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Fascia 16-19
Il posto giusto

PARTE PRIMA

«È un paradosso conoscere il proprio nome e allo stesso tempo ignorare la propria identità» penso tra me e me. Quando mi viene chiesto «Chi sei?» io rispondo «Roberto Greco» ma vorrei tanto dire «Non lo so». E così, camminando sotto la pioggia picchiettante, mi cruccio, cercando di stringermi nelle spalle, come se volessi sparire. D’altronde, chi se ne accorgerebbe? Chi potrebbe mai notare l’assenza di una persona che non ha identità? Penso anche a questo mentre arrivo a scuola e, con un po’ di esitazione, entro in classe: le pareti bianche e il pavimento color grigio spento mi ricordano perché, ogni volta che sto a scuola, sento un peso sul petto. E mi sento così fuori posto, lì, come se fossi un pesce in un acquario stracolmo di sabbia che non riesce a respirare, un alieno tra altri umani, tra i miei compagni, perfettamente integrati nella micro-gerarchia presente in classe. Se sparissi, sicuramente loro non lo noterebbero.

È una giornata come tante, caratterizzata dalla stessa monotona normalità di sempre. I compagni dicono le stesse battute ripetutamente e i professori spiegano come automi senza carattere (e probabilmente, se me ne andassi, neanche loro si accorgerebbero della mia scomparsa). «Come fanno a vivere sempre la stessa situazione, cos’è la vita per loro? Un loop temporale?» mi chiedo, già stanco e infastidito dallo squallore di quelle noiose abitudini. «Che strana la scuola,» penso «qui dovrebbero stimolare la mia curiosità, ma attualmente mi sento stimolato solo a dormire.»

Passati circa dieci minuti dall’inizio della lezione, qualcuno bussa alla porta. Un ragazzo riccio, alto, con una maglietta dei Radiohead entra in classe e si presenta: «Ciao, sono Davide».
Non ho mai sentito una presentazione così concisa, e questo mi diverte, perché anche io avrei detto solo questo. Forse anche lui, come me, non sa cosa raccontare di se stesso. Inizia a camminare, l’unico banco libero è quello affianco al mio. La sua maglietta, viola e blu, dà vivacità a quello che a me, poco prima, sembrava un ambiente privo di ogni colore. Passo mezz’ora a guardarlo di sottecchi e alla fine mi decido a parlargli: «La mia canzone preferita dei Radiohead è No surprises» gli dico. Lui si volta e mi risponde: «Anche la mia, insieme ad All I need» e si gira di nuovo. Segue un silenzio imbarazzante, io mi pento di aver parlato e di aver provato a socializzare. Dopo poco, però, Davide mi rivolge la parola: «Come ti chiami?». «Roberto» rispondo.

Parliamo di musica, libri, film e tante altre cose, io mi stupisco, perché non mi ero mai sentito così simile a un’altra persona e perché stavo facendo amicizia facilmente, cosa che, per inclinazione naturale e per timidezza, non mi è mai riuscita bene.
«Lezione di Storia alla prima ora… dovrebbe essere un reato!», io rido perché sono pienamente d’accordo.
«Ragazzi, oggi interroghiamo. Lo so che dovevo spiegare, ma mi annoio… e poi mi fa male la testa» dice la professoressa entrando in classe, con un sorrisetto soddisfatto che, ai miei occhi, la fa assomigliare ancora di più a un’arpia. «E questi sarebbero professori? Si annoiano della loro stessa materia, come pretendono di poterci insegnare qualcosa così? Come pretendono di essere ascoltati?» Non faccio neanche in tempo a finire la mia riflessione che la professoressa inizia di nuovo a parlare: «Allora chi interroghiamo oggi?». Segue un silenzio pesante e pieno di inquietudine. Mi tremano un po’ le mani, un formicolio fastidioso si fa strada nella mia carne e nelle mie ossa. La professoressa apre il registro, in cerca dello sventurato agnellino da sacrificare: «Va bene, interroghiamo Greco?». «Avrei di gran lunga preferito essere risucchiato da un buco nero» penso, mentre mi alzo imprecando. «Dai Roberto, vieni qui alla cattedra, vicino a me.» Davide cerca di darmi coraggio. La cattedra, in questo momento, mi appare più come un altare sacrificale.

«Allora Davide, ci vuoi parlare della Guerra dei cent’anni?» mi chiede il prototipo italiano della signorina Rottermeier. Io vorrei tanto risponderle di no, però inizio a parlare. «La Guerra dei cent’anni interessò la Francia e l’Inghilterra…», la professoressa mi interrompe: «Santo Cielo Robè, alza un po’ la voce! Come puoi pensare che io ti senta se parli così!» mi fa, mentre scorre con disinvoltura la home di Facebook. Neanche mi ascolta… «Va bene, dicevo… la Guerra dei cent’anni venne combattuta dai Nazgul e dalle forze di Rohan… » L’interrogazione procede liscia come l’olio e io parlo per un’ora intera della trilogia de Il Signore degli Anelli. «Alla fine, sarà l’intervento di un’importantissima figura del misticismo femminile, ovvero Éowyn, che stravolgerà le sorti della guerra.» La professoressa posa il telefono e comincia a guardarmi intensamente. «Sono un cretino, adesso prendo quattro» penso. «Roberto mi hai stupita, hai parlato in maniera fluida e la tua esposizione è stata ricca di particolari. Complimenti» dice. Io non capisco se stia scherzando o se sia seria, sto morendo di ansia. Dopo poco mi arriva una notifica dal registro elettronico, allora accedo all’app e controllo il mio voto: ringrazio J.R.R. Tolkien per avermi fatto prendere il voto di Storia più alto della mia vita.

