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Fantasy
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Fascia 16-19
Città sulle nuvole

Ho sempre sentito, dentro di me, il bisogno di correre. Un bisogno così forte, da portarmi ad accelerare il passo ogni volta che potessi – come se un vento, mi spingesse con forza in avanti da dentro. E forse, queste folate, erano più reali di quanto credessi. Vogliosa della pace, che fin da bambina, osservavo nella morbidezza delle nuvole. «Lo sai che alla fine dell’arcobaleno, c’è una città?» la piccola vocina di mia sorella minore mi echeggiava nelle orecchie come un tintinnio, ricordandomi di un episodio ormai distante un paio d’anni nella mia infanzia: a quando avevo appena 12 anni, e lei, 8.

Ricordo, che in un misto tra disperazione e speranza, le chiesi di che parlasse, e lei, rispose: «alla fine del lungo lungo arcobaleno, c’è una città, è piccina ma è bella, non lo sapevi? Ofelia! Guarda che è molto bella» ed io, insistetti «ma dove l’hai sentita questa?» le chiesi, venendo poi tristemente a scoprire, che la sua altro non era se non una fiaba. Il mondo non mi piaceva affatto. Troppo violento, troppo aggressivo, troppo giudice del diverso. Di tutto ciò che non seguisse il “normale”. Ed io ero la prima ad essere giudicata. Senza però, che nessuno lottasse per me – esattamente come adesso io mi affaticavo a fare – da mia routine, sui social media. E così, il mio ciclo iniziava: scorri, clicca, leggi commenti, litiga, segnala post. Un ciclo, tossico, e non solo per me. Ma un ciclo che ritenevo bisogno per la mia salute, ed esattamente durante lo svolgimento quotidiano di questo primo step della mia routine… mi ritrovai a spalancare gli occhi come mai prima d’ora. Mai e poi mai mi sarei aspettata di vedere – un immagine tale come quella del post che mi piombò come una cascata di pallottole di grandine in testa, nel mio feed giornaliero di Twitter. Era un immagine, che sebbene a me estranea, fu più familiare che casa. L’intestazione dell’immagine leggeva: «pronti alla prossima avventura? Voi credete nell’esistenza dei Nuvoliani?» ed il nome mi fece fischiare le orecchie, tanto quanto quella foto, che illustrava a pieni colori (bensì sfocati) un essere umano, che pareva camminare sulle nuvole – ai margini di una piccola bolla, con quelli che dietro, parevano palazzi fuori fuoco. Le mie mani possedute, si mossero per investigare autonomamente. E fu come se in un istante l’universo avesse curato la mia profonda solitudine – portandomi a conoscere una serie di ragazzi, che mi parvero quasi dei cloni.

Ognuno di loro, e ne eravamo cinque, aveva interessi simili ai miei. Eravamo, Lucas Battisti (15 anni), Giada Cristalli (13 anni), Amanda Morini (14 anni), Sebastian Zinga (16 anni), ed io, Ofelia Sinistrelli (14 anni). Ognuno di noi, orientato verso lo scoprire i misteri dell’universo, e fui svelta, per una prima volta in vita mia, e fare amicizia. A conoscerli, e conoscere così i loro piani. Nello specifico uno, quello di ricerca di una città utopistica: la città nella bolla di idrogeno. Non ci pensai due volte ad aggiungermi alla ricerca, al pianificare la mia migrazione, e quindi, racimolando i pochi soldi che avevo, decisi di spostarmi dalla lontana Toscana… giù fino a Napoli, Pompei. Dove decidemmo tutti e cinque di incontrarci – ognuno di noi con una scusa diversa. La mia? Una mezza verità, dissi ai miei, che bisognavo di incontrare un’amica passata. Arrivata a destinazione, mi fiondai come un proiettile nella braccia di Lucas, era ormai qualche mese che noi due, avevamo intrapreso una relazione. «Dobbiamo dirigerci alla costa!» esclamò Sebastian, determinato come non mai. «E te che ne sai?» Gli rispose di botto Giada, guardandolo storto. «Jade, guarda che io le mie ricerche le ho fatte. Combaciano solo lì le coordinate. Quindi zitta e seguimi, che io sono il più grande qua».

