«Non vedo l’ora di tornare a casa».
«E dove si trova la tua casa?»
«Molto lontano, dall’altra parte del mondo».
«E non ti piace qui?»
«Si, è molto bello, ma se tu fossi lontano mille miglia da casa tua, non ti mancherebbe nemmeno un po’?»
«Mio papà dice che sono un cittadino del mondo!»
«E che vuol dire?»
«Vuol dire che il mondo è la mia casa».
«Ma questo non è possibile, tuo padre è un bugiardo».
«Perché dici questo? Cosa c’è di diverso qui, a casa mia, che a casa tua non c’è».
«…»
«Non riesci a rispondere perché ho ragione».
«È che non conosco bene la tua casa per poterla paragonare alla mia».
«Va bene allora facciamo un gioco, io ti dico qualcosa di casa mia e tu mi dici se da te le cose funzionano diversamente…»
A distanza di tanti anni ricordavo ancora chiaramente quella conversazione con Percy. Avevo sette anni e per la prima volta qualcuno mi aveva spiattellato in faccia il fatto che non esistesse casa mia o casa di un altro, ma esisteva il mondo, che non aveva padroni. Quel gioco, quella sera, lo persi, non perché dalle mie parti le case non erano dello stesso colore delle sue o perché non crescevano gli stessi tipi di alberi, quanto piuttosto perché più Percy andava avanti nel suo racconto e più maturava in me l’idea che, in fin dei conti, il mondo era davvero la mia casa, e non solo. Era la casa di tutti coloro che ci vivevano, per terra o per male o nei cieli, era la casa di ogni creatura che dopo processi evolutivi durati miliardi di anni, era nata sulla superficie terrestre e aveva trovato un ecosistema pronto ad accogliere un nuovo essere vivente. Compresi che eravamo tutti ospiti e che, di conseguenza, dovevamo tutti essere ospitali. Ricordo che in quel momento immaginai il mondo come una grande culla all’interno della quale c’ero io, c’era Percy, c’erano mamma e papà e tanti altri uomini, ma c’erano anche gatti, cani, uccelli, pesci e tutti gli animali e le piante che mi vennero in mente a quell’età… nel sogno dormivamo un sonno profondo, nessuno creava disturbo ad altri, eravamo in pace.
Mentre pensavo a questo, il mio compagno di gioco andava avanti nel suo racconto. Ricordo che per prima cosa Percy mi parlò della struttura della sua città e dichiarò che suo padre gliel’aveva spiegata con un disegno che però lui non era in grado di riprodurre. Mi disse che la sua città non finiva mai, questo perché, innanzitutto, non possedeva mura che ne sancivano la terminazione; in secondo luogo perché, nella sua città, non esistevano un “centro” ed una “periferia”. Mi spiegò infatti, con una semplicità di cui soltanto i bambini sanno dare sfoggio, che un centro per essere tale deve essere il centro di qualcosa che, per sua natura, ha una struttura ben definita e delineata perfettamente: dunque la città di Percy, che era infinita, non poteva possedere né un centro né una periferia. Mi disse che proprio per questo motivo la sua città si estendeva senza sosta e si fondeva a quelle delle altre parti del mondo, e già questo era un buon motivo per ritenere il mondo casa sua. Ragionando sulla mia città, mentre Percy parlava, ricordo perfettamente di aver pensato che effettivamente io, i confini della mia città, non li avevo mai visti e che non sapevo nemmeno dove iniziasse o terminasse. Percy continuò nel suo racconto e mi disse che suo padre gli aveva detto che le persone vivevano nella loro città come le api all’interno dell’alveare. Ognuno aveva uno scopo e un ruolo preciso e non esistevano persone in condizioni tali da essere sentite come un “peso” da tutti gli altri. Tuttavia, c’era una grande differenza tra la società umana e quella delle api. Queste ultime infatti, vivevano in una struttura gerarchizzata che aveva il suo punto di riferimento massimo nell’ape regina. Al contrario gli uomini della città di Percy, erano guidati da tutti e da nessuno allo stesso tempo, ognuno era consapevole che il proprio benessere non poteva prescindere dal benessere altrui, dunque tutti si adoperavano affinché venissero raggiunti il progresso e la floridezza della città, tutti riconoscevano la propria responsabilità, tutti si sentivano ed erano fondamentali. Percy, mi disse anche che i cittadini della sua città erano guidati dalla “Concordia” e dalla “Armonia”, inoltre tutti erano legati da un rapporto di “Amicizia”. A quel punto, pensai ingenuamente di aver guadagnato un punto nel gioco, perciò esplosi gridando a Percy che, al contrario, nella mia città tutti vivevano in “Simbiosi”; Percy si incupì e, cercando di capire, mi chiese il significato di quella parola, ma la verità era che non lo conoscevo neanche io. Rimasi in silenzio e Percy probabilmente pensò che quella parola l’avevo inventata per vincere e fece finta di niente. Anni dopo, quando compresi il significato del termine, capii che era solo un modo per racchiudere in un’unica espressione la trinità di cui il mio compagno di giochi mi aveva parlato: “Concordia”, “Armonia”, “Amicizia”.
A quel punto decisi di parlare io e raccontai a Percy lo stretto rapporto che c’era a casa mia con il mondo vegetale e animale. Gli descrissi come nella mia città non si invadevano gli spazi degli altri esseri viventi dell’ecosistema costruendo abitazioni ed edifici utili agli uomini laddove l’equilibrio del mondo ne avrebbe pagato le conseguenze; gli descrissi come gli animali venissero lasciati liberi di circolare ovunque e come, essendo questi esseri intelligenti, non vedessero gli uomini come nemici, ma come coinquilini; gli parlai anche di come ognuno di noi avesse il divieto morale di utilizzare strumenti, fruttiferi per il mondo umano ma distruttivi per quello vegetale e terrestre. Percy mi ascoltava rapito e fui contenta di averlo colpito. Ma un secondo dopo fu lui a colpire me. Mi rispose infatti che lui non aveva mai sentito parlare di questa regola, sapeva però che purché l’uomo non risultasse così tanto determinante su un territorio al punto di devastarlo, si spostava periodicamente da un territorio all’altro della Terra, andando alla ricerca di luoghi naturalmente predisposti ad accogliere lui e le sue esigenze. Nel nuovo territorio, lui ed i suoi concittadini si impegnavano ad adattarsi a ciò che il mondo gli offriva e non tentavano in alcun modo di mutarlo per renderlo maggiormente utile. Le migrazioni di cui Percy mi parlò furono la scoperta più interessante di quella discussione e mi fecero prendere consapevolezza del forte spirito di adattamento che caratterizzava l’animo umano, e fui felice di appartenere a questa specie. Alla fine, dopo esserci assorti nei nostri pensieri, io e Percy abbandonammo quel gioco e non aprimmo mai più quella discussione che però è ancora perfettamente vivida nella mia mente. Durante il cammino di ritorno, tanti anni fa, in quello spostamento che durò più di dieci ore, ripensai molto a quello che ci eravamo detti e compresi che non aveva senso parlare di casa mia, casa di Percy, città degli altri… appartenevamo tutti alla stessa Terra che era casa e città di tutti, che ospitava gli esseri viventi nella loro totalità e all’interno della quale questi ultimi si muovevano costantemente. Avrei tanto voluto tornare indietro da Percy, il cittadino del mondo, ed esporgli la mia teoria, ero sicura che l’avrebbe apprezzata e condivisa.