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Infinito fuor di sesto

Linea tramviaria numero otto: Piazza Venezia-Casaletto. Se siete mai capitati a Roma l’avete incrociata sicuramente. Fa la spola fra le vetrine del centro e i graffiti di Gianicolense/Bravetta, passando per tutto quello che c’è in mezzo. La fauna abituale del tram è composta da studenti di liceo, impiegati di uffici pubblici, venditori ambulanti pakistani, gente ammodo e sciroccati. Vedetelo come, per così dire, uno spaccato della umanità che vive nei quartieri in cui sono cresciuto anche io. Se passate nei paraggi, comunque fateci un giro: per quanto possa risultare poco affascinante un mezzo pubblico, questo a modo suo vi piacerà. E se siete molto, molto fortunati, forse vi capiterà di trovarlo in uno dei suoi brevi istanti di magia. La magia dell’Otto si palesa quando meno te lo aspetti, quando non ti aspetti niente. Nei fine pomeriggio fumosi di ottobre, alle sette di mattina del giorno di ferragosto. Ma in particolare, a notte tarda nei sabati d’inverno, quando è rimasto l’unico mezzo ancora in circolazione e nel freddo delle ultime corse carica una popolazione ben diversa: giovani turisti che alloggiano in periferia, studenti dalle coscienze variamente alterate, alcolisti, sociopatici e altri reietti. In qualcuna di queste notti gelate senti l’aria che diventa elettrica ancora prima di vedere le luci arancio attraverso il tuo fiato condensato, e poi eccolo là, l’Otto, come una sorta di vecchio treno a vapore che arranca attraverso la nebbia, cigolante e sbatacchiante in curva. E allora sali e cambia tutto, perché, per una volta, lo spettacolo vero è oltre i finestrini. Dentro, i passeggeri sono oggettivamente poco interessanti, gente che conosci, gente prevedibile, gente del tuo branco; loro sono come te e tu sei come loro, stanchi, spiegazzati e probabilmente con in corpo dell’alcol che fa sentire tutti ancora più stanchi e più spiegazzati. Ma fuori, fuori non ci sono solo i monumenti e i palazzi storici, non c’è solo la città che dorme. In notti come queste, quando il vino e la stanchezza sembrano volersi prendere la tua anima, il tram devia dal suo percorso abituale per portarti in luoghi sconosciuti. Ho visto fauni aspettare pazienti sotto le paline gialle dell’Atac mentre i satiri recitavano ad alta voce poesie di Burroughs e mangiavano pizza fredda dai cartoni. Ho visto gruppi di musicisti erranti fermarsi a suonare sopra i binari solo per le nuvole e il freddo, e non avrebbero potuto volere un pubblico migliore. Ho visto le fate che danzavano alle serenate dolci dei senzatetto, e la notte era un grande lupo con il cosmo ricamato sulla pelliccia e il tempo un vecchio con l’armonica; ho visto guardie e ladri smettere di rincorrersi per riprendere fiato insieme, ho visto le luci della città sopra di me e sotto il cielo. Tanto per cambiare è un sabato notte. Uno di quelli in cui la giornata è iniziata alle sei e mezza, uno in cui tutto ciò che avresti voluto fare era buttarti sul divano a non fare nulla di produttivo e mai, mai saresti voluto uscire, ma poi ti ha chiamato quell’amico e ti sei trascinato fuori; ecco è una notte come una quelle, in cui è passata l’una e io me ne sto apaticamente appoggiato alla ringhiera davanti al Ministero della Pubblica Istruzione, domandandomi se il debito di sonno si possa pareggiare come quello pubblico oppure quel che è perso è perso e probabilmente questa cosa mi ucciderà. Accanto a me ad aspettare alla fermata due ragazze bionde, entrambe con una coscienza piuttosto relativa della realtà, ridacchiano e ondeggiano. Pfui, mi dico. Non molto articolato, ma in condizioni del genere non mi si può chiedere troppo, né in fatto di empatia né di articolazione del mio disprezzo. Il tram arriva troppo tardi, lento, ronzante. L’interno è illuminato da neon giallognoli, io precipito su una poltroncina e appoggio la testa al vetro. Due fischi e partiamo. I palazzi di mattoni di Trastevere mi sfilano attorno, le luci di coda delle macchine sono fiammelle lontane. Perdo un attimo l’attenzione, mi distraggo, forse mi addormento un secondo solo, e quando guardo di nuovo fuori dal vetro siamo in una foresta scura, fitta, primitiva e dal cielo mi scruta una luna grossa come un’arancia. Fuori, branchi di