Quindi come degli anatroccoli smarriti, iniziammo a seguirlo. Camminando, e camminando, fino a sentire i nostri piedi cedere. «Ma siamo arrivati?!» Iniziammo un po’ tutti a lamentarci. «Ma non è che ci hai portato a sperderci?0» chiese Amanda diffidante, che venne zittita da un sonoro «SHHHH!» la richiamò Sebastian, mettendole un dito sulle labbra «guarda…» disse, puntando ad una zona nascosta sulla costa da un recinto metallico e fin troppa vegetazione. «È il posto della foto.» Sorrise con superiorità, fianchi, fiero di se. Io di mio, spalancai la bocca senza parole, stupefatta. Godendo di quel silenzio, che però, fu solo apparente e momentaneo. Giacché venne interrotto da un rumoroso, sonoro, e straziantemente acuto ronzio. Che sentimmo tutti, e che non fu frenato dalle nostre mani sulle orecchie. Che vinse sulle nostre menti, abbattendoci un blur nero, che ci schiantò al pavimento.

Ci risvegliammo solo dopo alcuni giorni – e questo lo seppi solo grazie, allo smartwatch di Lucas, che mi confessò , di aver passato le ultime due ore a scuotermi nel tentativo di svegliarmi. «Cos’è successo? Lucas, dove mi trovo?» chiesi io frastornata, ricevendo un risposta, un forte abbraccio. «Meno male che stai bene!» Mi venne risposto in modo straziante «gli altri li hanno già presi! Guardati attorno Ofelia, ci siamo arrivati! Siamo nella città!». Lo spinsi via da me per guardarmi attorno, ero circondata da verde. I palazzi, alto ed infiniti, erano verdi. Le strade di terreno battuto, erano perfette, e bordate ai lati da marciapiedi le nuvole. Non vi erano automobili – bensì gli umani si spostavano fluttuando su piccole turbine d’aria. Mi alzai in piedi, sbattendo via la polvere con le mani dai miei pantaloni cargo verdi. E presto, venni approcciata da una donna. Lei fluttuò, in mia direzione, come una farfalla. Ci portò sulla sua nuvoletta, che espandendosi, garantì spazio per tutti. Si presentò a noi, e io ebbi tempo di osservarla meglio. Si chiamava Ismilla, ed il suo corpo era adornato di una tunica blu chiaro con due distintivi sulle spalle. Un uniforme, che a me parve del loro governo. Ci portò presso un palazzo –ben simile ad un castello antico, con una struttura simile, a quella del maschio angioino. Dall’alto discendemmo a corte, dove lei salutò un abbraccio, un uomo e una donna con due corone identiche. Anch’essi, poi, vennero a noi incontro con un abbraccio. La donna prendendomi poi per mano, e iniziando a camminare, verso un lungo corridoio tappezzato di immagini. Con al di sotto, date, che narravano una storia antica. Iniziata, dal 77 dopo cristo. «Ci siamo rinchiusi, lontani dal mondo, quasi duemila anni fa…vedi, il mio popolo, aveva previsto la grande esplosione, ma nessuno ci diede retta. Fu come se il popolo volesse la morte» spiegò puntando alle trapunte ai nostri lati, una delle quali illustrava sangue e lava «ci esiliarono sulle coste, e noi, pregammo alle nuvole… che scendendo su di noi, ci diedero una casa. «A mia insaputa, quel corridoio, andò a salire gradualmente, e arrivati alla fine di esso, vi era un enorme tenda verde. Che la donna, andando a tirare, aprii rivelando che adesso eravamo sulla torre più alta del castello. Un punto da cui si vedeva l’intera città. «Io, Regina Ismilla Trentesima, guida della città di Nubibus, vi accolgo formalmente nel mio immenso regno. E quindi, osservate la vostra nuova casa! Miei cittadini…» disse, imponente ed autoritaria, voltandosi poi a noi, con uno tra goi sguardi più dolci di cui adesso ho ricordo. «..ogni domanda è accolta» e così , stappò quella giara traboccante che era la mia curiosità. Non esitai a chiedere di quel luogo,  scoprendo quasi immediatamente che era vero. Era un utopia.

