Tutte quelle persone che anche per caso, mentre passeggiavano un po’ distrattamente per la città, si sono trovate di fronte a me e ai miei spettacoli, rappresentano la base della mia essenza. La loro bellezza è racchiusa in un solo sguardo. In quei singoli istanti in cui, tra un movimento e l’altro, riesco a incrociare i loro occhi, provo a immaginarmi la storia alle loro spalle. È cosi che porto avanti lo spettacolo, inteso sia come esibizione, che come lo stesso spettacolo che è poi la vita, quell’insieme di esperienze che ci portano a «essere». Prima di iniziare a fare quello che oggi chiamano «il saltimbanco», venni ispirato dalla frase di un uomo che passeggiava per strada. Stava parlando con la sua figlioletta e le stava spiegando l’importanza della gente che lavora in piazza per intrattenere gli altri. Disse: «Queste persone fanno salti mortali per tramettere la loro intimità più profonda agli spettatori e arrivare nel loro cuoricino». Da quel giorno decisi che mi avrebbe fatto piacere essere una di queste persone, che fanno del bene a se stessi e agli altri. Iniziai quindi a esibirmi ottenendo svariati insuccessi. Poi capii che dovevo essere più originale, dovevo immedesimarmi nella gente che mi osservava: dal bambino che scappa all’ora di pranzo perché magari non vuole far sapere alla mamma che è uscito, all’uomo di affari che non si accorge di quello che ha intorno e il cui unico pensiero è quello di stare ore davanti al computer. Quello che colpisce gli spettatori è l’imprevedibilità delle mie rappresentazioni. Ogni angolo della città è fonte di ispirazione. Ma non sono qui per spiegarvi le mie tecniche «lavorative» che probabilmente neanche vi interessano, né ho intenzione di raccontarvi le storie di tutta la gente che ho incontrato (anche perché per quanto mi possano affascinare tutte, nessuna esclusa, sarebbe difficile ricordare la vita di ognuno). Allora vi chiederete di cosa voglio parlarvi. Tra le sorprese che la vita ci riserva, ci sono alcune esperienze, alcuni incontri, già stabiliti, già scritti, che servono a farti maturare e io penso che, conoscere questo ragazzino, Marco, sia stato uno di questi «doni» di cui parlo ed è questo che spero possa interessarvi. La prima volta che lo vidi stavo prendendo un po’ d’acqua alla bancarella del parchetto perché c’era un sole che batteva abbastanza forte, per essere ai primi di giugno, e io ero affannato dopo una giornata passata per le vie di Roma. Stavo canticchiando una di quelle canzoni estive che ti entrano nella testa, di cui magari non ti ricordi neanche il titolo, ma sai il ritornello a memoria. Era da giorni che la sentivo in radio, era carina. Insomma stavo cantando e sorseggiando un po’ d’acqua quando vidi questo ragazzino steso sull’erba che intonava la mia stessa canzone. Era solo e aveva un libro con sé. Era un manuale di insetti su cui per sbaglio stavo inciampando. Volevo provare a interagire commentando la canzoncina, ma il fatto che gli avessi quasi calpestato il volume evidentemente lo aveva fatto innervosire. «Scusami» gli avevo ripetuto più volte, ma senza neanche guardarmi negli occhi fece cenno di andarmene. Mi aveva incuriosito. Certo non capita tutti i giorni di vedere un ragazzino solo al parco che legge un libro sugli insetti. Diciamo che è raro. Nonostante fossi ormai allenato a inquadrare le personalità della gente, con lui ebbi difficoltà. Sarà che non mi aveva guardato negli occhi, sarà che era stato molto scontroso, ma non riuscivo a farmene un ritratto. Dopo una mezz’ora di riflessione su di lui però, decisi che era arrivato il momento di rimettermi in scena e non pensarci più. Anche perché Roma è grande e probabilmente non lo avrei incontrato un’altra volta. Giorni dopo, stavo concludendo l’ultima esibizione della giornata. Non era stata molto interessante. C’era poca gente in giro, molti erano partiti per le vacanze, altri se ne stavano in casa con il ventilatore puntato sul viso. Insomma per un motivo o per un altro si avvicinavano i giorni in cui la città si andava sempre di più spopolando. Mentre mettevo in ordine le mie cose, scorsi il «ragazzino degli insetti» dietro un cespuglio. Mi osservava, ma non osava fare un passo in avanti. Aspettai una buona oretta lì, facendo finta di non averlo notato, fin quando non si decise a parlarmi. Sempre con gli occhi rivolti verso il basso venne a chiedermi scusa per avermi risposto male la settimana prima. Con aria un po’ impacciata mi disse che non era sua intenzione risultare antipatico, ma dopo aver balbettato queste due parole, neanche il tempo di ricevere risposta, se ne era scappato di nuovo dietro il cespuglio. Ovviamente non lo seguii, non volevo apparire inappropriato, ma la mia curiosità era aumentata. I giorni a seguire si presentò a tutti i miei spettacoli sempre allo stesso orario. Mi resi conto che ogni pomeriggio intorno alle 17.30 era lì, pronto a osservarmi. Non si faceva accompagnare da amici, ma solo dalla sua enciclopedia. Per svariate settimane non riuscii mai a coglierlo in momenti in cui accennava un sorriso o un gesto di approvazione