Acqua, acqua fredda. Confusione.
Voci, grida, tra queste una, la sua: «mama!»
«Fajah!» grido io e, prima che riesca a chiuderla, mi si riempie la bocca di acqua salata. Mi manca il respiro e mi agito cercando di rimanere su ma altre onde mi travolgono e io non ho mai imparato a nuotare e in poco tempo finisco le forze. Continuo comunque ad agitarmi ma non trovo modo di risalire: precipito. Mentre scendo, leggera e impotente, sento l’acqua nei polmoni che mi tira giù.
Di cosa mi sia successo dopo il naufragio del barcone su cui io e mia figlia stavamo viaggiando non so dire. Conosco però il motivo, le paure e le speranze che mi hanno spinta a salirci. Migrare non è stata una scelta facile, certo, soprattutto dovendo portare la piccola Fajah con me. Conoscevo i rischi di attraversare il mare, ma se ho scelto di affrontarli è perché conoscevo bene anche i rischi di rimanere su quella terra, la nostra cara terra madre: l’Uganda. Iniziare questo viaggio lasciando tutto ciò che avevo lì mi ha spezzato il cuore. Mio nonno diceva che i bianchi misurano la felicità contando le cose che hanno, ma io non avevo mai avuto tanto, eppure mi sentivo felice prima di partire, o meglio, prima che accadesse ciò che mi ha costretta a farlo.
Vivevamo nella periferia di Buyala lungo il Nilo bianco, in Uganda. Avevamo una casa piccola, ma a me non è mai dispiaciuto: ho sempre passato la maggior parte del mio tempo nei campi coltivati intorno, o all’ombra di alcuni alberi poco distanti da lì. I campi non erano solo nostri: c’erano altre casette di altre famiglie con cui condividevamo i terreni e il lavoro che richiedevano. Fin da piccola ho vissuto così: in simbiosi con la natura e con la comunità di persone con cui coltivavamo la terra. Il mondo vegetale che ci ospitava e di cui ci prendevamo cura era la cosa più preziosa per noi, questo ci accomunava tutti, anche se lo abbiamo scoperto solo dopo.
Mi ricordo che il nostro anno era scandito dai ritmi della natura, così come le nostre giornate. C’erano solo due stagioni: la stagione secca e la stagione delle piogge. Di mattina bisognava iniziare a lavorare presto, perché lavorare nelle ore più calde era insostenibile e tutti ci rifugiavamo nei nostri angoli d’ombra. Quando era il mio turno di lavorare ricordo che non vedevo l’ora di potermi riposare. Il lavoro nei campi è faticoso, ma non ho mai potuto dirlo davanti a mio nonno: «tu sei fortunata, Dali, perché hai la responsabilità di curare la tua terra. Ciò che la fatica ti toglie è un dono che le fai e tutto ti verrà restituito». È così che fin da piccola per me prendermi cura della terra è significato prendermi cura di me stessa. Crescendo ho sempre più compreso le parole di mio nonno e ho continuato a ripetermele da sola, anche quando lui non c’era più.
Quando è nata mia figlia ho interrotto il lavoro nei campi e Malik, mio marito, mi ha sostituita nei turni mentre io passavo il mio tempo dentro casa con lei. Abbiamo scelto il nome Fajah per lei, che significa «grazie»: è ciò che si dice a chi si è preso cura di te ed è una parola molto preziosa, di cui ho imparato il valore solo una volta grande. Ho sempre avuto poco, ma non l’ho mai contato. Non sapevo contare bene e non mi è mai servito, perché la felicità la sentivo comunque, grazie alle parole di mio nonno, grazie alla comunità e grazie a ciò che ci univa, la nostra terra.
Fajah era piccola quando le stagioni cominciarono ad invertire il loro corso. Malik, le volte che era stato in città, aveva sentito dire che in molte zone dell’Africa la natura era cambiata e sembrava fosse colpa dei contadini di quelle zone. «L’avranno fatta arrabbiare» concludeva lui quando a fine giornata ci raccontava dei fatti. Ben presto però quella rabbia si è diffusa in molte altre zone, fino ad arrivare a noi. La rabbia della terra ha mutato le stagioni e le ore calde delle nostre giornate sono aumentate. Un giorno abbiamo visto del fumo spargersi nel cielo oltre il fiume e Malik ci spiegò che stava bruciando una foresta. Quell’anno la stagione di secca è durata di più e il fiume si è prosciugato in buona parte. Dopo questo periodo di siccità, che ha quasi ucciso i nostri campi, è iniziato un periodo di inondazioni che inizialmente ci è sembrato positivo. Che la natura ci avesse perdonati? No, le abbondanti inondazioni distrussero ulteriormente il raccolto.
Ciò che speravamo fosse un’eccezione diventò la nostra nuova normalità e fu sempre più difficile procurarsi i beni primari. Malik andava ogni giorno in città per cercare di comprare del cibo, ma spesso tornava a casa senza nulla. Anche la comunità non esisteva più: chi in città trovava qualcosa lo teneva per sè e spesso tra le famiglie si rubava la notte. Malik una notte cercò di prendere alla casa più vicina il mais che aveva trovato, per Fajah. La nostra terra stava morendo, e noi con lei. E con noi la nostra dignità, per Fajah avremmo fatto di tutto.
