Una ragazza sta leggendo un libro seduta accanto alla finestra. La storia la prende tanto che non riesce a staccare gli occhi dalle pagine. Mentre segue con attenzione la vicenda che assorbe tutta la sua attenzione, sente un improvviso rumore che sale dalla strada. Sarà stato un incidente, si dice. E riprende a leggere. Ma subito dopo ecco un altro colpo. Il vetro della finestra trema. Perfino il libro trema fra le sue mani, ma lei non vuole a nessun costo staccarsi dalla pagina. Che importa di quello che succede in strada!, si dice. Al terzo colpo però è la casa intera che si scuote e traballa. E lei non può fare a meno di alzarsi e avvicinare la faccia al vetro. Quello che vede le fa cadere il libro dalle mani…
Comincia a scendere le scale che danno sul portone, quando vede Jamila in lacrime ripetere “Ahmad, Ahmad” tenendo in braccio il corpo del suo bambino straziato dall’ennesimo colpo di mortaio che ha messo in ginocchio la città di Rafah. Piangeva Yasmeen, piangeva abbracciando forte la sua mamma che le aveva sempre trasmesso sicurezza, ma che ora, lacerata dal dolore, non riusciva ad allontanarsi da quel corpo disteso su una strada completamente deserta.
Papà Khaled era ancora bloccato alla dogana dell’aeroporto Yasser Arafat, impegnato a difendersi dalle insinuazioni di due soldati che non avevano alcuna intenzione di lasciarlo passare, se non dopo essersi accertati che anche il libro di botanica, acquistato da Khaled per la sua adorata figlia in una libreria di Eilat, non rappresentasse un reale pericolo per i concittadini palestinesi.
Yasmeen aspettava il suo papà ormai da giorni, e non riusciva a spiegarsi il motivo del suo ritardo. Era inammissibile che non fosse lì ad aiutarla in una situazione così grave; come aveva potuto lasciare sole lei e sua madre per discutere con altri uomini sul perché fosse giusto continuare ad uccidere e a devastare delle famiglie israeliane?
Khaled non sapeva rispondere a questa domanda, e ogni volta, accarezzandola, le rispondeva: «Yasmeen, non è colpa mia, chiedilo al signor Sharon, è lui che ci ha ridotto in questa situazione!». Poi cominciava un discorso infinito sulle azioni politiche da mettere in pratica per liberarsi da questo “male incurabile”, come lo definiva lui.
Khaled e Jamila vivevano insieme praticamente da sempre. Da ragazzi, a Gaza, avevano frequentato la stessa scuola e dopo la nomina di Ariel Sharon a primo ministro, Khaled era riuscito a convincere la futura moglie a lasciare una città diventata oramai “troppo pericolosa per degli onesti cittadini palestinesi”. Jamila lo assecondava sempre, capiva che le sue parole sarebbero state del tutto vane, se non stupide, per un uomo così fiducioso nei suoi ideali, da voler combattere a tutti i costi una guerra iniziata da suo nonno e che forse, come sapeva, neanche suo figlio sarebbe riuscito a finire.
Gli anni passavano rapidamente e, senza nemmeno accorgersene, era nato un fagotto di tre chili che scalciava ed urlava in continuazione, torturando l’esausta Jamila con continue richieste di latte e, ancor più, d’amore.
Yasmeen era la figlia preferita di Khaled, la adorava e raramente mancava di soddisfare ogni suo più piccolo capriccio. Così, quando due anni più tardi venne al mondo anche il piccolo Ahmad all’ospedale Al Awda, l’astuta bambina, temendo di perdere l’affetto del suo papà, ostacolava qualsiasi azione del piccolo, rendendo ancor più gravosa la vita della povera Jamila. Di colpo, però, in un afoso giorno di maggio, tutto l’odio di Yasmeen per il fratellino svanì.
Come ogni sabato, mamma Jamila aveva portato al mercato di Rafah, vicino al quartiere di Ybna, i suoi due bambini, alla ricerca delle spezie necessarie per impreziosire le sue meravigliose manakish. Yasmeen dava sempre un preziosissimo aiuto alla mamma, grazie alle sue conoscenze in campo botanico, così approfondite da sbalordire anche Yerwant, il farmacista della città che, ogni volta che la sentiva parlare, si complimentava con Jamila raccomandandole degli esperti in campo medico che l’avrebbero introdotta nel mondo farmaceutico aiutandola a diventare “la più grande farmacista di tutta la Palestina”.
Ahmad, come al solito, era sparito tra la folla del mercato, sfrecciando come un missile sotto il cielo cupo di Rafah. Quel giorno, però, di ritorno dalla sua spedizione, si era presentato davanti a Jamila e Yasmeen, verde di rabbia, tenendo ben saldo tra le sue mani un piccolo fiore. I petali, di un colore simile a quello della lavanda, sembravano accarezzare le esili dita di Ahmad. Yasmeen non aveva mai visto quel fiore, e nonostante avesse analizzato tutti i suoi libri di botanica – non molto approfonditi, in realtà – non riusciva né a trovare un’immagine che corrispondesse esattamente a quel magnifico esemplare né una definizione scientifica che quantomeno potesse darle un’idea generica.