Dopo Storia abbiamo Filosofia, il professore ci porta nel cortile, spiegandoci Aristotele tra le erbacce fuori scuola. Io e Davide chiudiamo la fila.«Robè, perché parli spesso a bassa voce?» mi chiede all’improvviso. Inizio a camminare guardando per terra, come se potessi trovare la risposta tra le mattonelle tutte rotte del viale. Alzo la testa e gli rispondo: «Penso che la gente non voglia ascoltarmi, Davide, e forse ho ragione… pensaci, alla fine neanche la prof. mi ha ascoltato…», abbozzo un sorriso per far finta di niente e per cambiare argomento, quella di Davide, però, sembra un’imboscata, un interrogatorio a sorpresa. «Perché pensi questo? Io ti stavo ascoltando, sai? E poi perché hai una considerazione così bassa di te stesso?» Vorrei scappare lontano, in questo momento. Gli dico: «Guarda Davide, a me non piace parlare degli ingranaggi del mio cervello, perché funzionano male e io non ne capisco il perché». «Io penso che parlarne ti aiuterebbe a capirli. Non affrontare il problema non serve a niente, le ferite guariscono solo se le curi, non se le ignori, è una cosa così banale da capire…» ribatte con tono deciso. Io lo guardo. Sto cercando di capire se posso dirgli tutte le cose che non ho mai detto a nessuno, se posso parlargli di tutte le emozioni che reprimo da sempre. In poco tempo capisco che posso, perché sento il bisogno di parlarne, specialmente con lui. «Il problema è che ovunque io vada, non mi sento mai al mio posto. Non so, mi sento stupido anche a dirtelo perché penso che in qualche modo, sia colpa mia. Qualunque cosa faccia non è mai abbastanza, perché io non sono abbastanza. E poi, sono così diverso dal modo in cui gli altri mi concepiscono! Dovrei essere forte, vitale… e invece sono magrolino e pallido tanto da sembrare malato e a volte non riesco neanche a trovare un motivo per alzarmi dal letto, perché ho paura del nuovo giorno, ho paura di inciampare nei miei stessi ragionamenti. Ho paura di rimanere in questa situazione di stallo emotivo per sempre, perché non conosco niente né della vita né di me stesso. Temo che la mia esistenza non sia altro che un oscillare frenetico tra felicità e profonda depressione. Forse è per questo che mi isolo, che non faccio amicizia, che parlo a bassa voce. E questa inadeguatezza a vivere… non va contro la natura umana stessa?»

Davide mi guarda e fa: «Sopravvivere non significa vivere». Adesso guarda per terra anche lui. «Io e te cerchiamo in tutti i modi di vivere, anche se alla fine restiamo relegati nella fossa buia in cui ci hanno buttato tempo fa, quando hanno iniziato a definirci strambi senza neanche sapere cosa fosse veramente la normalità.» L’ora di Filosofia è finita, noi rientriamo in classe e ci sediamo a posto, consapevoli di non avere un posto effettivo da nessuna parte, se non in quei banchi vicini.

PARTE SECONDA

Passano settimane e poi mesi, io e Davide diventiamo sempre più amici, ci scambiamo CD, libri, DVD e parliamo di tutto.
Prima di incontrarci, eravamo due corpi celesti in cerca delle proprie orbite, due persone incapaci di trovare un posto giusto in quell’universo circostante infinitamente grande e spaventoso, di trovare un barlume di luce nel fitto nero abitudinale, di superare quella siccità tanto totalizzante e opprimente. Due elettroni di valenza, troppo distanti dal nucleo atomico, che hanno trovato la propria validità formando un legame covalente quasi indissolubile. Adesso siamo seduti sul mio letto e, ascoltando No surprises dei Radiohead, io penso: «Non ho mai capito il senso dell’esistenza del tempo. A che serve definire i secondi, se a volte sembrano anni? A volte penso che il tempo serva soltanto ad avere la contezza di quanta vita abbia buttato dietro cose stupide e situazioni vuote. Quante ore ho sprecato a disegnare una maschera perfetta, che però invece è piena di crepe e manchevolezze, a eludere la realtà, ad assecondare le aspettative degli altri! Forse non so ancora chi sono proprio perché l’alter ego che ho creato non è più finzione, perché mi sono sforzato così tanto per avere la forma degli ideali degli altri, che adesso sono diventato completamente amorfo. Sono inconsistente, astratto. Tranne quando sto con Davide. La sua sussistenza mi conferma quanto sia futile il tempo, perché parlandogli mi sembra di conoscerlo da anni, perché quando stiamo insieme percepiamo le ore come frazioni di secondo, perché ho vissuto senza vivere per sedici lunghissimi anni. E quel verso tanto celebre di Orazio, Carpe diem, che mi ha sempre confuso, adesso mi appare più chiaro che mai, non lascerò che la felicità scivoli via dalle mie dita, come fa sempre. Adesso so qual è l’attimo che devo cogliere: questo».

Pubblicato: 11 Maggio 2022
Fascia: 16-19
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