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Fascia 19+
Da Roma a Roma

«Aoh..?»
«Dimme.»
«Famo sega?»
«Ho la verifica di greco.»
«Appunto.»
«Daje.» 

Esco fuori dal letto ancora assonnato dopo una dormita di sole due ore. Prendo al volo le chiavi, un cornetto per non morire di fame e ho già la mano sull’acceleratore a tavoletta, il casco slacciato sulla testa giusto perché è in tinta col motorino, una sigaretta accesa giusto perché una mano basta a manovrare. Amo la dolcezza del risveglio in quest’angolo di paradiso, la soffice alba di una periferia che si desta in punta di piedi per non fare rumore, con il cuore rosso fuoco del sole alle mie spalle e il tappeto violaceo sopra la mia testa di un giorno che muove i suoi primi passi. «Scendi!». «Arrivo…». Lo aspetto sotto casa sua gettando stranito un occhio al semaforo che è verde e poi rosso, alle macchine che passano con qualsiasi colore, e mi chiedo allora a cosa servono quei pali policromatici se poi nessuno li considera. Tendo infastidito un orecchio al chiasso di questo quartiere che a me sembra il centro della città, ma solo perché io vengo da ancora più lontano e i clacson mi stordiscono, i motori scoppiettanti mi confondono. Provo a distrarmi leggendo qualche insegna pubblicitaria, ma troppo caos, troppi rumori, il mal di testa, quasi la nausea. «Eccomi». «Aho, ce l’hai fatta, eh?». «’Nnamo». «Dove?». «’Ndo te pare». Lui non ha il casco perché è andato il giorno prima dal barbiere e allora non può certo rovinare quel capolavoro. Così montiamo in sella e prendiamo la Nomentana, gremita di automobili anche a quest’ora come la sera prima e come sarà dopo. Costeggiamo quelle imponenti mura di cui non ricordiamo il nome ma dove alla fine dell’Ottocento qualcuno ha aperto una breccia per entrare nella città. Poi ci ritroviamo oscurati dall’altissima cinta del Muro Torto, che storto lo è davvero, e a destra cerchiamo di scovare fra gli alberi di Villa Borghese qualcuno che fa il solito jogging delle sette: quei ridicoli maratoneti dalle tute spaziali li riempiamo di sfottò, tanto chi può fermare la mia Vespa-Ferrari mentre zigzago fra una Peugeot e una Fiat, una Citroën e una Renault? «Stiamo andando a Cola di Rienzo?». «Sì». «Quanto hai?». «Cinque euro». «Non ce compriamo manco ’na Goleador». «Vedremo…». Adoro il Lungotevere perché mi ricorda un’avenue newyorkese, immensa, e mi sento immenso anche io come quella strada e quel ponte che attraverso in bilico fra i due binari del 19. Percorro la via sorvegliata da vecchi palazzi che mi affascinano per l’opulenza, in contrasto con il piccolo quartiere di qualche migliaio di anime dal quale provengo. Adoro questa zona che mi parla di un passato magnifico e sfarzoso, come mi parlano i cornicioni bianchi e i portoni di legno. Quegli atri regali mi invitano a entrare, ma io accelerando rispondo a malincuore di non avere tempo. Il parcheggio non è altro che un palo della luce cui lego la mia scheggia rosso fuoco. Il primo bar nel raggio d’azione è il prescelto per il secondo caffè. Lì ci chiedono se il caffè lo vogliamo espresso, lungo, americano, macchiato schiumato, freddo, shakerato. Io che voglio soltanto un cavolo di caffè come Dio comanda non so cosa rispondere, per cui chiedo: il primo che ha detto: e bevo quello che il barista ha voglia di preparare. «Centro?». «A fa’ che?». «Boh…». «Daje!». Col mio bolide però non ci posso più entrare, così aspettiamo l’autobus per raggiungere la metro, e ogni minuto che passa cresce un’unità di noia. Raggiunte le venti unità di noia sfidiamo la pigrizia e alla metro arriviamo a piedi, maledicendo l’Atac in ogni lingua. La metro è affollata come piazza San Pietro quando c’è l’Angelus, perché so’ dieci minuti che c’ho messo le radici qua borbotta una vecchia signora; salire e scendere è una delle fatiche di Ercole, eppure su quel vagone che assomiglia più a un carro bestiame ti capita di incontrare quel vispo anzianotto che ha ancora un cuore giovane quasi quanto il nostro e che ti racconta di quando era pischello lui e delle nottate con gli amici trascorse a zonzo per il centro, facendoti sentire nella Roma degli anni Sessanta. Tornati faticosamente in superficie è impossibile serbare rancore nei confronti di questa città che mette a dura prova la tua resistenza ogni giorno, perché quando esci dalla stazione e trovi il Colosseo a sorriderti, magari con un raggio