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Fantascienza
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Fascia 16-19
Il filo della mente

«Smettila di tirare, Atlas! Cosa stai cercando di fare? Vuoi tornare ad essere l’insulso filamento di un gomitolo troppo ingarbugliato da poterne comprendere qualcosa? Non scucire la tela, ti prego!»

Era stata la trepidante voce di Friedrich a far ricongiungere i pezzi del senno di Atlas, che sconnesso com’era, si era quasi dimenticato di come un singolo movimento, una minima forza, un impercettibile sussulto dell’anima avrebbe potuto far traballare quell’equilibrio tanto fallace quanto estremamente ammaliante.

Atlas e Friedrich  giocavano a fare gli equilibristi; i loro passi ordinati si intrecciavano sull’immensità di quei lunghi filamenti di tela, ammirandone la consistenza, la manifattura, la sostenibilità delle fibre e l’odore che ne traspariva.

Se ne stavano lì, dimenticandosi di ciò che avevano lasciato, gravando sulla propria ragione, sul proprio senno, sui propri neuroni che stanchi di dover progettare quella realtà meravigliosa, spesso perdevano la rotta, ingarbugliandosi, forse rifacendosi a quella loro natura caotica ormai dimenticata, in quella simulazione un po’ troppo ordinata.

Su quella tela d’immaginazione, infatti, sorgevano foreste ricche d’alberi che nessuno, per il capriccio di dover scrivere qualche parola in più, deturpava e nascevano e continuavano a vivere indisturbati ogni specie terrestre che l’uomo avesse mai visto. Su quel panno, danzavano uccelli, senza il pericolo di dover saltare l’ostacolo dei proiettili.

Su quel tessuto mentale scorrevano fluidi perfettamente intatti, senza l’attrito di dover accogliere ospiti nocivi.

E proprio su quell’opera d’arte giacevano le idee di milioni di abitanti terrestri, che come piccoli Da Vinci, avevano progettato involontariamente una realtà in cui ognuno, senza gravare sull’altro, accoglieva e assisteva se stesso e chi aveva intorno.

Proprio come il minimo “tirare” di Atlas avrebbe potuto far vacillare tutto, così il singolo tradimento di una purina con una pirimidina diversa dal proprio partner abituale aveva generato la causa di questo mondo utopico traballante.

Quell’involontaria infedeltà aveva infatti fatto sì che venisse prodotta una proteina anomala, modificata, e in parte sconosciuta all’apparecchiatura umana.

E così sul campo di battaglia essa aveva dato prova del suo potenziale, orchestrando parte del laboratorio mentale, e influendo sulla produzione delle sostanze chimiche che garantiscono ciò che noi individuiamo con il termine di “immaginazione”.

Quest’ultima, risultò indispensabile a chi, quando fu rimosso il velo dell’apocalisse, cercava un appiglio a cui aggrapparsi, un filo a cui potersi legare.

E così ognuno, si legò al proprio filo d’immaginazione utopica, creando collettivamente quel lungo tessuto di prosperità.

Proprio qui infatti, quasi come per magia, gli uomini avevano raddrizzato i propri passi, cercando di mettere a posto ciò che avevano gettato all’aria.

Ma nonostante il rispetto innato per l’essere nella maniera più pura al mondo, giaceva nelle menti degli abitanti della tela, quella natura caotica a cui l’uomo, involontariamente fa sempre ritorno, lasciandosi andare ai sensi, ingarbugliando quella mente troppo stanca e troppo appesantita dal nuovo mondo creato.

Seguendo le orme del caos, Atlas aveva rischiato di cedere alla natura di malfattore del bene, di invidioso dello stare in pace, provando a disfare tutto il tessuto creato, sulla quale sorgevano belli come non mai, mari e fiumi liberi dall’orrore della plastica, sui quali si posavano i fiori più belli che potessero respirare l’aria felice e leggera di quella realtà.

E così, tremante, dopo aver realizzato il tutto, s’accasciò su quel suolo immensamente pulito, e s’abbandonò alla propria umanità.

Pianse, mischiando le proprie lacrime a quelle dell’acqua che per tanti anni terrestri aveva sognato , desiderato, agognato, e per la quale aveva lottato con le unghie e con i denti.

Pianse ricordando i volti di chi non ce l’aveva fatta ad aggrapparsi al filo dell’immaginazione, rapito dal pessimismo.

Pianse per chi non aveva mai potuto scorgere fra lo sporco, i detriti, il fetore umano, la disperazione, la bellezza della nostra patria.

Pianse per chi l’aveva resa spazzatura, per chi le aveva messo un velo, coprendola di ciò che il proprio egoismo dettava.

Pianse e pianse per 7 giorni, quelli che Dio ci aveva impiegato per costruire quel gioiello incompreso, quel regalo cestinato al primo utilizzo.

Ma poi due dita affusolate gli si poggiarono sulle gote, allontanando le lacrime dal suo volto.

Erano le dita di Friedrich, la sua salvezza, colei che, tenendolo stretto a se lo aveva trascinato con lei su quella distesa di tessuto.

Gli tese la mano, e come per magia, quando i due palmi si baciarono, il petto gli si gonfiò di bellezza.

Quella bellezza che s’incontra solo guardando l’occhio dell’altro, solo toccando un essere vivente, solo capendo che nonostante tutto siete fatti della stessa cosa, venite dalla stessa fonte e tornerete stretti alla stessa cenere.

Atlas s’addentrò in quella bellezza come mai fino ad allora e comprese il perché del suo stare lì, comprese il suo pianto, comprese per cosa valesse la pena lottare.

Si fermò ad ascoltare il suono della natura, il cui richiamo si sentiva chiaramente, data l’assenza dei rumori mondani, dei suoni che urlano alla dimenticanza e alla non curanza, e lì capi che per quella musica, per quell’armonia, per quel singolo istante di rinascita ne sarebbe valsa la pena altre mille volte. Si sarebbe appeso a quel filo altri miliardi di volte per poter sentire, per poter comprendere ciò che avevano sempre  avuto ad un passo dagli occhi, ma troppo lontano dal cuore.

questo racconto ha partecipato al concorso Fictionforfuture
Pubblicato: 8 Maggio 2023
Fascia: 16-19
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