I crini carezzavano le sottili corde, ruvide alla pelle tesa delle dita che eseguivano la loro contorta danza per plasmare lo strumento. L’archetto, sulla cui asticella rotolava da un lato all’altro un puntino di luce, correva veloce sull’ebano scuro della tastiera e sembrava portare con sé, legata all’invisibile filo della melodia, la chioma scura che si agitava con scatti decisi. Non era l’unica sul palco, eppure spiccava in quella lussureggiante moltitudine di chiome che scoordinatamente coordinate, facevano da soggetto alla nera tela davanti alla quale si esibivano.
Tutto ciò si tuffava nelle sue pupille disperdendosi sulla superficie lucida degli occhi, lo sguardo fisso sul palco per imprimere nella sua mente ogni movimento compiuto da quelle mani di cui conosceva le fattezze, gli atteggiamenti e i difetti. Sapeva la storia che nascondevano sotto ogni piega di pelle, dietro ogni neo e piano se n’era innamorata.
Si lasciava cullare dalle dolci note stridule del violino, che la avvolgevano, la graffiavano e poi come soffici petali le sfioravano le guance. Poteva quasi percepirlo il loro tocco, gli occhi chiusi e la mente persa.
Poi tutto si spense. Nulla era più attorno a lei. Qualcosa le stringeva la gola, le corde del violino si avvolgevano attorno a questa, strozzandola. Stringevano taglienti, bloccandole il respiro. Diventavano sempre più spesse e facevano male, troppo male. Sentì la testa girare, il viso arrossarsi. Poi le corde si trasformarono in due mani, le stesse che aveva osservato sotto le luci gialle dell’ampio palco. La presa si faceva sempre più serrata, il viso da rosso passò a un soffocato violaceo, pensò le stessero per esplodere le tempie, finché le dita non aprirono profondi solchi nel suo collo, come se affondassero nel burro e di lei non rimase che un vuoto involucro.
Ma già si trovava a guardare quella scena, da lontano, sotto la luce di un lampione su un deserto marciapiede notturno, mentre quelle enormi mani cercavano una piccola lei in un rivestimento che si sgretolava come la muta di un serpente.
Poi tutto tornava nero e nella sua mano si accendeva la luce di una sigaretta; le spire di fumo che si aggrovigliavano attorno alle sue dita, per spingersi violente verso il suo viso. Da quelle nasceva un corpo danzante che senza peso le usava come palcoscenico, salendo sempre più su, ballando su gradini che al suo passaggio si disperdevano. Si esibiva per due occhi marroni e sorridenti che lo osservavano con amore e possessione. E proprio in quelle due scure carceri cadeva, esausto, fino a dissolversi.
A quella scena una fitta le strinse il cuore, provò a toccarlo, per alleviare il dolore, ma tra le sue mani lo sentiva pulsare, percepiva la gigantesca onda di sangue percorrere le arterie, impetuosa, riempiendole fino quasi a farle scoppiare. Andava sempre più veloce, indomabile negli antri del suo cuore, correva, sobbalzava, sbatteva, percuoteva. Non ce la faceva più, costretto in un corpo tanto piccolo quanto complesso e così usciva, sgorgante a fiotti, macchiando le vesti leggere che svogliate la coprivano. Si accumulava ai piedi della donna, immobile con il petto stretto tra le mani. Un lago macabro dalla placida superficie morta. C’era un’immagine che a stento si scrutava, pareva galleggiare nella viscosità del fluido, salendo su, circondata dagli aloni bruni del sangue.
Non vi fu il tempo di osservarla meglio che il corpo esile dalla pelle chiara sprofondò in quel soffocante abisso, che riempiva i polmoni, incollandoli per prosciugare tutta l’aria al loro interno.
