Quella mattina mi svegliai di soprassalto; mi sentivo diversa, come se qualcuno fosse venuto mentre dormivo a strapparmi una parte della mia memoria. Ero ancora molto assonnata quando andai a vestirmi, e non ricordavo cosa avevo fatto la sera precedente.
Il mio telefono vibrò: era Martina, la quale mi aveva scritto un messaggio che mi fece cadere il cellulare di mano appena lo lessi. «Riccardo è scomparso», solo tre parole che mi erano arrivate dritte al cuore e lo avevano mandato in frantumi, come i bicchieri di cristallo quando scivolano distrattamente dalla tua presa e tutto quello che vedi dopo lo schianto sono un’infinità di briciole minuscole che brillano alla luce del sole rifrangendola nei colori dell’arcobaleno.
Allegato al messaggio c’era la foto di una pagina di giornale, il cui titolo recitava a caratteri cubitali: «RAGAZZO DISPERSO, LA FAMIGLIA IN LACRIME». Improvvisamente mi tornò alla memoria quello che avevo fatto la sera precedente. Come potevo essermene dimenticata? Ero uscita con il mio migliore amico e la sua ragazza, avevamo mangiato sushi, esattamente come voleva lui, poi eravamo andati a fare una passeggiata e…
E non ricordavo altro. Strano, di solito mantenevo a mente ogni minimo particolare, per esempio il vestito verde acqua di Martina, che era contentissima di quella serata, o il sorriso raggiante di Riccardo. Non potevo avere scordato come avevamo fatto a tornare a casa, dai!
Passai l’intera giornata a rimuginare su quella mancanza, quel piccolo tassello che giaceva impolverato nel mio subconscio e che sembrava fosse stato sottratto da un abile ladruncolo. Dopo qualche ora di vani tentativi, mi chiamò la madre del ragazzo, che mi chiese tutta triste come eravamo tornati a casa noi due. Quel ricordo riemerse lentamente, finché riuscii a rispondere alla donna: Martina si era fatta venire a prendere dai genitori, mentre io ero rimasta a parlare con lui. Poi avevamo deciso di tornare a casa a piedi, siccome abitavamo entrambi lì vicino, e mi ricordavo perfettamente di aver varcato la soglia di casa mia dopo quella lunga camminata.
C’era un’unica imprecisione: la madre sosteneva fermamente che Riccardo non fosse mai tornato a casa sua la notte passata, e poteva affermarlo con certezza perché era rimasta sveglia fino alle quattro di mattina a guardare una maratona di film.
Mi si gelò il sangue nelle vene, reazione alquanto particolare, poiché ero consapevole di non dover temere nulla per la mia incolumità, però c’era quella parte, ciò che era successo prima che io potessi tornare a casa e mettermi a dormire, che mi sembrava di aver lavato via volontariamente dai miei pensieri. La mamma di Riccardo mi ringraziò rassegnata e interruppe la conversazione.
Decisi di chiamare Martina, forse sapeva qualcosa in più di me, del resto era fidanzata con lui da più di un anno. Anche lei, nonostante le mie insistenti e invadenti richieste e domande, non seppe dirmi nulla di più rispetto a quello che ricordavo già di aver vissuto.
Arrivò in fretta la sera, ma, attanagliata dal dolore per la possibile perdita di una delle persone più care che avevo conosciuto nella mia vita, non mangiai nulla e mi stesi a letto. Sentivo qualcosa in corrispondenza della spina dorsale, qualcosa di tagliente e fastidioso. Mi girai e rigirai nel letto, provando a prendere sonno, finché capii che quello che sentivo non era dettato da un sentimento o dal dolore psichico per l’accaduto, ma da un oggetto che era stato nascosto, per chissà quale ragione, sotto il materasso.
Disfeci completamente il letto, trovando così la causa di tutto quel fastidio: una scatola di sonniferi? Ignoravo la ragione per cui avrei dovuto prendere dei sonniferi la notte precedente. Osservai la boccetta, passandomela da una mano all’altra, fino a quando vidi che sul tappo avevo scritto qualcosa. Accesi la luce della lampada sul comodino: eh già, la grafia era proprio la mia, però non mi capacitavo del motivo per cui avrei potuto scrivere una cosa così enigmatica. Sul tappo avevo scritto, in penna nera e a caratteri cubitali, due parole: «Vendetta R.».
