Osservo la strada che si snoda davanti a me in eleganti curve serpentine. Il riflesso dorato del sole del tardo pomeriggio fa brillare l’asfalto di una luce sovrannaturale, di un nero ipnotico. Il calore artificiale dell’autobus lascia sulla pelle la sensazione aliena di una stoffa di plastica. Sfioro coi polpastrelli il vetro dei finestrini e sulla superficie sporca e appannata resta un’impronta appena visibile. L’orologio del mio vicino di posto, un uomo sulla settantina dai capelli bianchi e il viso sottile e compassato, segna le cinque e mezza. Alzo gli occhi al cielo. Saremmo dovuti arrivare mezz’ora fa alla Stazione Termini. Maledico mentalmente il traffico di Roma, le macchine di Roma, e i semafori, le strisce pedonali, i pedoni e persino i lampioni di Roma. Maledico Roma. L’uomo alla mia destra si volta di fianco e sussurra qualcosa nel sonno. Si è addormentato tre fermate fa. Mi domando come farà a capire quando deve scendere. Dubito che ci sia qualcuno pronto a svegliarlo al momento giusto. Mi sorprendo a sorridere. Quest’uomo potrebbe dormire fino al capolinea, risvegliarsi il giorno dopo ancora sul sedile dell’autobus e probabilmente scrollare le spalle per addormentarsi di nuovo. Ora dove siamo? Sbatto le palpebre per distinguere meglio i contorni. Intravedo in lontananza le luci di via del Corso. Non mi pare che dovessimo passare di qui, ma se può ridurre anche solo di una minima parte il ritardo mi va più che bene. Mi appoggio al bordo del finestrino e aspetto. Il semaforo scatta. L’autobus compie una curva secca verso destra. Rischio di volare addosso al signore addormentato, ma riesco ad aggrapparmi appena in tempo. In fondo è stato divertente. Mi ci voleva qualcosa di divertente, una distrazione, perché sono in viaggio da un’ora e mezza e il cellulare con la musica mi si è scaricato un quarto d’ora fa. Forse potrei mettermi a dormire come fanno l’uomo accanto a me e metà degli altri passeggeri, ma non mi sembra molto prudente. Gli autobus non sono notoriamente luoghi troppo sicuri. Questo poi, è così pieno di gente che mi sorprende si possa respirare. L’autobus compie un’altra curva secca ed entriamo finalmente su via del Corso. Scorgo una donna dalla pelle scura che tiene per mano una deliziosa bambina simile a lei, con dei teneri codini rosa. Mi chiedo da dove vengano: Asia, Africa, Sudamerica? Posti che mi piacerebbe visitare, un giorno. Se lei è qui, nulla esclude che tra qualche anno io non possa essere lì, da qualunque posto provenga. Magari proprio nella stessa città in cui è vissuta. E chissà, se le coincidenze esistono davvero, potrei incontrarla di nuovo. Forse sentirei qualcosa di familiare passandole accanto. Improvvisamente un fascio di luce passa tra due palazzi e mi colpisce dritto negli occhi attraverso il finestrino. La strada scorre liscia sotto le ruote dell’autobus. Via del Corso è lunga, molto lunga. I negozi sembrano confondersi l’uno con l’altro, quelli di vestiti per adulti con quelli di ridicole borsette per bambini, i fast food con le gelaterie. Si confondono ancora di più dietro al vetro, mescolando i colori come in un caleidoscopio. Vengo qui spesso con le mie amiche. Andiamo anche in altri posti, ma via del Corso è sempre stato quello che preferisco. È piena di gente così particolare, nel modo di vestire e nelle acconciature, che a volte mi verrebbe voglia di fotografarli uno a uno come una cool hunter poco rispettosa, e costruire un album con le loro immagini. Alcune delle mie amiche si lamentano dei turisti, degli stranieri, degli immigrati, dei clandestini, dei vu’cumpra’, come dicono quelle di lingua più sciolta, ma io non ne capisco il motivo. Anzi, mi ricordo della coppia asiatica che avevamo visto qualche mese fa davanti al Pantheon. Li avevo trovati adorabili nei loro abiti tradizionali. Sembravano veramente eccitati da ciò che avevano davanti. A me, invece la prima volta che l’avevo visto il Pantheon aveva fatto l’effetto di una grossissima delusione. Non per il tempio in sé, che era decisamente magnifico, ma per il luogo in cui si trovava. Un palazzo così grande e con quella storia sembrava quasi a disagio, casomai i palazzi possano provare disagio, costretto tra quei condomini. Una pecora bianca in un gregge di pecore nere. Mi ricordo che rimasi sorpresa dal fatto che nessun vandalo lo avesse ancora ricoperto di graffiti come appunto i palazzi intorno. Dentro però era bello, anzi bellissimo. Mi è sempre piaciuto il foro perfettamente tondo all’apice della cupola. Secondo quel poco che ho studiato di arte serviva per una cerimonia in onore dell’imperatore, che entrando veniva illuminato dalla luce di mezzogiorno. Oggi chiunque, entrando a quell’ora, può subire lo stesso trattamento imperiale e vivere il suo momento di gloria romana. È un pensiero che mi dà un senso di soddisfazione. L’autobus esce da via del Corso e raggiunge la gigantesca Piazza Venezia. Il sole sta ormai tramontando e un altro fascio di luce investe il finestrino. Per un attimo tutto diventa giallo oro, striato di bianco. Strana cosa la luce del tardo pomeriggio. Il sole sta cala ma sembra colpire l’occhio con più forza di quanto non ne faccia quando è in alto nel cielo. Piazza Venezia è larga, bianca e piena di turisti. È il posto ideale per stare, come si dice, “soli assieme”. Il posto perfetto per riflettere su di te, su quello che sei e che potresti essere. E nel frattempo guardare gli altri muoversi. Assomiglia a un quadro impressionista. Anzi è un quadro impressionista. La luce dorata del sole, il viavai delle persone e l’ambiente così ampio ma accogliente, come le braccia aperte di una donna molto in carne. Ecco perché lo chiamano “centro”: non tanto per la sua posizione, quanto per la funzione che ha. Da proprio l’idea di essere un luogo accogliente. Un posto dove uno può rimettere insieme i pezzi della propria vita e ricomporla in un unico mosaico. Piazza Venezia, con le sue braccia di pietra bianca, si sta comportando come un grande specchio ustore, concentra tutta la luce nel mezzo della strada. Non so com’è che succede, ma ci sono cose la cui bellezza si percepisce con l’istinto e altre con la riflessione: piazza Venezia fa sicuramente parte della prima categoria. Ora i raggi del sole provengono da destra. L’autobus ha di nuovo girato, siamo su via Nazionale e fra poco, finalmente, saremo arrivati alla Stazione Termini. Chissà se la luce riesce a filtrare in mezzo agli autobus fermi ai capolinea, ai tram, alle centinaia di turisti. Lo spero: voglio vederla ancora. Non mi va di perderla come un biglietto dell’autobus usato. L’uomo alla mia destra non si è ancora svegliato. Mi dispiace per lui, si è perso una cosa bella, una cosa nuova. Come ho letto da qualche parte, la vera novità è ciò che non invecchia nonostante lo scorrere del tempo.