche se agli occhi altrui si mostravano piuttosto simili. Probabilmente loro non ricambiavano il mio immenso affetto, ma lo accettavo. Non volevo affrontare la realtà. Mi bastava già conoscere quel pezzo di realtà che mi faceva stare male. Non volevo stare male ulteriormente. Non volevo che la mia vita peggiorasse. Non volevo giungere alla mia dipartita mentale.
Quella sera, dopo il ritorno a casa, mi bevvi due birre e scongelai un’altra pizza. Poco dopo mi misi a piangere. «Perché mi sono ridotta a questo? Perché a sedici anni sono già un’alcolizzata tossicodipendente? Dove sono i miei genitori? Vivo in una villa, perché non sono felice?» mi chiedevo strillando. Scrissi alle mie amiche. Solo Rosa rispose. Non appena le dissi della mia situazione corse in mio soccorso – abitavamo relativamente vicino –, nonostante suo padre fosse contrario a farla uscire di sera. Appena mi vide mi corse incontro. Mi abbracciò. Ricominciai a piangere – avevo interrotto il mio pianto poco prima – e lei mi mise con gentilezza le mani sulle faccia, forzandomi in un modo incredibilmente cauto a guardarla negli occhi. «Francesca, – disse – la tua morte non è ancora arrivata! Puoi cambiare, che dico, possiamo cambiare! Nulla è perduto finché la tua dipartita mentale non è giunta!». Quell’angelo riuscì, con le mie stesse parole, a portarmi via, verso il Paradiso. E il dolore alla gamba sinistra svanì per sempre.