lupi grigi e lepri albine grandi come cani accompagnano la nostra corsa. Il tram rallenta, doppio fischio, si aprono le porte. Il rudimentale schermetto di lucine gialle segna Nemus-Bosco Sacro. Bosco Sacro. Fa un sacco Roma Nord come nome. Sale una ragazza, o meglio, qualcosa che può assimilarsi a una ragazza ma che palesemente trascende l’umano, la pelle candida, immacolata, i capelli chiarissimi. Indossa un giubbotto di pelle e un vestitino di luce lunare, ha occhi antichi come il tempo e un sorriso che sa troppe cose. Entra e infrange ogni regola di etichetta del trasporto pubblico: si avvicina, mi fa un cenno e si siede accanto a me, ignorando le decine di posti liberi attorno. Sui mezzi non si interagisce con gli sconosciuti, non si invade lo spazio vitale altrui e non si ricerca contatto umano. È il decalogo del perfetto atacnauta che non ammette alcuna deroga. E così mi ritrovo all’una e venti del mattino con una ninfa al mio fianco, e anche se vorrei solo andare in coma, ormai io sono con lei e lei è con me, e stiamo sfrecciando di nuovo a settemila chilometri orari su viale Trastevere. Intravedo la serranda dell’Antico Caffè, che fra una manciata di ore verrà alzata da Emiliano – l’ecuadoriano che fa il turno di mattina – due writers che dipingono una fanciulla con gli occhi tristi e i capelli di lillà, un ragazzo che, mazzo di fiori in mano, corre fino quasi a farsi scoppiare il cuore. Mi volto verso la mia compagna di viaggio e lei già mi sta guardando negli occhi. Sorride e resta in silenzio, ma del resto non riusciremmo mai a dirci tutto quello che dovremmo col poco tempo che abbiamo. Continuiamo a stare zitti, e non so bene perché abbia scelto me. Ma sono felice che l’abbia fatto. Io e lei, lei e io ce ne stiamo seduti su questi scomodi sedilini di plastica verde e attraversiamo Roma, Roma di marmo e Roma di cemento, mamma Roma e Roma puttana, Roma capoccia, caotica, incasinata anche nel silenzio, Roma che fa la stupida tutte le sere e questa ancora di più, Roma che non si vede neanche una stella, però quanto è infinito questo cielo nero. Il tram gira, e mi ritrovo in mezzo fra le coppiette che si imboscano nel parcheggio semivuoto della grande Stazione e il fast food nell’angolo, a quest’ora frequentato solo da un paio di nottambuli di professione; quindici metri più avanti, il guardiano notturno del teatro Verde – vecchia conoscenza, ma questa è un’altra storia – ammicca verso di me e mi saluta con la mano. Dietro di lui i cancelli sono aperti: del resto anche per i sogni il sabato è di libera uscita. La mia ninfa scende a Ponte Bianco. Non dice nulla, mi sfiora appena la mano con la sua, se ne vanno via lei e la sua luce. Posso dire di averla amata, per un istante o due, per tutto il tempo del mondo. Alla fine non importa se non le ho chiesto il suo nome. Melissa, Eco, Elena o Dafne, vedrò un po’ di lei nella ragazza di cui vorrò innamorarmi domani. Torno a guardare il mondo fuori dal vetro. Nel riflesso confuso dell’interno del tram, lei è ancora lì, seduta accanto a me, con i suoi occhi antichi come il tempo e il suo sorriso che sa troppe cose. Domani mattina è lontano mille anni, lontano come la Genesi, e se mai mi risveglierò, sarà andata via anche quest’ultima immagine di lei. Arrivo a San Giovanni di Dio, la mia fermata. Mi alzo con tempi dilatati, mi trascino fuori, alla mercé del freddo. Dietro di me il tram si allontana sferragliando, e il numero otto luminoso sul tabellone posteriore si è accasciato sul fianco, a metà fra una cifra e un simbolo matematico dell’infinito andato fuor di sesto. Il vento mi porta l’odore dei petali fradici del fioraio dall’altra parte della piazza che resta aperto tutta la notte, vende mazzi di rose agli innamorati e buste di funghetti ai cuori infranti. Mi avvio. L’asfalto è grinzoso sotto gli anfibi, la vernice sui casotti del mercato scrostata, i lampioni fiochi e sfarfallanti. L’aria sa di smog e di pioggia, di cenere e di buono. E non importa se domani questo sarà altrove, ora sono a casa.

Pubblicato: 1 Giugno 2021
Fascia: 19+
Commenti
Mi è piaciuto leggere questo racconto ben costruito visivamente, poiché ho visto e sentito ciò che ha descritto l'autore. Seppure una storia di vita quotidiana, non appare per nulla scontata.
13 maggio 2023 • 09:29