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Fantascienza
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Fascia 16-19
Dodici anni

Avevo solo dodici anni quando sono scoppiate le prime bombe.

Urla, fiamme, devastazione ovunque volgessi il mio sguardo, mio fratello George aveva solo cinque anni, il suo pianto disperato era il rumore più straziante in tutta quella morte.

Non capivo ciò che stesse succedendo e non credo che lo capirò mai.

Ricordo di aver sentito stralci del telegiornale, che mamma e papà guardavano ogni sera, in cui giornalisti intimoriti parlavano di “ecosistema perduto” o “grave crisi ambientale”, ma non sapevo cosa tutto ciò significasse.

Sapevo che c’erano periodi in cui pioveva così tanto che lasciavo nel giardino una piscinetta di gomma affinché si riempisse di acqua piovana per giocare con George e fingere che fosse estate, abbiamo smesso solo quando gli sono comparse delle strane macchie rosse sulla pelle, e abbiamo buttato la piscina perché puzzava di chimico.

Ma sapevo anche che c’erano periodi in cui quella stessa acqua con cui riempivo la piscina era così poca che le piantine grasse della mamma appassivano e morivano. Pensavo Come fanno i cactus a morire? Non ci sa proprio fare col giardinaggio! 

Non potevo sapere che non fosse colpa sua, avevo solo dodici anni, e per me il clima era solo un noioso argomento di geografia.

Non sapevo cosa la professoressa di scienze intendesse quando borbottando a denti stretti parlava di colpe e di responsabilità non prese, e nemmeno perché ci dicesse che la sostenibilità è importante. Che significa “sostenibilità”? Nessuno me l’aveva mai spiegato.

Un giorno, entrando in classe, io e i miei compagni trovammo una sconosciuta.

«Dov’è la professoressa Manson?» chiese il mio amico Clive, la professoressa di scienze non si assentava mai!

«In congedo di maternità, aspetta un bambino, io sarò la vostra supplente» disse la sconosciuta con un sorriso teso e occhi vitrei.

Ricordo che pensai Come si può avere un bambino se non si sta con nessuno? 

Avevo solo dodici anni e tutti ne sapevano più di me, io ascoltavo ubbidiente e mansueta, ma notavo gli sguardi preoccupati di mamma e papà quando mi dicevano: «Hope, amore, va tutto bene.»

Parlarne adesso è strano, mi fa rendere conto di come fossi cieca, soprattutto a causa della mia ingenua e innocente età.

Non guardavo il telegiornale, né la televisione, non leggevo, non mi informavo, e soltanto molti anni dopo ho scoperto che nella città dove vivevo, la squallida e tetra periferia che insieme a mio fratello e alla mia famiglia chiamavo “casa”, non c’erano biblioteche vere. Solo piccole librerie fornite di pochissimi titoli, prevalentemente libri di cucina e fitness, non un libro di botanica, di storia, non c’erano neanche le parole crociate che ho imparato ad amare.

A dodici anni non mi sarei posta il problema. Perché leggere un libro di cucina? Mamma cucina già benissimo, amo il suo polpettone e non sono neanche costretta a mangiare le verdure, tanto non si vendono. Non nutrivo un grande desiderio di iniziare ad allenarmi, ero magrolina di mio… forse un po’ debole, forse un po’ troppo magrolina, ma niente di irreparabile.

A modo mio ero felice, una bambina di dodici anni che non era costretta a mangiare verdure, non studiava storia, giocava ogni giorno col fratellino perché non c’erano mai compiti assegnati. E magari un giorno la professoressa Manson avrebbe portato a scuola il suo bambino!

Mi sembrava di vivere il periodo più bello della mia vita. Come potevo sapere che non mangiavamo le verdure perché l’acqua con cui le coltivavano era tossica? Che non studiavamo storia perché i ministri pensavano fosse una materia “deviante”? E come potevo sapere che non avrei mai più rivisto la mia professoressa?

Avevo solo dodici anni, non potevo saperlo. Coglievo unicamente le spiegazioni preconfezionate, le informazioni basilari, e ingenuamente ero convinta bastasse. Non potevo sbagliarmi di più.

Quando scoppiarono le bombe io dormivo abbracciata a George. Aveva fatto un incubo e si era rintanato nel mio letto, trovando rifugio in me. Ero sua sorella maggiore, nel mio immaginario dovevo proteggerlo.

E allora perché quella notte non ci sono riuscita?

Abbiamo sentito subito l’esplosione, mamma si è catapultata in camera mia mentre papà prendeva i cappotti e le scarpe.

«Dobbiamo scappare!» urlò mia madre e George iniziò a piangere.

«Perché?» chiesi io improvvisamente sveglia.

«Stanno distruggendo tutto» mi rispose lei prendendo me per mano e George in braccio.

Trovammo papà affacciato alla finestra col viso contratto dal dolore, quando ci vide infilò le giacche a me a mio fratello e scendemmo in cantina.

Da quando avevamo una cantina?

I rumori esterni si sentivano ovattati. In quello che poi papà definì come “bunker” c’erano coperte, cuscini e del cibo in scatola.

Mamma diede da mangiare a George una lattina di mais comprata qualche anno prima, stranamente non scaduta, così si calmò.

