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Fantascienza
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Fascia 13-15
Il mio racconto

Condussi la mia tunica grigia di fresco cotone giù nella valle e svoltai in un vialetto tra i frutteti creato con pietruzze sistemate in due file tra gli alberi di mele e pere. All’incrocio con la strada del pozzo c’era l’altare consacrato alla memoria del mio trisnonno che sorrideva nel dipinto impresso su di un tronco d’acero. Tutto intorno al pozzo s’erano accese le fiammelle per i giorni di festa. Oggi avrebbe parlato il mio vecchio e anche tutti i figli del pastore che non vedevo dall’autunno sarebbero venuti per portare il latte e il formaggio. Di fronte a mio padre c’erano già tutti presenti i bambini; per loro la Pioggia era una storia per riposare la notte. Mia sorella era vestita oggi tutta ricamata con camicetta e gonna lunga come una reginetta ai tempi di Versailles.

Mio padre, staccato l’ultimo carro e sistematosi l’ultimo giovane, iniziò la sua orazione con la voce da baritono basso: «La Terra era all’approssimarsi di una terza grande tragedia. La malvagità era un grande drago che scaldava forte e da vicino il mondo e i suoi uomini. La Terra era corrotta e così le sue piante e i suoi animali che erano istigati dall’uomo. Il peccato macchiava le regioni e le città dove indugiavano tutti gli uomini. Il possesso oscurava gli occhi delle creature terree e l’acqua, dimenticata, sferrò un lungo attacco contro i nostri avi. Il primo giorno venne una pioggia leggera, gli animali s’abbeverarono, le colture degli orti cantarono e gli uomini si chiusero dietro dei portoni di ferro, ognuno nella solitudine della propria casa. Le foglie dell’autunno si incollarono all’erba verde tutte infradiciate, le nuvole piangevano bianche e lontane e le macchine, usate come dei muli per spostarsi velocemente, slittavano sulla strada. Le gocce di acqua rimanevano impigliate tra i rami degli arbusti, brillavano sull’asfalto, un triste e grigio selciato senza erba, e gridavano aiuto dalle grondaie della città. Dopo sette giorni identici al primo le sorgenti d’ogni fiume impazzirono ed ogni corso ed ogni lago straripò. Gli animali urlarono, le piante s’accasciarono e le radio e i telegiornali, che allora riempivano ogni casa, strepitarono. L’ottavo giorno le acque di oceani e mari si alzarono e i deserti furono cancellati. Le nubi erano nere, i pini in montagna pregavano, gli uomini si rinchiusero nelle loro case altissime, anche di cento e più piani, che grattavano il cielo. Poi esplosero gli animi gravidi del cielo, cadde giù una grandinata potente e colpì anche i pini in montagna e gli uccelli si dispersero sotto le grondaie in città e i sassolini di ghiaccio saltarono sui davanzali delle scuole.

Cadde l’inferno sulla terra per quaranta giorni e quaranta notti. Gli uccelli stanchi si posarono in terra e morirono con le piante che tinsero i fiumi straripati sugli orti. Gli uomini emisero ordinanze e chiusero i loro aereoporti dove partivano tanti e tanti aerei che erano delle macchine che volavano come gli uccelli, sporcando l’aria con delle nuvole nere. L’alba successiva tutti gli animali secondo la loro specie furono sterminati nella Pioggia. Gli alberi persero tutte le loro foglie, le nuvole stesero il loro manto dai deserti alle steppe del nord, le macchine mossero le loro ruote tra le onde. Alla luna nuova tutti i fili del telefono erano già stati divelti e i pali della luce erano già caduti in terra. Prima morirono i contadini, i pastori, i popoli della giungla e i poveri sotto la pioggia che distrusse le loro cascine, le loro tende, le loro case arroccate una sull’altra tra stracci e lastre di plastica. Prese il sopravvento una pioggia acida e gialla che coprì la terra per 20.000 cubiti d’altezza afferrando le case, i palazzi tutti (anche quelli che grattavano il cielo!) e gli alberi impauriti o finirono sommersi o caddero al suolo stracciando le loro radici. Gli uomini nelle loro case morirono tra urla confuse in ogni lingua che esisteva a quel tempo; chi prese l’aereo fu ferito dai più violenti fremiti di saette del cielo e le montagne sgretolarono le proprie rocce colmando il vuoto tra la vita sommersa e i massi taglienti.

Un bambino dagli occhi gentili fu visto dall’acqua che ne ebbe pietà. Questo fanciullo aveva degli occhi enormi e per guardarsi intorno doveva voltare la testa di continuo. Era amico dei bruchi e dei vermi che erano ospiti sul lato destro del suo giardino. Così, quando ancora le strade si scorgevano tra il fango, il bambino con gli occhi enormi scavò con i vermi una grande buca in cui poteva entrarci in tutta la sua lunghezza e nella quale visse per lungo tempo mentre sopra di lui passarono tutti i giorni e le notti piovose del Diluvio. I vermi e l’erba crearono una bolla intorno al suo riparo donando al bimbo ogni giorno l’ossigeno e il sostentamento e per questo noi siamo ancora riconoscenti all’erba ed ai vermi, tra i più piccoli tra gli esseri viventi.

