Il 62 è un autobus alto-borghese. Con l’aria condizionata, pochi posti, ben dislocati e sorprendentemente comodi, è proprio un servizio d’élite. Infatti io, così vestito, semplicemente da me stesso, mi intono a fatica, anzi un po’ stono. Di solito lo prendo dopo il corso di giocoleria a via delle Botteghe Oscure, ma viene già da Borgo Pio, carico di sacerdoti, novizie, frati spesso sovrappeso, suore di tutte le età e statura che, come Matrioske, sembrano in attesa di essere inserite l’una nell’altra, preti frettolosi, calati per poco nel tran tran di noi terrestri, che intessono tra loro conversazioni di circostanza – accadono anche tra loro – “Caldo con il talare eh?” “è che non è che è caldo, ‘sto talare è umido…” La popolazione del 62 si contamina un po’ nell’attraversare il corso del re, Corso Vittorio, e arriva poi a Piazza Venezia già piuttosto eterogeneo. Poi con eleganza e senza essere scosso da nessuna tra le nevrosi che affliggono qualsiasi mezzo di locomozione che calpesti il suolo romano, dal monopattino al torpedone di 50 metri, percorre parte dell’altro corso, via del Corso o come dicevano i Romani, quelli antichi, via Lata, che poi così lata, larga non lo è neanche più, e poi, altezzoso e sprezzante, sale fino a piazza Barberini attraversando il Tritone. Sono le due e cinquanta. Alla fermata proprio all’inizio del “Tritone” sale un uomo di circa 50 anni, non vedente, con un bastone. La falcata per salire è decisa e netta. Nessun tentennamento. Gli cedo il posto. Lui si aggrappa al palo di plastica e fa per sedersi, ma quando l’autobus riparte viene catapultato in avanti; d’istinto io gli porgo il braccio e lui lo afferra. Un contatto. Decontestualizzato. Stonato, quasi come me su quell’autobus così formale e distante, imprevisto, perché, nel linguaggio “autobussesco”, contatto vuol dire fastidio, sudore, calca. Lui, con una presa fortissima di chi si sta proprio sostenendo, si appoggia e si tira su, gira la testa esattamente verso il mio viso e mi sorride, sussurrando un timido grazie. Io rispondo con un altrettanto sorriso a cui faccio istintivamente seguire un suono, un incerto, sottile prego. Poi mi siedo più o meno di fronte e mi metto a leggere: Manuale per piccoli giocolieri. Lo devo finire. Mi concentro su pagina 5, dove si spiega con che frequenza lanciare le palline una di seguito all’altra – sono problemi – ma non posso fare a meno di alzare lo sguardo continuamente, attratto da quell’uomo, dalla sua percezione dello spazio, dalla capacità incredibile del suo corpo di rispondere agli stimoli esterni. Lo osservo. Timidamente. La sua presenza mi conforta, rende tutto più umano. Ma la mia curiosità va oltre la borghese formalità dettata dal contesto. Lo guardo fisso, e poi alterno qualche occhiata al finestrino. Già. Fuori c’è Roma. Quando non sei di Roma, non riesci proprio a darla per scontata. Non è mai un sottofondo. Lei è sempre la protagonista. È sempre un’attrazione, un fuoco d’artificio, un innamorato da osservare, ad ogni diversa ora del giorno, sotto tutte le forme della luce, insieme a tutte le combinazioni del cielo. La devi guardare. Il 62 fa un giro veramente lungo e, proprio come la sua natura, per arrivare alla meta ogni tanto mi sembra che si perda in chissà quale avventura; appare ambiguo, sembra andare, come molti autobus, alla stazione, ma per arrivarci non si accontenta della scontata e direttissima via Nazionale, no, lui no, percorre strade eleganti, attraverso Piazza Barberini e sale su per via Bissolati. Ma a me piace perdermi. Ho