Malik un giorno tornò dalla città con un viso preoccupato: «dobbiamo andare via» ha detto.
«Come andare via»
«Via da qui Dali, domani. Parte un camion dalla città presto e dobbiamo prenderlo»
«E Fajah?»
«Viene con noi».
Ero preoccupata, terrorizzata. In quegli anni avevo provato tanta paura nel vedere la terra impazzire, ma mai niente mi aveva spaventata come l’idea di abbandonarla. Sapevo che sarebbe stato impossibile continuare a vivere in quel posto e forse una parte di me desiderava morire con lui. Ho pensato queste cose la notte prima della nostra partenza. Non ho chiuso occhio quella notte e nel buio, tra i pensieri, sentivo solo il respiro caldo di Fajah. Sarei rimasta lì, se non ci fosse stata lei, questo è certo. Ma lei c’era ed era la cosa più preziosa che avevo. Non le ho mai contate, le cose che ho avuto. Mio nonno non mi ha mai insegnato a contarle, ma mi ha insegnato a prendermi cura e sentirmi grata per ognuna di queste. Desideravo donare a Fajah l’armonia e la bellezza del mondo che avevo conosciuto io, ovunque questa si trovasse. «Un’utopia» ho pensato lungo la strada, sentendo la fatica e non trovando mai riposo, ma non ho mai smesso di crederci.
Così siamo partiti. Ricordare i dettagli del viaggio è doloroso e difficile e ho perso la concezione del tempo. Lungo la strada abbiamo cambiato mezzi molto spesso e fatto infinite tratte a piedi. Arrivati in Libia siamo stati fermati, perché non avevamo abbastanza soldi per partire in tre. Malik ha provato a contrattare, Fajah avrebbe occupato poco spazio nel barcone, ma non c’è stato modo.
L’ultima volta che ho visto mio marito è stato sulle coste della Libia. Fajah piangeva e indicava il papà che diventava sempre più piccolo, e io con lei, ma senza che lo vedesse. Le ho detto con la voce spezzata che papà sarebbe arrivato, che doveva finire delle cose e poi ci avrebbe raggiunto.
L’ultima volta che ho visto Fajah è stato appena prima del naufragio. Annegando ho sentito la sua voce: «mama!». Ho fatto appena in tempo a rispondere «Fajah», prima che venissi risucchiata dall’acqua. Mia figlia aveva cinque anni, l’ultima volta che mi ha vista, poco prima del naufragio. Se avessi continuato il viaggio con lei saprei raccontarvi anche il finale della storia, ma non lo conosco. Se dal fondo di questo mare potessi risalire, leggera come sono scesa, potrei afferrare la bottiglia lassù e leggere la lettera che Fajah mi ha scritto e spedito dalla spiaggia:
“Cara mamma,
quando guardo il mare ti penso.
Vorrei che sapessi tutto di questi trent’anni, da quando, dopo il naufragio, una nave è venuta in nostro soccorso e ci ha portati sulle coste dell’Italia. Vorrei sapessi che papà ora è qui, in Italia con me. Quando l’ho rivisto per la prima volta, stremato, quasi non lo riconoscevo. Lui invece mi ha riconosciuta subito. Ora sta bene, mi racconta sempre di te.
Vorrei raccontarti di come sono diventata una scienziata e parlarti di tutto quello che ho scoperto riguardo la “crisi climatica”: è così che si chiama la rabbia della terra che ha distrutto i nostri raccolti quando ero piccola. Sarebbe bello anche spiegarti come in questi anni l’umanità sia riuscita a risolverla. Sono stati anni difficili, di paura e di instabilità, ma anche pieni di speranza e resistenza. In questi anni ho sempre custodito, dentro di me, i tuoi insegnamenti e racconti che mi hai fatto di quando eri piccola.
Cara mamma,
non ci crederai: il mondo che mi hai raccontato esiste ancora, o meglio, di nuovo.
Anche qua oggi esistono le comunità: si chiamano comunità energetiche solidali, ce ne sono tantissime. Noi però non condividiamo i campi, ma l’energia, prodotta da fonti rinnovabili, che usiamo per tutto. Inoltre, spostarsi è facilissimo. Io e papà viviamo in periferia ma raggiungere la città è semplice grazie al sistema di trasporti pubblici che è stato realizzato.
Sai mamma, anche la natura è rinata dopo questi anni. Sono stati avviati numerosi progetti di bonifica dei territori e il verde ha invaso le città: proprio dietro alla nostra casa c’è un boschetto e una zona d’ombra dove passo molto del mio tempo libero a riposarmi. Le persone stanno bene ora e nessuno è più costretto a migrare per sopravvivere, si viaggia solo per conoscere posti nuovi. La sostenibilità, che prima appariva come una faticosa abitudine, ora è la nostra bussola: ci sentiamo responsabili degli spazi che abitiamo.
Cara mamma,
non ci crederai: ho imparato a contare e qui ho tante cose.
Vedi mamma, ho imparato a contare, ma non tutto: ci sono delle cose che non si possono contare e ho scoperto che sono quelle più preziose, di cui mi prendo cura. Qui sono felice:
Fajah mama”