I due fratelli frequentavano la stessa scuola e, fatta eccezione per matematica, avevano gli stessi insegnanti per ogni materia. Così, perlomeno, Jamila avrebbe impiegato la metà del tempo per farsi ripetere ancora una volta cosa i professori pensassero dei suoi figli. Più o meno il resoconto era identico all’anno precedente: «Jamila è una ragazza fantastica studiosa, educata ed intelligentissima, forse solo un po’ indifferente verso ciò che accade nel nostro paese”, mentre Ahmad non era così popolare tra le sue insegnanti. “Invece di Ahmad, mi scusi, ma non posso dirle altrettanto, anzi non mi spiego proprio perché non abbia ripreso da Yasmeen, un vero peccato».
Jamila, come sempre, alternava dei cenni con la testa a delle espressioni rassegnate. La vita, con suo marito sempre fuori città, diventava sempre più faticosa.
Poco prima che suonasse la campanella Yasmeen aveva preso in prestito dalla piccola biblioteca della scuola un libro di botanica e, avviandosi con il fratello a casa, sfogliava le pagine per trovare il nome di quel fiore a lei ignoto che, oramai da mesi, cercava quasi ossessivamente. In realtà avrebbe potuto facilmente sciogliere il proprio dilemma chiedendo a Yerwant o alla sua insegnante di biologia, ma non poteva farlo. Si era ripromessa di aspettare, aspettare l’arrivo del suo papà che, con il libro acquistato alla fornitissima libreria di Eliat, le avrebbe rivelato l’arcano confermandole ancora una volta di essere il miglior papà che una figlia potesse desiderare.
Quel giorno attendeva il suo papà leggendo inutilmente il libro di botanica, ben consapevole di non trovare quel fiore, impaziente di rivederlo.
Khaled sarebbe dovuto arrivare alle dieci, di ritorno dalla protesta per l’incarcerazione di Ahmad Sa’dat. Avrebbe sicuramente baciato sulla fronte Yasmeen, avrebbe anche abbracciato il suo Ahmad dopo aver salutato, con un cenno affettuoso, l’adorata Jamila. Di sicuro avrebbe nascosto il suo regalo per Yasmeen, aspettando la reazione isterica della sua piccola e ridendo compiaciuto dell’espressione che avrebbe fatto alla vista del pacchetto.
Ma il suo inammissibile ritardo aveva totalmente stravolto il corso degli eventi.
Khaled era riuscito a liberarsi di quei soldati solo dopo aver ottenuto un visto speciale attraverso il suo partito, dopo ben quattro giorni di detenzione. Arrivato finalmente a Rafah, capì subito che qualcosa era radicalmente cambiato. Il mercato era praticamente deserto, le strade vuote come mai prima d’ora, i negozi chiusi, nonostante fosse venerdì. Perfino il cielo sembrava rimproverare il ritardo di Khaled, con nuvole cariche di pioggia che lo avevano accompagnato fino a casa, per poi lasciar cadere con tutta la loro forza quelle minuscole molecole d’acqua.
Aprì la porta di casa, si inginocchiò ai piedi di Jamila, lasciò libere le sue emozioni.
Yasmeen, pochi mesi dopo lasciò gli studi. Non provava più interesse per la scuola, non aveva intenzione di sprecare il proprio tempo per cose così futili. Jamila era stata convocata dagli insegnanti, che le avevano proposto di affiancare a Yasmeen uno psicologo, a spese della scuola ovviamente. Jamila rifiutò educatamente rispondendo: «Non so, penso che ormai Yasmeen abbia preso la sua decisione, è inutile tentare».
Yasmeen Edwan aveva solo diciotto anni quando fu rapita a Gaza. Aveva deciso di fondare un movimento pacifista per evitare che dei civili morissero a causa di operazioni militari. Aveva perfino inviato una lettera ad Ariel Sharon in cui, spiegando le sue ragioni, chiedeva rispetto per i cittadini, condannando qualsiasi tipo di violenza da parte dei militari israeliani nei loro confronti, specialmente verso i più deboli.
Nel giugno del 2002 venne condannata all’ergastolo “per aver contribuito direttamente alla fondazione del movimento Iris, che negli anni, attraverso azioni sovversive, ha attentato in più occasioni alla sicurezza dello Stato”. Morì in una prigione israeliana dopo ben dieci anni di carcere. Sulla sua tomba, accanto ad una foto di Ahmad, un fiore di Iris risplende nel piccolo cimitero di Rafah.