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Fantascienza
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Fascia 16-19
È così semplice

Apro gli occhi. Respiro. Una, due, mille volte finché la deliziosa sapidità dell’aria non mi annoia; finché non me ne abituo. Finché la luce di un flash non mi distrae. «Scusa» mormora Joe, tornando a stringersi nel sedile di fronte al mio, imbarazzata «avevi un’espressione così…» e intanto la polaroid fa capolino dalla fotocamera che tenta invano di nascondere mentre cerca disperatamente di trovare il modo di concludere la frase. Sorrido: Joe non è mai stata brava con le parole «posso?». Mi porge la fotografia, incapace di nascondere la lucente fierezza che le accende lo sguardo e le illumina il volto. Guardo lei, non posso farne a meno, guardo lei e nel farlo ignoro completamente l’immagine riflessa nel foglietto che le sto restituendo. Non so perché lo faccia. La sua ostinazione a voler immobilizzare qualsiasi momento, dalla più futile delle immagini ai momenti memorabili, è così deliziosamente egoista e allo stesso tempo antiquata. Non distolgo lo sguardo neanche quando, dallo zaino, fa apparire una cartelletta rossa di cui sfoglia e e ammira le pagine con ineffabile intensità, fino a trovare uno spazio bianco in cui riporre la sua ultima opera. Colgo i frammenti della sua collezione soltanto di sfuggita e mi costringo a soffocare una risata per nascondere la mia indiscrezione. È un dono, il suo: come se riuscisse a captare la bellezza in ogni angolo e, a pensarci, non la biasimo per aver deciso di volerla conservare, finché ne rimane sul mondo in cui vive. Noto soprattutto del verde, nelle fotografie: alberi alti, altissimi che trasudano ossigeno e che fanno ombra all’obiettivo, fili d’erba illuminati dalla rugiada in cui Joe dev’essersi immersa, data l’angolazione da cui ha scattato, e piccoli insetti aggrappati a foglie mangiucchiate, prive di insetticidi.

E ancora una panchina, ritratta in giorni e momenti diversi, occupata da persone sempre nuove che ridono con la testa gettata all’indietro o sono impegnate in discorsi di imperturbabile serietà, a giudicare dalle espressioni contrite sui loro volti, o che semplicemente si lasciano vincere dalla propria riservatezza e se ne stanno accucciati in angoli opposti della stessa seduta. Tutti sulla stessa panchina, protagonisti, nella loro diversità mozzafiato, della stessa bellezza di cui sono a loro volta circondati. «Muoviamoci» mi esorta, afferrandomi il polso mentre scendiamo dal treno «devi assolutamente vedere la luce che entra a quest’ora in salotto». Aumenta il passo e io mi lascio prima travolgere e poi trascinare dal suo entusiasmo. Stiamo correndo adesso: lei davanti e io dietro, come un peso morto che, mi piace credere, non si stancherà mai di trascinare. E io sono felice. Me ne rendo conto non appena questa sensazione mi si aggrappa al collo, facendomi bramare ossigeno e spazio. Mi accorgo di avere il fiato corto e la fronte madida di sudore soltanto quando ci fermiamo davanti al portone verde di un alto edificio decadente che Joe guarda con una nuova luce negli occhi. Saliamo le scale, due gradini per volta fino all’ultimo piano, per trovarci di fronte a una seconda porta che Joe spalanca con solennità e tiene aperta con la schiena mentre mi fa cenno di entrare. «Come se fossi a casa tua». Sono mesi che parla di questo appartamento. Lo fa come se non fosse una minuscola casupola deserta che sta cadendo a pezzi sotto ai nostri occhi. Mi trattengo dal tossire la polvere che sto respirando mentre seguo Joe verso un vecchio divano a due posti, uno dei pochi pezzi d’arredamento presenti in tutta la casa, di un’inguardabile fantasia a fiori che trovo subito terribilmente ridicola. Picchietta il palmo sul posto rimasto vuoto di fianco a lei, invitandomi a occuparlo, ma il suo sguardo non si scolla dall’enorme finestra rotonda che, priva di tende, illumina l’intera stanza e occupa gran parte della parete «non trovi che sia magnifico?» bisbiglia incantata. Prendo a giocherellare con la gommapiuma che sporge da uno strappo nella federa del divano, strappandone con le dita minuscoli pezzi che poi inserisco nuovamente all’interno.