sempre tempo per perdermi. E poi da quando mi sono trasferito qui, il verbo perdersi è diventato sinonimo di arricchirsi. Quando Roma la scegli, la guardi di più, anche solo per controllare che sia ancora lì. Come per riempirtene gli occhi, per compensare a tutti quegli anni in cui non sei stato parte di questo spettacolo. E mentre faccio tutti questi pensieri, di cui nessuno realmente lucido, mi ritrovo appiccicato al finestrino a cui mi ero, inavvertitamente, avvicinato. Un’altra frenata brusca, sbatto la fronte e mi distanzio un po’, anche per acquisire un minimo di credibilità e scorgo nel riflesso del vetro, opaco e unto, il volto dell’uomo con gli occhiali da sole che si era avvicinato e condivideva con me, forse senza saperlo, la stessa schermata, la stessa inquadratura. «La tanto discussa fontana der Mosè». Alzo gli occhi e la vedo. «Ma l’hanno finiti o no i restauri? See! Fa prima a cade’ er Colosseo». «Mi pare di sì» dico io intimidito. «È buona l’acqua fresca e la fontana è bella, con quel mostro di sopra però non è più quella. O tu, Sisto, che tanto tieni alla tua parola, Il nuovo Michelangelo impicca per la gola, questi so’ i versi de Pasquino appena fu inaugurata la statua der Mosè. Ma tu lo sai chi è Pasquino?». Io, con una certa ansia da prestazione, rispondo sommessamente «Sì». «La fontana fortemente voluta da Sisto V, er papa Tosto, Felice Peretti, che con la sorella Camilla, quella zitellona, ce andaveno a riempi le bottiglie d’acqua. Tiè guarda qua! Marmi antichi rubbati e reimpiegati dar Pantheon e dalle Terme de Diocleziano qua vicino, solo pe’ fa’ mostra della supremazia der papato sui romani. Ma chi ce crede! Ecco, lo vedi quer signorotto, barbuto, tutto infagottato, che regge nella sinistra sua come le dodici tavole (altro errore, che Dio non l’aveva ancora manco ideate) e colla destra indica le acque che se squarciano ar suo passaggio? Chi è? Chi è?» «Eh chi è ?..» ripeto… Ovviamente non lo so… «Te lo dico io, è er Mosè “ridicolo”, er mostro che diceva Pasquino, Mosè, quello famoso, opera di Lorenzo Sormani, un poraccio de scultore che s’è trovato a condivide l’anni con niente popo’ de meno che Michelangelo. In effetti, nun je uscì un granché: tozzo e grottesco, collo sguardo torvido, mette quasi paura». «È vero» dico io inebetito da tanti particolari e mi avvicino sempre di più al vetro «Ma è enorme! E poi ora è bianchissimo! Sembra fatto ieri…». «E invece era il 1589. Se chiamò la mostra dell’Acqua Felice, e mamma mia me ce portava sempre e me diceva che era la fontana mia. Infatti io me chiamo Felice e tu?». «Marco, piacere». Non riuscivo a staccare gli occhi da quel finestrino, da Roma, dalla fontana del Mosè e da Felice, che era sempre nella mia stessa inquadratura. Che, da svariati minuti, era, tra l’altro, sempre uguale. C’è un ingorgo, infatti, proprio lì, a piazza san Bernardo. Le macchine, incastrate tra loro, hanno tutte orientamenti diversi, una obliqua, una dritta per dritta, quasi che a volte non riesci a capire come hanno fatto a trovarsi così venendo dalla stessa direzione. «Tu Marco nun sei di Roma ve’?». «No, sono di Pescara… perché? Se vede?». «No. È che percepisco lo stupore che te fa’ il solo guarda’ fuori: o eri un bambino de 5 anni o sei forestiero!». Io mi do un tono, mi allontano un po’ dal finestrino a cui m’ero, distrattamente, di nuovo appiccicato e cerco di prendere un’aria più distaccata. Ci muoviamo, miracolosamente, e, dopo soli 15 minuti, siamo in via Vittorio Emanuele Orlando. «Ed eccole le terme di