Stavo camminando per una strada larga e piena di buche colme d’acqua piovana. Era spoglia e vuota. Gli alberi non fiorivano, seppur fosse primavera, come se anche loro sentissero sulla corteccia l’orrore della guerra.
Ebbene sì, ero nella mia bella Ucraina, che in poco tempo si è trasformata in un campo di morte e sterminio. Avevo solo dieci anni. Mio padre era al fronte, mia madre mi aveva abbandonato sin dalla nascita. Vivevo con papà e la zia. Un giorno, lei era andata a comprare qualche provvista e racimolare qualche ramo per accendere un fuoco: era tutto quello che potevamo permetterci. Mi disse: «A fra un po’ Yuri, mi raccomando non aprire la porta a meno che non sia io».
Non ho mai aperto quella porta. «Mia zia mi voleva troppo bene per abbandonarmi» mi dicevo sempre, ma il trauma che ho avuto con mia mamma da bambino non mi ha mai fatto escludere la possibilità che lei avesse fatto lo stesso. L’opzione più plausibile era purtroppo quella che a molte famiglie arriva sotto forma di lettera di condoglianze da parte del governo: era stata uccisa dagli invasori.
Avevo solo dieci anni, e stavo vivendo un orrore indescrivibile. A quest’età i bambini giocano, si divertono a scambiarsi figurine, si innamorano… Io invece riesco solo a farmi scendere qualche lacrima lungo le guance, pensando a tutto quello che questa guerra mi stava togliendo.
E a un certo punto, senza preavviso, quel suono… quella sirena assordante, che avvisava i cittadini che stavano arrivando i russi: qualcuno sarebbe morto di lì a breve. Io ero davvero sconsolato, ero quasi arrivato al punto di pensare che non cambiasse nulla vivere o morire. La gente correva a casa, in cerca di riparo. Io invece camminavo lungo la strada, imperterrito di tutto ciò che mi circondava.
Dopo qualche minuto, sentii un suono: non quello di un missile, bensì di un vetro rotto. Era di un furgoncino bianco poco più avanti. In realtà, non avrei mai voluto andare a controllare. Ma era sulla mia strada. Non potevo evitarlo. Così camminai a passo lento e deciso fino al furgone. E vidi una cosa spaventosa. Un ammasso di metallo grigio e nero, che emanava molto calore, all’interno della vettura: era un missile inesploso. I danni si erano limitati alla distruzione dei vetri e alla deformazione del furgone. Sentii un lamento provenire dall’interno: non potevo più far finta di niente.
«Aiutami! Per favore!» diceva frivolamente qualcuno dall’interno. Era un bambino, proprio come me.
Allora aprii la portiera e vidi la mano del bambino tesa verso di me. Non ci pensai due volte, la afferrai. In quel momento non avevo considerato il missile inesploso, senza pensare al rischio in cui mi stavo cacciando. Tirai fuori il bambino, con non so quale fortuna, poi presi anche il suo zaino. Aveva delle ferite alla testa, perdeva sangue. Non sapevo come aiutarlo. Non parlava bene l’ucraino: mi disse solamente grazie.
E mi bastava.
Decidemmo di andare nella farmacia più vicina. Era tutta distrutta: medicinali a terra, alcuni fuori dalle confezioni, altri senza foglietto illustrativo, vetrina distrutta e il bancone tranciato a metà. Sembrava un’ambientazione da film apocalittico.
Eppure era realtà.
Iniziai a cercare non so cosa tra scaffali e pavimento. A un certo punto trovai un disinfettante. Non sapevo cos’altro prendere.
«Hey! Usa questo. Mia madre… mia zia me lo dava sempre quando mi facevo male al parco.»
Lui lo prese e iniziò ad applicarlo sulla ferita. Fortunatamente non era profonda.
«Come ti chiami?» gli chiesi
«Victor» rispose lui.
«Io Yuri. Parli strano, da dove vieni?»
Inizialmente non rispose. Poi i nostri sguardi si incrociarono.
«Vivo qui, a Bucha. Ma…»
«Ma?»
«Sono di Mosca.»
Seguirono dei momenti di silenzio. Poi sorrisi.
«La guerra è una cosa da grandi. Noi possiamo diventare amici. Non mi importa da dove vieni.»
Lui non rispose. Si vedeva che era evidentemente in imbarazzo.
Finì ad applicare il disinfettante. Il sangue aveva smesso di fuoriuscire. Avevo deciso di raccattare gli unici medicinali che conoscevo, in caso di emergenza: l’Augmentin, Nurofen e Oki. Non sapevo neanche come e quando usarli. Ricordo quando zia mi dava il Nurofen, lo odiavo. Forse in quel momento, scelsi di portarlo con me come unico ricordo della mia famiglia. Non so dare altra spiegazione.
«Dove vivi Victor?»