di sole che trapassa un arco e ti bagna diretto il viso, non puoi non sorridere con lui. Qualche parolaccia ai cinesi con le Nikon che pensano a fotografare il bar abusivo piuttosto che il monumento alle loro spalle, qualche fischio alle tedesche mentre cercano disperate e seminude l’abbronzatura sotto un sole che la Merkel ancora non ha comprato, una passeggiata saltando fra i sampietrini che mamma mia ha detto qualcuno voleva togliere, ma che tolti quelli avrebbero levato a Roma la sua anima, e poi un angolo di prato dove finalmente ci fermiamo e ci godiamo il pomeriggio. Dopo qualche ora ancora la metro, ancora l’attesa, la lotta e finalmente la mia Vespa. «Che ore so’?». «Boh». «’Nnamo al Mac e poi biretta?». «Ce sto». Il Lungotevere è uno spettacolo della natura, perché il sole se ne frega dei clacson e delle bestemmie da una macchina a un autobus, da un autobus a un motorino, e scende serafico sotto forma di immenso cerchio infuocato nelle bionde acque di quel fiume in cui Clelia si era tuffata per fuggire dall’accampamento etrusco, ma che se ci si fosse gettata adesso, sarebbe riemersa con tre gambe e quattro topi. Il Muro Torto è ancora storto, le mura imponenti che costeggiamo non hanno ancora un nome, ma forse quella breccia mi sa che l’hanno aperta nel 1870; e poi la Nomentana, che non cambia mai e sono perfino sicuro di riconoscere la targa di qualche macchina già incontrata. Gli autisti sono stremati dal lavoro o dal traffico o dalla famiglia o dalla crisi e così nessuno strombazza o impreca, salvo le eccezioni, e io con un occhio guardo la strada per evitare le voragini dell’asfalto e con l’altro mangio il cuscino colore della viola appena colta che fluttua su di me; un cielo in lutto per salutare un giorno che muore e io mi sento triste insieme a lui, perché davanti a certe cose non puoi rimanere indifferente. Con una curva talmente a gomito da sentire il bitume sussurrarti nell’orecchio prendiamo il viale delle Regine, che in realtà non si chiama così ma viale della Regina Elena e viale della Regina Margherita. Tuttavia una diventa l’altra in un punto che non conosco, per cui io e mamma lo abbiamo ribattezzato così. La volata al fast-food segna ufficialmente la fine del nostro portafogli congiunto, ma il salvadanaio emergenza alcool nel vano della Vespa conta esatto i soldi per due birre. Cosi attraversiamo di nuovo la consolare beccandoci l’élite della bestemmia capitolina per essere passati col rosso, mentre le luci della Sapienza sulla destra rischiarano la strada come se fosse giorno. Io con un occhio guardo la strada per evitare e con l’altro il palazzo grigiastro che un giorno sarà la mia facoltà universitaria, se riuscirò a varcare la porta del liceo con almeno uno striminzito sessanta. Uno dopo l’altro ci fermano ragazzi che comprano e vendono droga: hai fumo? Vuoi fumo? senza soluzione di continuità, e a ogni mio no cresce la voglia di rispondere sì. Ma poi mi perdo tra le fitte risate della piazza. Seguiamo le note dei bonghi e poi il rock di una band fino alla piazza successiva. E ancora le fisarmoniche di zingari-aedi, le nacchere di fiammanti spagnoli sul ciglio del marciapiede e la metallica sinfonia di una Smart sparata a tutto volume, lo stornellatore che suona al bar all’angolo, troppo pieno per poter applaudire quella melodia che vibra dritta nel cuore con la forza di un terremoto. Più passeggiamo spensierati per le stradine di quel quartiere dove Roma vive, più scopriamo che a brindare non siamo solo noi e chi intona stonato Roma non fa’ la stupida ci invita nel coretto. Urliamo così tanto da perdere la voce e poi ci uniamo ad altri e altri ancora, fra un bicchiere di birra che non puoi rifiutare e lo scambio di numero con qualcuno che non conosci e mai conoscerai. Ma nella foga del momento non ci pensi alla privacy, perché senti di appartenere alla stessa grande famiglia di sconosciuti, accomunata dalla stessa passione che brucia tra una sistole e una diastole, un sol uscito male e un sorso di cocktail: Roma di notte, analgesico di ogni preoccupazione, pozzo inesauribile di una gioia. «Aoh?». «Dimme». «Hai presente il mese scorso che dopo il concerto abbiamo preso la tangenziale?» «Embe’?». «E meno male che i vigili non ce stanno mai. M’è arivata ’na multa de duecento euro».

Pubblicato: 1 Giugno 2021
Fascia: 19+
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