È l’ultima volta che vengo qui e non voglio sprecare nemmeno un secondo. Me lo ripeto da giorni e adesso vorrei davvero non pensarci. Non vorrei pensare a nulla in realtà, eccetto alla luce del sole che usa suoi ultimi, esili momenti di vita per scaldarmi il volto e alla pelle di Joe, liscia e calda e fragile, contro la mia su un divano che ci permetterebbe più spazio, ma non ci riesco. Dev’essere per questo che comincio a piangere. Mi imbratto di imbarazzo, anche se so che non può vedermi, e più penso alle parole che sta dicendo e che io non ascolto, che non riesco ad ascoltare, e più una pesante ombra di angoscia mi schiaccia contro al divano improvvisamente rigido. In un altro momento sarei in grado di ripetere a memoria quel suo motivato soliloquio: parola per parola, saprei imitare, o più probabilmente soltanto scimmiottare, le inflessioni, le pause, le smorfie, così buffe allora e tragiche adesso, che le esplodono in volto mentre parla. Ma adesso la vedo soltanto muovere le labbra con magnetica e muta velocità. Ho immerso tutta la mano nella gommapiuma. La stringo mentre guardo il mio polso sbucare dallo strappo ormai irrimediabile sui fiori della federa. Stava andando tutto così bene. Parla del futuro, ora, con una lancinante, dilaniante, dolorosa eccitazione nella voce divenuta d’un tratto più acuta. Parla di progetti, migliaia di progetti che ha praticamente in pugno e che io non posso, non posso, dimenticare. E Joe, come se in qualche modo riuscisse a leggermi nella mente, scatta in piedi, imponendosi tra me e la finestra, e continua a parlare, con convinzione crescente, fino a che il fiato non le viene a mancare. Sfilo il visore un attimo prima che possa ricadere sul divano. So cosa succederebbe, a quel punto. So che mi basterebbe allargare le braccia per abbracciarla di nuovo, per sentirla di nuovo. Non proverebbe nemmeno a correre via; non questa volta. Dimenticherebbe, anche se solo per un attimo, la sua corsa a perdifiato per aspettare che io la raggiunga e nel frattempo sorriderebbe e io impazzirei e desidererei morire perché sia l’ultima cosa che veda. So che, allora, non riuscirei a lasciarla andare. Non sapendo che questa è l’ultima volta. Rigiro tra le mani il pesante casco che avevo indosso fino a un paio di minuti fa mentre lo schermo buio, di fronte a me, riporta la parola errore, che viene ripetuta anche dagli amplificatori agli angoli del soffitto, su uno sfondo blu che costituisce la mia unica fonte di luce in questa stanza spoglia e oscura. «Va tutto bene, lì dentro?». Respiro a fondo per riprendere controllo della mia voce «sì» rispondo, rendendomi conto di sussurrare «ho finito». Meccanicamente e senza pensare troppo a quello che sto facendo, raggiungo la reception alla quale una ragazza della quale non conosco che il cognome, inciso nella targhetta sulla sua camicia, sta sfogliando pigramente una rivista. Attendo che alzi gli occhi dal rotocalco prima di restituire l’attrezzatura. «Ci vediamo la settimana prossima?» chiede sorridente. Mi limito a scuotere il capo e a dileguarmi in fretta, prima che mi ponga altre domande che mi farebbero crollare. Di ciò che accade dopo vedo soltanto alcuni frammenti. Vedo la seduta vuota di un treno, una via che adesso percorro piano e un portone verde che mi dà il benvenuto in un edificio alto ma non più così decadente. Poi rampe di scale che salgo due scalini alla volta, un appartamento da cui da poco più di una settimana sono riuscita a far sparire gli scatoloni, un divano, di fronte ad una grande finestra tonda, rovinato nel mezzo da uno strappo sulla fodera a fiori e le parole di Josephine che mi si materializzano davanti non appena mi siedo. È così semplice. È questo che sta cercando di dirmi. Così inconcepibile che ancora non ce ne siamo accorti.

Ci siamo inventati il futuro per convincerci che il cambiamento sia qualcosa di lontano, che non ci tocca più di tanto. Siamo assopiti, narcotizzati, addormentati e continuando ad autoconvincerci che sia troppo tardi, che la rovina sia imminente e irrimediabile, ci siamo rassegnati alle bruttezze di questo mondo. Ed è così semplice perché anche se sì, può essere orribile a volte, può fare schifo e può sembrare un tunnel buio senza uscita e che fa paura, da dove altro potrebbe nascere la bellezza? Ci basterebbe aprire gli occhi, anche soltanto per un attimo, per accorgerci di quanto ci stiamo perdendo. Di quanto ci limitiamo a veder sparire mentre mentiamo a noi stessi e fingiamo di avere le mani legate perché «la fine è vicina e il degrado veloce». Qui si fermava a prendere fiato, si voltava verso la vetrata e allungava la braccia verso l’alto, come a voler intrecciare le proprie mani all’aria. Poi mi chiedeva, continuando a guardare fuori «sai qual è la parte migliore?». Anche io mi dirigo verso la finestra, fino ad esserne così vicina che il mio fiato prende a condensarsi sul vetro ad ogni respiro. C’è un parco, sotto di me. Un enorme parco pieno di panchine, persone e piante che Joe avrebbe adorato e questo lo so perché erano tra i suoi progetti. «La terra non ha mai smesso di cambiare», è la frase con cui ho iniziato a condividere il ricordo che avevo di Joe «ma forse è il momento che cominciamo davvero a farla girare per il verso giusto». Le sue fotografie, insieme ai monologhi sul divano, stanno facendo il giro del mondo, adesso, e più tempo passa più entrambi diventano una realtà concreta e nuova, facendo sì che la sua voce, così limpida e sicura, si unisse a quella di altre migliaia di persone con i suoi stessi ideali. C’è un parco, sotto di me, ed è lì che la immagino.

Joe che cammina avanti e indietro, che si volta verso il suo interlocutore e ride, erta in tutto il suo carisma, in tutta la sua esuberanza, con il simbolo sbiadito di Greenpeace stampato sulla maglietta e la macchina fotografica nella mano sinistra mentre ricambia i sorrisi che per sua natura attira.

Joe che mentre parla viene trasportata dalla sua stessa energia che la spinge a disegnare, gesticolando, la meravigliosa confusione della sua mente.

Joe che ha ancora fiducia nel mondo, nelle persone e in ciò che entrambi possono ancora diventare e, che da qualche parte, osserva una rivoluzione che in qualche modo le appartiene.

Joe che, prima di voltarsi e cadere tra le mie braccia risponde alla sua stessa domanda. La parte migliore è che noi possiamo correre più velocemente.

Ed è così semplice,

non trovi che sia magnifico?

questo racconto ha partecipato al concorso Fictionforfuture
Pubblicato: 7 Maggio 2023
Fascia: 16-19
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