È pomeriggio inoltrato, il sole cela la sua luce al di là dell’orizzonte e la cittadella di Mooresville inizia ad estinguersi pian piano, confondendosi con la trepida penombra del crepuscolo, il quale tinge di un azzurro uniforme le piccole strade del paese. Cala l’umidità della sera, che intirizzisce la pelle di chi, ancora, girovaga per le vie della città. L’atmosfera è insita di un’aura quieta e silente, che lascia spazio al ronzio elettrico del lampione in fondo alla strada, dinanzi al quale emerge per la luce fievole e lampeggiante il fronte di una casa, di piccole dimensioni, in verità, e di un colore slavato e scialbo.
Dalla stretta finestra della mansarda si scorge la luce soffusa di una candela poggiata sul davanzale, che illumina sufficientemente la soffitta da mostrare al suo interno un ingente cumulo di libri ed un’enorme tela bianca, accostata ad un trespolo. Incamminandosi al piano di sotto, per la scala a chiocciola cigolante, si avverte l’esile voce di una ragazza adolescente che cena in solitudine e che stipa delle vivande nel frigorifero, in attesa del ritorno del padre. Un temperamento un po’ particolare, il suo, un uomo dalla personalità chiusa, talvolta arrogante e pidocchioso, che tuttavia fa di tutto per mantenere in salute la figlia. Fin da quando era una bambina lei e suo padre dipingevano assieme, lei su dei cartoni di cui ci si doveva disfare, lui su una tela. Per professione, infatti, il padre faceva il pittore, strano a dirsi, ma era così…egli si occupava di spedire dei quadri su commissione ed essendo di una meticolosa professionalità, ciò gli portava via un ragguardevole lasso di tempo. Inutile dire che quest’occupazione influenzò ampiamente la vispa mente della figlia, la quale iniziò a sviluppare fin da subito un profondo amore per l’arte in tutte le sue forme. Ella è una fanciulla di grande cultura, fortemente appassionata alla scultura della Grecia classica e alla pittura impressionista. Crescendo ha iniziato a lavorare in qualche libreria qua e là per procurarsi lo stretto necessario, per coltivare la sua passione.
Giornalmente afferra le sue cose: la sua borsa, contraddistinta da delle chiazze di colori a tempera, i suoi pennelli, leggermente sciupati, e l’immancabile cavalletto ligneo. Dalla sua cameretta scende le scale, quasi volando, e, facendo attenzione a non rovinare la perfetta tessitura della tela, supera l’uscio della porta per dirigersi al laghetto nei pressi della città. Il padre, col tempo, dovette cercare un altro modo per guadagnarsi da vivere, a causa dei bassi profitti della sua precedente occupazione; dunque decise di lavorare in una rinomata fabbrica della sua zona, che in ogni caso gli permetteva solo uno stipendio esiguo. A causa del lavoro egli è fortemente assente dalla vita di casa e, inoltre, per quelle poche ore durante le quali riesce a passare del tempo con la figlia, non fa altro che lamentarsi della sua estenuante e massacrante vita. La fanciulla, per converso, è sempre ilare e raggiante, sa come rinfrancare il padre e, seppure egli non le dimostri il suo affetto, ella spera, un giorno, che lui l’abbracci, come faceva quand’era bambina e che ritornassero alla vecchia abitudine di disegnare insieme, nonostante lui non fosse più occupato in quel settore.
Passano gli anni, la piccina cresce e ogni anno sforna dalle sue mani centinaia di disegni, uno più bello dell’altro. I colori sprezzanti dei dipinti sono tali da far scattare nell’animo un fuoco ardente e impetuoso, che inebria il corpo con uno spirito indescrivibile, capace di generare la lietezza nella sua massima accezione. Osservare uno dei suoi dipinti significa porgere la mente ad un mondo quasi perfetto, un mondo nel quale vige sovrana un’essenza incorporea e sublime, la quale è in grado di far percepire un puro sentimento di malinconia, dettato dalla volontà di tornare a quella placidità e armonia del cosmo, ormai andata perduta nell’avidità degli uomini, ingrigiti dal pensiero di poter sussistere con la sola ricchezza materiale, che dispongono della sola convinzione di essere infelici perché non abbastanza abbienti. Quella ragazzina, al contrario, ha intuito come raggiungere la felicità, una felicità imperitura, perseverante, che consiste nell’apprezzare l’incanto, talvolta quasi impalpabile, della realtà rabbuiata nella quale vive. Nessuno la capisce, nessuno coglie il motivo per il quale lei continui ad investire nella pittura, soprattutto il padre è tormentato dal pensiero che la figlia non fosse in grado di badare a se stessa. Lei, ad ogni modo, nel momento in cui le domandano cosa voglia realizzare nella vita, replica: «Voglio creare un mondo di artisti».