«Che sta succedendo, mamma?» chiesi io con un filo di voce, gli occhi velati di lacrime.

Lei scambiò uno sguardo con papà e lui annuì duramente.

Così conobbi tutta la storia.

Negli ultimi due anni l’esercito e il governo avevano avviato una missione di “potenziamento genetico”, servendosi di medici e scienziati avevano cercato la formula perfetta per migliorare forza, attitudini, riflessi, in modo da avere soldati migliori e più efficienti.

Questo potenziamento altro non era che un processo di mutazione sfuggito di mano che, dimostrandosi errato, infattibile ben oltre i limiti della pericolosità, era stato cancellato.

Non tutti ne erano felici, c’era ancora chi sosteneva fosse quella la soluzione per un mondo migliore, per un’umanità migliore.

E così questi pseudoscienziati avevano riversato tutti i “farmaci” nell’oceano e sotto forma di gas per diffondere il più possibile la loro formula.

Io ascoltavo inorridita.

Erano morte centinaia di persone solo per contatto diretto con l’acqua, altre avevano sviluppato malattie e infezioni mai sentite. Quelle stesse macchie rosse sulla pelle di George avrebbero potuto tramutarsi in un male maggiore.

Il governo aveva cercato di limitare i danni, ripulire le acque e disintossicare l’aria, ma aveva rinunciato. Nessuno voleva assumersi le responsabilità di quel disastro. Improvvisamente le parole della mia vecchia professoressa di scienze acquisivano senso.

Quelle bombe erano l’atto estremo. Distruggere una città morta, inquinata e insalvabile.

Gli abitanti ne scontavano il prezzo, mentre i politici erano fuggiti.

«Quando tutto sarà finito ce ne andremo. So che soltanto a venti chilometri da qui alcuni ribelli hanno creato una comunità pacifica, in cui si vive bene. In cui vivere non è una benedizione, ma il normale corso degli eventi.» Papà fece una pausa «E poi lì ci sono le verdure» aggiunse con una risata.

Ci vollero due notti, non so come facemmo a rimanere vivi.

Muniti di provviste e infagottati di sciarpa e cappello iniziammo il nostro cammino verso questa terra di pace e prosperità.

George e papà non ci sono mai arrivati.

Mentre camminavamo un edificio ancora in fiamme è crollato, una delle macerie stava precipitando su di me e George mi ha spinto via.

Papà quando l’ha visto è corso verso mio fratello, ma la maceria ha preso in pieno anche lui.

Non li abbiamo nemmeno seppelliti. È stata colpa mia.

Io e la mamma ci impiegammo una settimana per arrivare alla comunità, eravamo stanche, assetate e vittime di un dolore più grande di noi.

Non avevamo perso solo la  nostra casa, lei aveva perso suo marito, suo figlio. Io avevo perso mio padre, nessuno avrebbe più inventato fiabe e nomignoli buffi per me, e mio fratello. Avrei dovuto proteggerlo. È stata colpa mia.

Ci accolse una città satura di vita, brulicante di persone e ricca di colori.

Il profumo di fiori aleggiava nell’aria, nella piazza erano riunite delle anziane che ricamavano e sorridevano, con a fianco i mariti che parlottando tra loro giocavano a carte.

Sorridevano, sembravano felici.

Mi veniva da vomitare.

Ci accolse il “sindaco” di quella cittadina chiedendoci la nostra storia, mamma aveva la voce rotta di pianto, così parlai io.

Riuscimmo a strappare una lacrima persino a quell’uomo ottimista e sorridente e scoprimmo che molti altri della nostra città avevano cercato in quel luogo un rifugio.

Portarono me e la mamma in una grande casa, io andai in un bagno e lei nell’altro.

Lavai via tutta la cenere, la terra e lo sporco, ma non riuscivo a distinguere l’acqua calda dalle lacrime sul mio viso.

A cena mangiammo carote gratinate, peperoni ripieni, patatine fritte e una torta alla zucca. Non avevo mai mangiato tanta verdura, né bevuto tanta acqua in vita mia. Ricordo che quella sera mi addormentai esausta, ma neanche il sonno portò via l’opprimente senso di colpa.

Da allora sono passati dieci anni. Io e mia madre continuammo la nostra vita lì, lei – scopertasi accanita lettrice – fondò un club del libro e si trovò molte amiche.

Io continuai a studiare e continuo a studiare. Voglio diventare un medico e voglio che nessuno ammanti mai più l’orrore di scienza.

George mi manca ancora, se per mia madre lui è uno spettro del passato, per me è una ferita ancora sanguinante.

Questo posto è perfetto sotto ogni aspetto, ci sono posti in cui ritrovarsi, una natura rigogliosa, l’aria è pregna di amore e stabilità.

A dieci anni imparai la parola “utopia” e visto il mondo in cui sono cresciuta ero convinta che questa di adesso lo fosse, che questo paesino sereno e vitale fosse qualcosa di irrealizzabile.

Ma “utopia” non è una vita di pace, non è la felicità. La vera utopia è la distruzione che abbiamo portato noi nel mondo.

Ora lo capisco.

Ora non ho più solo dodici anni.

Pubblicato: 18 Gennaio 2023
Fascia: 16-19
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