Buttai la scatola, che era completamente vuota, e mi misi a dormire, stavolta per davvero. Tuttavia ebbi un sonno tormentato, continuavo a sognare quei sonniferi, e Riccardo che veniva… accoltellato?!
Il giorno seguente non ricevetti messaggi, chiamate o informazioni di qualsiasi tipo da nessuno, sembrava che ogni essere sulla Terra fosse in lutto per la sorte del mio migliore amico. Per fargli onore iniziai a ricordare tutti i momenti che avevamo passato insieme, partendo dal primo in assoluto: eravamo in classe insieme in prima superiore, anche se lui, da eterno indeciso, il secondo quadrimestre aveva chiesto il trasferimento e se n’era andato senza salutare neanche la sua «migliore amica».
Mi ricordavo ancora quanto mi ero arrabbiata per quel comportamento infantile, quella scelta che lui mi aveva taciuto per non so quale ragione, e avevo giurato ai miei compagni di classe di allora che gliel’avrei fatta pagare il prima possibile. Un brivido mi percorse la schiena: come potevo essere stata così drammatica e spietata per un trasferimento?
L’ora di pranzo si avvicinava e il mio stomaco sentiva la stanchezza e il digiuno del giorno precedente. Presi dal frigorifero delle alette di pollo che misi a scaldare nel microonde, ma apparecchiando mi accorsi che uno dei coltelli di ceramica non c’era più. Dov’era finito? C’erano fin troppe stranezze, e stavano accadendo tutte esattamente dopo la sua scomparsa. Stavo perdendo colpi a causa della sua assenza o stavo nascondendo qualcosa a me stessa? Ero triste o felice? Non riuscivo davvero a capirlo.
Dopo aver mangiato voracemente mi misi a cercare quel coltello. Mi restava da controllare solo il solaio, anche se non ricordavo quand’era stata l’ultima volta che ci avevo messo piede. Salii le scale e mi diressi esattamente lì. Accesi la lampadina che penzolava dal soffitto, che ai lati si abbassava creando degli spazi angusti dove si raccoglieva tutta la polvere.
In mezzo alla stanza c’era uno scatolone che non avevo mai visto, con sopra quello che stavo cercando: ecco il coltello finalmente! Mi avvicinai raggiante per prenderlo e portarlo in cucina, ma mi fermai agghiacciata quando vidi che sulla lama brillavano delle gocce di sangue rappreso. Mi sentii svenire, mi vennero le vertigini. Mi accucciai per terra, raccolsi le mie forze, mi alzai lentamente e aprii lo scatolone.
Quello che vidi mi fece ricordare in modo repentino e violento, esattamente come uno schiaffo inaspettato in pieno viso, quello che era successo durante l’uscita con Martina e il fidanzato.
Il corpo di Riccardo, rannicchiato alla bell’e meglio, giaceva esanime nella scatola. All’altezza del cuore una macchia di sangue, rappreso esattamente come quello sul coltello, intaccava l’eleganza della giacca bianca che si era messo apposta per l’occasione. Esattamente, lo avevo ucciso, forse spinta dal risentimento nei suoi confronti per quel saluto che non avevo mai ricevuto e quelle scuse che mi ero aspettata, ma che nessuno mi aveva fatto.
Mi ero trasformata nel fantasma delle mie emozioni, avevo represso la rabbia in fondo alla mia anima, e l’avevo sfoderata al momento opportuno, quando noi due ci eravamo trovati soli senza Martina. Gli avevo offerto da bere, versando nel bicchiere i sonniferi, e poi lo avevo invitato a fare una passeggiata per tornare a casa.
Il battito del cuore mi rimbombava ritmico e incessante nelle orecchie, non potevo ancora credere di aver fatto tutto ciò, di aver rovinato la mia vita per un semplice battibecco. Scesi di corsa le scale e cercai freneticamente le chiavi della finestrella del solaio. Tornai di sopra, aprii la finestrella e mi misi ad ammirare il panorama circostante.
I pensieri si mescolavano confusi nella mia mente, sovrapponendosi divertiti per creare ancora più dolore nel mio cuore. Adesso mi era rimasta una sola cosa da fare per finire il mio lavoro: perdermi nella vastità del paesaggio e diventare parte di esso, ignorando tutto il resto.
