…goccia, goccia, goccia, urlo, goccia, goccia, goccia…
Comincio a camminare, lentamente, con cautela, e pronta a tutto; ero cristallo, resistente e allo stesso tempo così fragile da «piegarmi» al più minimo e delicato tocco.
Ero pronta, il mio corpo, i miei muscoli, contratti, duri, ma allo stesso tempo «flessibili» alla minima pressione, e pronti a sciogliersi dalla morsa pungente del timore, immediatamente, al primo e minimo sfiorare, della mia aria, del mio spazio, di me stessa, del mio corpo, con qualsiasi oggetto o essere estraneo.
Tenevo gli occhi socchiusi e le labbra serrate come incatenate tra loro senza il minimo accenno a schiudersi neanche per un minimo e insignificante motivo, che in qualche caso, forse poteva costarmi caro.
Era notte fonda, e se anche non lo fosse stato non mi avrebbe scosso nulla.
Ho perlustrato tutta la zona, è deserto, non c’è anima viva, niente, nessuno… forse l’unica cosa di vivo sono gli alberi della molto probabilmente finta boscaglia, che ho osservato attentamente ondeggiare in una danza tanto sconnessa quanto ritmica, delle scolorite fronde; avevo osservato la strana coreografia dall’inizio fino alla fine, senza mai fermare lo sguardo troppo a lungo su uno stesso tronco.
Tic, tic, tic…
Silenzio.
Bip, bip, bip…
Urlo.
Un frastuono, un rombo, un ronzio, luce immensa, calda, gialla, arancione, rossa, calma, densa; incandescente; e non era l’unica cosa a esserlo: la mia pelle formicolava, scottava, fumava, si stringeva, si rilassava, si contorceva su se stessa e ritornava al suo stato originario, alla sua quiete per così dire.
Io, immobile, annaspavo, fumavo, bruciavo, mi contorcevo, avevo dolore.
Ero immobile, incapace di muovermi, ma io non ce la facevo a stare ferma, senza essere libera.
Mi dimeno.
Cattiva idea, la morsa si stringe, il dolore aumenta e brucio: ho solo peggiorato la situazione. Inutile riprovarci.
Incomincio a contorcermi, prima senza una logica, poi cerco un nuovo ritmo, lo trovo, devo seguire la mia pelle, il suo contorcersi.
Calma piatta. Tutto cessa improvvisamente.
C’è silenzio. Dura per un po’ non so quanto di preciso.
La morsa ricomincia a stringere la sua presa, questa volta verso il basso, ho capito cosa vuole, vuole che io mi pieghi, non gliela do vinta, è nella mia natura.
Penso sia tutto finito, provo a rilassarmi; c’è silenzio, troppo silenzio; all’inizio è come una dolce ninna-nanna dopo un po’, una frustrante delusione.
Rimango ferma.
Sento qualcosa bagnarmi il volto: una goccia.
Alludo al pensiero che sia una lacrima, dopo tutto sono sempre viva, sono vera, è di norma che pianga, anche inconsciamente per tutto il dolore provato.
Un’altra goccia, un’altra lacrima goccia di rugiada, infastidisce la quiete asciutta del mio viso.
Annuso l’aria, c’è un odore strano, non è sudore, non è calce, non è legno, è un odore ferroso; così non riuscendo a usare le mani, essendo certa di non poterlo fare dopo i vari tentativi, devo provare con qualcos’altro, accenno a tirar fuori un minuscolo pezzetto della mia lingua.
All’inizio rimango folgorata, non ci credo, ho capito cos’è quell’odore e cosa sono quelle gocce.
Altro che rugiada o lacrime, il liquido con cui stavo avendo a che fare, era tutt’altro, era più denso: sangue.
Speranza di vita, faro di speranza, vampiresca bevanda, desiderata, bramata, adorata dalla vogliosa e assetata domanda che è la mia vita.
Intanto, in un tempo anonimo…
Sono in silenzio.
Un asciutto, ruvido, rimbombante silenzio.
Un fruscio di vento accarezza indifferente la mia schiena; prima una volta, poi due ma alla terza, la carezza si trasforma in uno spintone, come a invitarmi a non fermarmi.
«Forse mi conviene fare ciò che » penso.
Così smuovo la marmorea immobilità in cui stazionavo e mi dico di muovermi.
Allora ci provo, ma non ci riesco.
Io voglio muovermi, voglio andare in incontro a… a… all’ignoto; sono sicura che voglio? Sì, lo voglio. Quindi, allora muoviti! Niente non ce la faccio. Pensa… pensa… Ho un’idea! E no, non ce l’ho più! Anzi mi sento abbastanza stanca, sbadiglio, troppo stanca… credo che dormi… «C’è qualcuno?» odo leggermente un flebile suono, lo sento lontano, basso ma vicino, sento un corpo vicino.
Provo a capire chi sia. Inutile. Non ne ho la forza.