Diocleziano (da non confonde’ con Domiziano): enormi, le più grandi de Roma, 2400 vasche, 14 ettari. Ne vedi un pezzo mo’ che giriamo a via Cernaia. C’hai presente S. Maria degli Angeli?». «Quella con la meridiana?». «Sì! Bravo… Lì c’era il tepidarium delle terme. L’unico che ce mise le mani fu proprio l’omonimo mio, Sisto V pe’ costruì l’acquedotto suo, ’na cisterna romana, chiamata Botte di Termini, distrutta pe’ fa’ spazio alla prestiggiosa Stazione. La stazione Termini, tutti la nominano e nessuno la capisce». «Già» dico io. Un’altra frenata mi costringe a uscire da quel film in cui ero stato catapultato. Le terme – Diocleziano non Domiziano – i papi, gli acquedotti, le fontane, l’architettura, il potere. Mi guardo intorno e il 62, con la sua seraficità, arriva a Porta Pia, la oltrepassa, attraversa viale Regina Margherita e si mette in coda, come al solito sulla Nomentana. Felice si gira di nuovo verso il finestrino, lo abbassa faticosamente un po’, e fa un gran respiro. «Ma questo è er monumento mio preferito. Che maestosità, che poesia!». Io mi catapulto di nuovo dentro al vetro ma non vedo ruderi, nessuna chiesa, niente indizi di papi o imperatori. «Ma no, ma che hai capito! Parlo de lui!» Mi giro e non vedo ancora niente, solo palazzi anni venti. Nell’insieme una bella zona residenziale, ben collegata… «Mi commuove ogni volta il suo mistero. Per mesi passa la sua esistenza sotto forma de un ramo rinsecchito e l’uomo, combattuto, pensa sempre: Mo’ lo taglio, che brutto. Tutto secco! Ma poi dieci giorni l’anno se prende la rivincita sua. Tutto se tinge de un lillà mai visto, e fa l’aria intorno a lui dorce e colorata, tutto è rinascita, è vita, è splendore. Ne è valsa la pena fasse aspetta’ tutto un inverno. Fra un po’ tornerà ad esse’ rinsecchito dal caldo, ma vuoi mette’ ad esse’ un re 10 giorni l’anno?». Mi giro ed ecco apparire di fronte a me, dal nulla, un maestoso albero di glicine. Non l’avevo visto. Giuro che prima non c’era. Qualcosa mi stringe il petto. Rimango incantato. Biascico: giuro, prima non c’era. «Marco, scendi alla prossima?» io arrossisco, sorrido e poi penso: non devo scendere alla prossima. Ma scendo. «Sì. Scendo alla prossima». Felice cerca il mio braccio ed immediatamente lo trova. Prenota la fermata e mentre stiamo aspettando in piedi davanti alla porta il suo viso si gira verso di me. Io anche mi giro. Sento che in qualche modo ci stiamo guardando. Arriva la fermata. Scendiamo insieme come fossimo amici che si prendono per mano. Io continuo a guardarlo, impensierito, come in un sogno. Arrivati giù lui mi dice: «Essù. Nun ce pensa’. È che quando uno vede sempre, poi guarda solo quanno le cose je compaiono davanti. Per me è come un film, ricordi e sogni me scorrono davanti in continuazione. Sono pieno de immagini stupefacenti. Vedo quando voglio, tu solo quando apri l’occhi. E così, per me è più semplice recupera’ ’no sguardo arcaico, antico e la vita subito ritorna a esse’ un fatto miracoloso. Speriamo di rivederci presto. Ciao Marco!» Io annuisco e poi un po’ in ritardo rispetto al gesto, dico «Sì, certo». Ci separiamo. Sono ammutolito, mi sento stordito. Speriamo di rivederci presto. Rivederci. D’altronde non potrei mai affermare che lui non mi avesse guardato. Prendo il 62 tutti i giovedì e quel percorso ormai non è più lo stesso. A volte chiudo gli occhi, e mi immagino i colori, i palazzi, le finestre. Poi arrivo al glicine, anche quando è secco e scendo. Scendo sempre lì. E, ogni volta, tra me e me sussurro: «Ciao Felice, Arrivederci!».