Loro, avevano risolto ormai da secoli, ogni problema. Vivevano in una società, che poneva capi e cittadini, sullo stesso piano. Ismilla mi spiegò come, una volta nati, ognuno proseguisse una scuola comune. Con l’obiettivo di scoprire la propria dote. Questa prima scuola – chiamata scuola della scoperta – non aveva età o durata precisa. Terminava solo e solamente una volta scoperto il proprio talento… da lì, poi si veniva smistati in scuole specifiche. Vi erano architetti, artisti, chimici… ognuno sceglieva il proprio lavoro per piacere, non curante dei soldi, giacché ogni salario era uguale. In quel luogo, il piacere diveniva lavoro. Garantendo non solo la felicità, ma l’utilità, equilibrio, e importanza di ogni singolo cittadino. Le case erano tutte uguali – alti palazzi con balconi aperti. Di porte, ce n’erano, ma raramente con lucchetti. A causa della ricchezza equilibrata di quel popolo, nessuno sentiva il bisogno di darsi ai furti. La città, era poi inglobata in una bolla di azoto. Con la sua propria atmosfera. I Nuvoliani non avevano mai sviluppato tecnologie a uso di carburanti fossili, bensì avevano ingegnato un metodo per spostare particelle di vapore acqueo in giro. Utilizzando quindi nuvole per muoversi nelle città, e per garantire tramite energia cinetica, elettricità ed altre energie necessarie.

Essendo poi chiusi in una bolla, non erano mai stati in guerra con altri popoli. Erano persino privi di pistole – ed ormai da tempo avevano abolito i coltelli, mangiando solo ed esclusivamente con le mani. La loro dieta era costituita da frutta e vegetali, modificati per essere ricchi in ferro e vitamine. Non vi era poi una singola religione, ognuno, aveva la propria. E ognuno veniva rispettato per ciò, la tolleranza, era all’ordine del giorno. In quel mondo, non esistevano differenze. Quel posto, mi sembrava perfetto. Abbastanza da accettare quella sua folle proposta – quella di lasciare la mia famiglia per vivere presso gente a me estranea, ma ben più simile a me, che gli italiani a cui ero abituata. Presto cambiai vestiario, infilando una tunica verde pastello… identica a quella di ogni altro cittadino. E presto, iniziò lì la mia vita. Assieme a Lucas, e Sebastian. Gli altri, realizzarono che per loro, la famiglia era più importante di qualunque altra cosa. Al tempo, quel loro abbandonò fece male. Non riuscivo a capirlo, perché scegliere guerre, litigi, dolore e sofferenza? Pensai ciò, finché solo a distanza di mesi, realizzai un orripilante verità: la perfezione era ben più noiosa di quanto mi aspettassi. «Non ti annoi?» Chiese a Lucas, il mio adesso compagno di stanza nella scuola comune. «Perché dovrei ?», «Senza litigi… mi sento triste». Realizzai ben presto di essere sola nella mia malinconia. Ma per me la felicità non esisteva senza la sua gemella opposta: la sofferenza. A distanza di giorni da quella mia realizzazione, mi diressi quindi, al palazzo dell’ossigeno. Residenza della Regina Ismilla, e suo Marito, Re Alcise Trentesimo. A malincuore, dovettero lasciarmi andare, ed anch’io, soffrii di quella sofferenza. Ma una volta uscita dalla bolla.., corsi dalla polizia. E forse, l’abbraccio che più bramavo, mi fu dato solo allora, immerso nelle, lacrime di mia madre.

questo racconto ha partecipato al concorso Fictionforfuture
Pubblicato: 8 Maggio 2023
Fascia: 16-19
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