Però c’è qualcuno, no, meglio dire qualcosa, non posso essere sicura di cosa sia.
«Adesso ti aiuto io. So che non riesci a rispondermi; lo so che non sai chi o cosa sono, però ti scongiuro, fidati di me, ti prego fidati; e sappi che tra poco potrai parlare. Devi aspettare solo che arrivi. Ricordati, fidati di me e me soltanto. Anche se proveranno a parlare altri, tu resta focalizzata sulla mia voce, lo so che la senti, ascoltala e segui solo questa. Fidati.»
Quella voce. Non mi ha spaventato a morte sebbene senta ancora i brividi. Però qualcosa mi dice di dovermi fidare, nonostante sia contro il mio modo di agire.
Spero solo di non piangere lacrime da coccodrillo.
Solo che questa volta si parla di me, quindi il minimo è morire, un suicidio in pratica, ma il peggio sarebbe rimanere qui immobile.
Quindi mi fiderò di quest’essere.
«Ok, credo che tu mi abbia capito. Ora inizia. Ricorda: segui la mia voce e fidati.»
Bom. Un rumore sordo.
Qualcosa mi diceva che non fosse stata un’esplosione, e infatti come a smentire il dire «dopo il sereno vine la tempesta» così fu.
Di nuovo, bom.
Questa volta vedo, posso vedere, finalmente.
Però vedo me: allora è uno specchio. Perché? Perché mi sta accadendo questo?
«Guardami!» sento urlare.
Sobbalzo. È una voce diversa, cupa; aspetto di sentire l’altra voce.
Non eseguo quell’ordine, poi sento un sussurrato «guardalo»: è la voce, allora vado.
Ciò che vedo è strano.Vedo una me, incollata con i piedi a terra, che mi guarda con occhi pieni di confusione e dolore. «Adesso fa tutto quello che ti dirò!»
E la voce: «Vai! Se vuoi ti tengo la mano». Sento qualcosa toccare la punta delle mie dita, quasi solleticandole.
Posso farcela.
A un certo punto quella voce cupa, si addolcisce, troppo, è così melodiosa, voglio così tanto ascoltarla che se smettesse credo impazzirei.
Poi quella voce si divide in tante altre fino a quando non diventano incomprensibili, fastidiose, ululano, sibilano, urlano; voglio che la smettano, sto impazzendo, le orecchie fischiano, si struggono, mi stanno implorando di tapparle; ci provo ma le mie mani sono andate.
Ci riprovo e come in preda a una crisi di nervi scoppio in un pianto liberatorio, e le voci continuano, e io piango, provo a emettere urli ma sono sordi, non hanno suono, ma la gola brucia; e ora sento qualcuno piangere e un altro ridere di gusto, e penso e ripenso e cerco di calmarmi.
Nulla, la vista annebbiata e quello specchio di diamante riflette ancora la stessa immagine: la me immobile con ogni arto del corpo voltato in un punto diverso, come tirato da catene inesistenti, ma io mi sto muovendo, credo, e quell’espressione fissa, mi guarda negli occhi confusa, spaventata.
Quella scena sta diventando inquietante, raccapricciante.
«Urla» mi dice la voce roca di prima in tutto quel frastuono.
Ci provo, non ci riesco.
«Cosa c’è? Non ci riesci? Su forza, urla!» mi dice con tono di scherno.
E ritento. È inutile. E la voce ride. E io mi dispero.
Poi qualcosa afferra saldamente la mia mano e non so con quale forza e quale voce, urlo.
Urlo come un’anima dannata e la voce dolce di prima dice: «Vai, urla più forte!».
E le voci continuano, tutto continua.
E posso giurare di aver visto una lacrima sul mio volto riflesso in quel maledetto specchio.
Poi in un istante, dove la mia mano viene stretta più saldamente, urlo talmente tanto, talmente forte, da arrivare quasi agli ultrasuoni, che lo specchio di cristallo si crepa in mille pezzi, lasciando i suoi resti a giacere sul pavimento, e se non fosse stato per quell’essere lo sarei stata anch’io.
Mi prese al volo dai fianchi e mi strinse tra le sue braccia, con una tale sicurezza che come se mi avesse detto «ora puoi piangere» e infatti fu ciò che feci: mi abbandonai al più triste dei miei pianti.
Poi dopo molto tempo passato così, immobili, per così dire, l’essere mi fece alzare il capo, come a doverlo guardare negli occhi, che però non vedevo e mi disse quasi come cantando un pezzo di chissà quale poesia: «Ricorda la mia voce. Fidati di me, Kate. Quindi guardami negli occhi, che di me non vedrai, ma dimmi cosa vedi. E se vedrai il paradiso perfetto che va a pezzi, sappi che l’inferno non è uno stile, non è un luogo non un tempo né un popolo, è solo l’inizio di una preannunciata battaglia che tu vincerai».