«Da nessuna parte. Il furgoncino di papà era l’unica cosa che mi era rimasta.»
«Non hai più nessuno?»
«No, non ho mai conosciuto nessuno dei miei nonni e mamma è morta subito dopo il parto.»
«Tuo padre invece?»
«Io e papà vivevamo in questo furgoncino, ma un giorno i russi ci hanno fermati. Hanno visto il fucile da caccia che papà portava sempre con sé. Alla domanda “di dove sei” rispose Ucraino. Così lo fecero scendere e lo portarono dietro una casa. Poi sentii due colpi di fucile. I russi se ne andarono e io trovai papà steso a terra in una pozza di sangue. Adesso me la cavo da solo.»
«Abbiamo molto in comune Victor, anch’io non ho più una famiglia. Se vuoi puoi venire a stare da me. Magari…» non mi fece neanche terminare che disse:
«Va bene.»
Proprio in quel momento iniziò a piovere. Una goccia di pioggia mi solcò i lineamenti del viso: era la lacrima che non riusciva a uscire da dentro me.
«Andiamo a prendere da mangiare. Conosco una bottega qui a fianco» dissi io. Così ci incamminammo, accompagnati dal rumore della pioggia e dal silenzio di Victor.
Pochi minuti dopo arrivammo in questa bottega abbondonata: i vetri erano stati fatti a brandelli dalle onde d’urto dei missili, l’interno era rimasto in condizioni abbastanza decenti, molti alimenti erano conservati bene. Prima di entrare Victor mi tirò per il braccio sinistro, e mi fece capire con un cenno della mano di aspettare. Dal suo zaino estrasse una bottiglietta spray nera. Sul muro poco distante dalla porta d’ingresso disegnò una grande zeta, e ci ripassò il colore tre volte. Io non capivo. Lui mi vide confuso, così mi disse:
«Io e papà lo facevamo sempre nei posti dove dovevamo stare per un po’ di tempo. Lo fanno i russi quando conquistano. La zeta è il loro simbolo. Così dovremmo essere abbastanza al sicuro, non dovrebbero entrare i russi.»
Avrei voluto dire idea geniale, o forse no, ma glielo feci capire con un sorriso.
Allora entrammo.
«Svuoto lo zaino e metto tutto ciò che posso. Meno usciamo meglio è. Mi diceva sempre così zia» dissi io. Victor fece lo stesso.
Io presi principalmente cibo che mi piaceva: niente surgelati, niente pollo, e niente verdure. Non li avrei neanche saputi cucinare. Ci dovevamo arrangiare con quello che trovavamo.
Victor invece si concentrò molto sui dolci: riempì lo zaino di pacchi di biscotti e barre di cioccolata. Vicino alla cassa c’era una brocca piena di caramelle. Victor esclamò:
«Yuri!»
Mi voltai verso di lui e mi lanciò una caramella dal vaso. Allora risposi con un pacco di pennette, che si aprì all’impatto e lo ricoprì di pasta. Lui lanciò un pugno di caramelle e andammo avanti così per cinque minuti. Ricordo quando mi riparai dietro uno scaffale, e quando uscii allo scoperto ho rischiato di prendermi un bastoncino di zucchero nell’occhio sinistro. E ricordo anche quando gli tirai una bottiglia di latte scaduto in faccia: era praticamente ricoperto di bianco. Io e Victor stavamo giocando a una guerra dove non ci sono vinti e vincitori, dove nessuno umilia l’altro, dove nessuno rischia di perdere la vita. Non mi divertivo così probabilmente da… dall’inizio della guerra. Da quando ho smesso di vivere la mia infanzia per iniziare a vivere una vita di sussistenza. Nulla era più scontato.
Dopo un po’ ci accordammo per una tregua: eravamo distesi a terra, con le gambe aperte e le braccia che facevano su e giù, come quando disegnavo gli angeli sulla neve con la zia e il papà.
Ma la felicità è solo un momento di distrazione fra un dolore e un altro.
Infatti a un certo punto, un drone ucraino, vedendo la zeta impressa sulla parete della bottega, lanciò un attacco: in meno di un secondo ci fu un’enorme esplosione, e venni ricoperto dalle macerie. Dopo qualche ora, arrivarono i primi soccorsi per accertarsi se ci fossero superstiti. Mi trasportarono con urgenza al pronto soccorso. Nessuno mi disse mai con esattezza cosa successe quel giorno, perché gli ucraini attaccarono senza accertarsi, perché ebbi un’emorragia, perché persi una gamba. Dopo avermi amputato la gamba destra e stabilizzato, organizzarono il mio trasporto in un ospedale da campo al confine con la Polonia. Io di tutto questo non vissi nulla: ero entrato in coma di terzo grado, e i medici non sapevano se mi sarei mai risvegliato. Dicevano che era difficile. Quasi impossibile.
E avevano ragione.
Non mi risvegliai mai più.