Dal Diluvio si salvò un uccello che raggomitolato in sé stesso, tra le sue ali, chiese a un passante in terra, una signora gentile, di lanciarlo con una balestra dritto dritto tra le nubi, ché se lì avesse puntato il suo tiro, certo ne avrebbero tratto ambedue giovamento. La vecchia signora ripose fiducia in lui e i capelli le tirarono indietro quando partì come un missile l’uccellino che strapazzato volò in pace oltre le porte del conosciuto per tutto il tempo del Diluvio. Ma si ricordò della signora che lo aveva aiutato essendo triste non aiutare chi, così buono, per primo aveva aiutato. La cercò per i continenti tutti e giunse a delle montagne aguzze dove un fuoco e il suo fumo svelarono la vecchia che come molti aveva cercato salvezza tra le montagne. I gridi dell’uccellino fecero piegare le montagne a creare, sgretolando i massi corrosi dalla Pioggia, una comoda rete coperta di ghiaccio dove i molti giorni del diluvio passarono come se fossero uno.

Svegliatasi, la vecchia signora trascinò i suoi passi nella fanghiglia tra le montagne per molti giorni. Volò con una barchetta sopra l’acqua e fece cigolare le sue scarpette per tutta una collinetta la cui cima spuntava alta dall’acqua. Salì e discese la collina sino ad arrivare ad un luogo di bonifica dove l’acqua stagnava gialla. Al centro del lago s’ergeva una forma come dorso di balena. La vecchia donna scacciò i barbagli dagli occhi. La balena era un isoletta formata da tantissime paia di scarpe gommose che galleggiavano insieme, indolenti sul pelo dell’acqua giallastra. Scarpe d’ogni genere e forma, ammassate con precisissima geometria, non una era in bilico e non una era persa dalle altre. Su quella strana isola, della misura di qualche decina di cubiti per circonferenza, c’erano degli uomini e una coppia per tutti gli animali che respiravano e vivevano in quel mondo prima del Diluvio. Uomini di tutti i popoli, dalle più lontane culture. Mangiavano pesci che tiravano con lenze di stoffa strappate ai vestiti. Lì erano arrivati tutti quelli che s’erano salvati: il bambino dagli occhi enormi, l’uccello gentile…

Abbassatesi le acque, tutti gli animali e gli uomini, dimagriti e spauriti, discesero dall’isoletta con una lunga fila, calpestando le sdrucciolevoli scarpe di gomma che s’erano tutte scurite e non una marca si distingueva e non un prezzo e una scarpa orientale bassa, piena d’acqua, di poco si discostava da quella d’un nobile corridore delle Americhe. Gli uomini e gli animali, percorsero viali non tracciati, rovine fangose: le città tutte un groviglio di mura cadute, spuntoni con le prime gemme dell’anno nuovo tra l’erba marrone sradicata a formare spirali. Gli animali ognuno secondo la propria specie cercarono la loro casa tra paesaggi disconosciuti e ricrearono la foresta aggiungendo ai nuovi alberi i vecchi gridi sonori, occuparono le montagne ed ulularono l’eterna battaglia tra branchi rivali, svolazzarono in cielo cercando cercando senza fermarsi con il solito giro…

Gli uomini erano venti, tra adulti e bambini, e nessuno poteva capire l’altro e nessuno condivideva il passato dell’altro e nessuno pensava come l’altro ma tutti si fidavano dell’altro sapendolo triste, segnato dalle prove dell’acqua, affamato come ognuno di essi sentiva e allora le venti anime si vollero bene e questo fu il principio. Presero un tronco dalla grande circonferenza e ponendolo su un masso con nulla intorno ecco dissero: “così inizia il nostro patto, qui sorgerà il nostro futuro comune”.

Rimasero insieme vicini tra loro ma non formarono alcuna le città, i paesi o le nazioni che c’erano prima. Ognuno prese un pezzo di terra e ci visse aprendolo sempre ai propri amici così che non ci fosse invidia che era cosa cattiva, come loro sapevano per i lunghi mesi passati a dividere il cibo quando era poco e non v’era la terra ma solo l’acqua. Amarono la terra come il bene più prezioso e dopo gli alberi, le erbe e gli animali che sempre furono rispettati perché salvarono non pochi di loro e perché erano compagni al pari di come si era tra loro. Si imposero anche l’obbligo di amare l’acqua e l’aria e la natura che li circondava perché avevano saputo tutta la forza quando si ribellavano contro chi l’aveva odiati, disprezzati e ignorati. Così per tutta la loro vita i venti uomini non ricrearono le case e le strade e le centrali elettriche che c’erano prima del Diluvio. Così fecero e così fecero i figli che generarono e così i figli dei figli che popolarono da capo la terra tutta seguendo i principi. Misero l’affetto tra i valori più alti perché per lungo s’era dimenticato e invece lui aveva salvato tutti coloro che si salvarono, perché recava gaiezza e faceva brillare di vita più piena gli occhi e aveva creato il nuovo mondo dopo il Diluvio. Per ultimo gli uomini non usarono più il denaro perché aveva creato le nubi e istigato il Diluvio, perché pensavano che a tutti fosse dovuto quel che si desiderava perché tutti avevano gli stessi occhi, le stesse emozioni e le stesse disperazioni e perciò a tutti è dovuto cibo e riparo per curare gli occhi, saziare le emozioni e lenire la disperazione. E non ci fu bisogno di baratto o di moneta che anche se avessero voluto non poterono creare perché un così grande uso di carta non lo comprendevano affatto. Gli uomini tramandarono il loro mondo ai figli e ancora oggi noi viviamo in pace».

La voce di mio padre si spense. Un gorgoglio gli uscì dalla gola e tutto il pubblico s’alzò creando una lunga fila indiana sino ai tavoli sotto i noci che custodivano sotto i loro rami odori di mensa e rumori di risa. I bambini salirono sugli alberi e la giornata si chiuse.

questo racconto ha partecipato al concorso Fictionforfuture
Pubblicato: 8 Maggio 2023
Fascia: 13-15
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