Tutti, a questa risposta, simulano un sorriso, per celare la propria esitazione, la propria amarezza nell’aver ricevuto una risposta così vaga. Chiunque ignora o pensa di conoscere il valore di tale affermazione, eppure nessuno si avvicinava minimamente a comprenderla. Il “mondo di artisti” che la ragazza ambisce ad ergere è un globo che racchiude in sé lo spirito delle sue opere, un mondo di coerenza, equilibrio e fine placidità tra l’uomo e la natura. Era fortemente pertinace nella realizzazione di tale sogno, così si risolse. In una calda mattinata di marzo volge i passi verso un negozietto nel centro storico della città e con i suoi risparmi acquista uno di quei carretti da agganciare alle bici. È di un colore verdeggiante, tendente al giallo, ha quattro minuscole ruote ed un manico abbastanza lungo da poter essere trainato anche a mano. All’istante rientra a casa, si adopera nel tirar fuori tutte le sue vecchie pitture e le cinge con le sue nuove cornici, appena acquisite, per poi colmare il carretto con esse. Tanto è il peso dei quadri che il modesto e fragile carrello a stento si sostiene. Si avvia, da una parte elettrizzata e dall’altra tentennante, verso la periferia. Non sa se il suo piano frutterà, o se semplicemente risulterà in un fiasco. Ogni passo che perpetra acquieta la sua apprensione, è cosciente, nel profondo del suo animo, che ciò che è sul punto di compiere è la cosa giusta e non permette alla sua paura di imporle alcun limite. Prima di varcare il confine che allora segnava, per la chiusura mentale degli uomini, l’inizio dell’afflizione, tira un sospiro. Alle spalle di un alto palazzo, affacciato alla campagna sconfinata di Mooresville, vi è lo “scarto sociale”. Quelle persone che vengono da tutti disdegnate…il colore fulgente dei dipinti illumina la quiete del posto, tacito e tranquillo. Finora non vede nessuno, solo qualche alberello in fiore, dei gattini che paiono delle piccole nuvole a ciel sereno e qualche ciotola di cibo abbandonata, lasciata lì per i randagi della zona.
Dopo un po’ nota una signora di mezz’età, vestita con uno splendido vestito rosa, che si intona con i germogli dei ciliegi. La ragazza la chiama da lontano, ella si gira attorno per capire a chi fosse indirizzato il saluto e quando comprende di essere l’unica sotto il sole cocente della giornata, ricambia, portando la mano al cielo. La ragazza si affretta a raggiungerla, evitando le fosse del terreno, affinché il carretto non si ribalti. Al che la donna, di bassa statura, accenna un sorriso. Chiede allora quale fosse il nome della fanciulla: «Frida», risponde lei «Mi chiamo Frida». La signora posa lo sguardo alle spalle della ragazza, incuriosita dalla grossa pila di quadri che svetta dal carretto, perfettamente salda grazie ad una corda. Gli occhi della donna rabboccano di delizia nel vedere il primo dipinto sulla catasta, nello scorgere tale meraviglia Frida nasconde le sue lacrime di gioia con un genuino sorriso. Senza dire una parola inizia a sciogliere il nodo della fune, prende il quadro e lo porge amorevolmente alla signora, che stringe a sé la fanciulla come segno di ringraziamento. Ce l’ha fatta. Ha unito due anime grazie all’arte. E’ stata in grado, con la semplice delicatezza del suo dipinto, di diffondere amore, di congiungere due mondi. In quel momento stava spargendo la sua idea di bellezza, la sua idea di felicità e la pura accoglienza della donna la rincuora. In meno di un’ora l’incrocio si riempie di gente, tutti vanno incontro al carretto, come i bambini quando in lontananza scorgono il parco giochi. Ognuno porta via il disegno che più apprezza, fino a quando il carrello non si svuota completamente. È in quel momento, in cui l’ultimo quadro viene dato via, che Frida si sentì concretamente felice, che riconosce di aver creato un piccolo mondo di artisti, di persone che, come lei, vivono di tolleranza, di giustizia, di puro amore per il cosmo nella sua interezza. Ha reso l’arte un bene, il bene comune che necessita il mondo.