Una luce però si scorgeva, i raggi tagliavano la rete melmosa del sangue, liberavano le membra e la tiravano su, riscaldandole il viso. Le penetravano nella pelle, rinvigorendola, si stendevano sulla chioma morbida, scorrevano sulle labbra rosse, dalle quali una goccia fresca si staccava, macchiando il vestito di cotone, dopo aver mangiato una ciliegia presa dal cesto di vimini. Di fronte a lei l’uomo che possedeva il suo cuore le suonava il violino, gli occhi sempre fissi su di lei come ad assicurarsi che non scappasse. Ma lei non ci pensava nemmeno ad andarsene, sperava solo che quei momenti, così caldi e luminosi, non finissero mai. Si aggrappava a questi mentre con gli occhi seguiva il sole che passava dal riscaldarle le spalle scoperte a illuminarle di luce aranciata il ventre. Le piaceva quel momento della giornata. Si portava una mano sulla pancia e guardava in su, per incrociare gli occhi di suo marito. Restava muta ma lui la capiva la richiesta che voleva fargli e conosceva bene la risposta che le avrebbe dato. Così ogni volta che la riceveva, la reazione della donna era sempre la medesima: «Allora fammi restare ancora un po’, fino a che non sentirò il canto dei grilli» gli diceva. Lui la lasciava lì ogni volta, sull’erba che si raffreddava e quando lei sentiva finalmente il frinire, faceva forza su un braccio per alzarsi dalla tovaglia, incamminandosi a piedi nudi verso il maniero. Faceva tre passi e i piedi si sporcavano di vernice verde, un altro passo e il blu chiaro del cielo si riversava su di lei come pittura, i colori si scioglievano e si rimescolavano, creavano un quadro, poi un altro, cambiavano un colore e aggiustavano la tonalità di un altro.
Lei chiuse gli occhi, lasciandosi avvolgere dal freddo delle tempere. Fu un secondo, poi li riaprì: spalle al muro, una mano, uno schiaffo. E poi… poi un susseguirsi di parole, ma la testa girava, non le ascoltava, non voleva nemmeno sentirle. C’era solo la voglia di distaccarsi, spingere via quel male, allontanarsi da quelle braccia che provavano a tenerla vicina. Ma non ce n’era bisogno, per quanto fossero forti il disgusto, la frustrazione, la rabbia, sciamavano tutte, mentre lei si rifondeva lentamente con quel corpo di uomo, restando inerme, con la mente sgombra e il cuore colmo di lacrime taglienti come lame. Ma una cascata di acqua gelida cancellò le tempere di quel disperato quadro. Ora non era più al suo interno, ma lo guardava sciogliersi con occhi acquosi da una panchina al centro di un lungo corridoio bianco. Altri quadri nella stanza, ma lei guardava solo quello, con sguardo spento, assente, oscurato dalle lenti di un paio di neri occhiali. E aspettava, aspettava per ore, seduta lì, senza qualcuno da aspettare. Restava davanti a quel dipinto finché non vedeva le ginocchia illuminate dai raggi freddi del sole che si tuffava a occidente e lei lo seguiva, consumandosi le gambe.
Così quando del suo corpo non rimase che polvere, una sé più grande la prese, facendosela scappare tra le dita come sabbia. Ma la sua pelle lattea prese a coprirsi di macchie viola e doloranti. Prima sul palmo della mano, poi su un ginocchio, ma nemmeno aveva il tempo di guardarle che una nuova compariva sul braccio e sul volto, un occhio gonfio, la vista appannata. Quando della pelle quasi non si vide più nulla, le macchie cominciarono a bruciare consumandole le carni ad ampi solchi. I bordi si ripiegavano divorati dal fuoco, in un movimento lento e morboso, torcendosi e ritirandosi su se stessi, come cercassero di aggrapparsi alla vita, evitando quella finché non sentì il silenzio.
Anche nella sua camera d’ospedale silenzio, ma non lo stesso silenzio, questo era rotto da un’incessante linea verde, piatta come il mare prima della tempesta, insistente e perpetua, dal suono acuto che riempiva le orecchie e pietrificava il cuore.