riguardo alle esibizioni. La seconda volta che venne a parlarmi fu agli inizi di luglio. Si presentò e mi fece una richiesta alquanto ambigua. «Ciao sono Marco, ti volevo chiedere se potessi fare uno spettacolo sugli insetti. Questi sono i miei preferiti» e mi fece vedere delle immagini dell’enciclopedia. Ero contento che mi avesse rivolto la parola ma non avevo la più pallida idea di come impostare l’esibizione. Mi mise a dura prova. Sapevo improvvisare, ma in quel caso non riuscii ad accontentarlo. Gli chiesi allora di spiegarmi meglio le «abitudini» di questi insetti, le loro caratteristiche. Sembrava un discorso abbastanza surreale, ma che mi insegnò molto. Con il tempo imparai cose che non avrei mai pensato di conoscere su ogni tipo di insetto. Ad esempio che solo i maschi delle cicale cantano e riescono ad amplificare tantissimo il loro suono. Una specie australiana, arriva fino a 100 decibel, la stessa potenza di un concerto di musica rock. Incredibile. Marco si divertiva e anche il resto degli spettatori sembrava apprezzare la novità, anche se alcuni non capivano neanche che stessi facendo, lo intendevo dalle loro espressioni interdette. Presto diventò Marco il protagonista indiscusso, dirigeva lui lo show e aveva anche molto seguito. Inoltre, anche se lo faceva raramente, aveva imparato a sorridere e, a volte, anche a guardarmi negli occhi; ma riusciva solo con me, degli altri era come se avesse avuto timore. Era diventato lui il vero saltimbanco. Saltimbanco non nel significato letterale di giocoliere. Lui era saltimbanco nel senso che ci viene spiegato nelle poesie: riusciva ad arrivare al cuore degli spettatori, o perlomeno ci era riuscito con me. Quello che io provavo a fare da anni, lui lo aveva fatto nel giro di due mesi. Con il suo balbettare, che pian piano iniziò anche a migliorare, con la sua ossessione per gli insetti, con la sua attitudine a non guardare negli occhi, Marco aveva lasciato un segno. Verso fine agosto, quando l’aria di «ritorno alla razionalità», rappresentata dall’arrivo di settembre, pervadeva l’animo della popolazione, Marco non si fece più vedere. Ogni giorno aspettavo le 17.30 ansioso di accoglierlo con il nostro classico saluto che dopo tempo ero riuscito finalmente a memorizzare. Dopo tre giorni venni a scoprire che Marco non c’era più. Mi sentii in dovere di andare a fare delle visite ai genitori. Mi informai riguardo alla famiglia e andai a trovarli. La mamma non si aspettava di ricevere la mia visita, ma quando realizzò che io ero il «sambanco», come mi chiamava Marco, mi ringraziò. E così scoprii tutta la storia dietro quel ragazzino tanto misterioso. Soffriva di una malattia che, anche per motivi di privacy, non sto qui a spiegarvi. Capii perché aveva un orario fisso, le 17.30: era il momento in cui i dottori se ne andavano da camera sua e lui aveva la possibilità di prendere due ore d’aria. Aveva sedici anni e la sua più grande passione erano gli insetti. Ogni giorno doveva prendere molte medicine ed è per questo che io non avevo notato il peggioramento degli ultimi tempi del suo stato fisico, ma quando tornava a casa gli toccava vivere la sua vita monotona aggrappandosi alla speranza dei farmaci. Sconvolto dopo la visita, mi resi conto che questo ragazzino in tre mesi mi aveva dato tanto. Qualcosa che va oltre. Qualcosa che solo se si prova si può comprendere. Sembra una frase fatta, ma posso assicurare che non è altro che la verità. Marco mi ha insegnato che passo per passo si possono raggiungere i propri obiettivi. Che anche con un piccolissimo sorriso si può trasmettere qualcosa. Che anche due ore di svago bastano per sentirsi di nuovo vivi. Che ognuno ha una storia alle spalle che non sempre è chiara agli occhi degli altri ed è quindi bene essere sempre cauti e attenti alle parole. Ma soprattutto, da questa situazione posso dire che ho capito che non c’è tempo per piangersi addosso per cose inutili. Bisogna avere la capacità di adattarsi al mondo e ai cambiamenti che esso subisce ogni giorno perché da un momento all’altro potremmo non avere più la possibilità di farlo, di vivere la nostra vita e quella dei nostri cari. E che cosa ci rimane di una persona? Non me lo spiegherò mai. È impensabile per me, ma io credo che la risposta sia nei ricordi. C’è una frase di Sant’Agostino molto bella che, per quanto io non possa definirmi proprio credente, mi ha colpito. È rassicurante. «La morte non è niente. Sono solamente passato dall’altra parte. Io sono sempre io e tu sei sempre tu. Quello che eravamo prima l’uno per l’altro lo siamo ancora. La nostra vita conserva tutto il significato che ha sempre avuto: è la stessa di prima, c’è una continuità che non si spezza. Perché dovrei essere fuori dai tuoi pensieri e dalla tua mente, solo perché sono fuori dalla tua vista?» È per questo che spero e credo che l’amicizia che avevamo costruito rimanga costante tuttora e che la «continuità» di cui parla Sant’Agostino veramente non si spezzi. Spero che io per lui sia stato e sia ancora un saltimbanco, anzi un «sambanco», come lui lo è stato e lo sarà per me.
