Una ragazza sta leggendo un libro seduta accanto alla finestra. La storia la prende tanto che non riesce a staccare gli occhi dalle pagine. Mentre segue con attenzione la vicenda che assorbe tutta la sua attenzione, sente un improvviso rumore che sale dalla strada. Sarà stato un incidente, si dice. E riprende a leggere. Ma subito dopo riecco un altro colpo. Il vetro della finestra trema. Perfino il libro trema nelle sue mani, ma lei non vuole a nessun costo staccarsi dalla pagina. Che importa di quello che succede in strada!, si dice. Al terzo colpo però è la casa intera che si scuote e traballa. E lei non può fare a meno di alzarsi e avvicinare la faccia al vetro. Quello che vede le fa cadere il libro dalle mani…
Silenzio.
Solamente il ruvido scorrere della penna sul foglio, il ticchettio della pendola sulla parete di fondo.
«Ricorda altro?» l’atmosfera ovattata dello studio attutì la mia voce.
«No, nulla». Una malcelata rassegnazione tradiva la risposta apparentemente netta, poi riprese: «Anche i precedenti analisti a cui mi sono rivolta…».
La fermai con un gesto della mano. Silenzio.
Riflettevo su ciò che avevo appena ascoltato sfiorando con la punta delle dita il bracciolo della poltrona, lo sguardo apparentemente perso negli arabeschi del tappeto.
«Ascolti. È pratica assai diffusa cercare di far ricostruire al paziente dettagli dei propri sogni che egli stesso non ricorda e non può ricordare, cosicché quella che è stata la proiezione onirica si vada a confondere con creazioni estemporanee della fantasia». Mi alzai dalla poltrona e scrutai fuori dalla finestra. «Io trovo, in realtà, che ciò sia controproducente». Calava la sera e gli ultimi raggi di luce filtravano attraverso le tende. «La voglio invitare, invece, a seguire un percorso, una sorta di revisione di tutta la sua vita alla ricerca della causa di queste fantasie. Spesso tralasciamo aspetti che ci sembrano insignificanti ma che forse racchiudono la chiave di tutto». Mi voltai quindi verso di lei che, seduta sulla poltrona, pur volendo mantenere una certa compostezza, agitava nervosamente la gamba accavallata in attesa della mia prossima domanda. «Ha voglia di parlarmi del suo matrimonio?». La gamba si arrestò. Sul suo volto, stupore ed irritazione. «Oh, ma certo,» mossi gli ultimi passi verso la poltrona «ha ragione». Mi sedetti e rivolsi uno sguardo eloquente alla sua mano sinistra. «Forse avrebbe preferito che avessi cominciato con un’altra domanda…».
«Non si preoccupi» disse solo.
Le lasciai dunque alcuni attimi per riordinare le idee su ciò che avrebbe dovuto dirmi di lì a poco, mentre, con un certo interesse, mi soffermai a studiare il suo viso. Rughe sottili, quasi impercettibili, solcavano il volto di una donna matura, ma molto avvenente che, sotto uno sguardo stanco e disilluso, nascondeva, tuttavia, ancora un autentico slancio d’entusiasmo nei confronti della vita.
D’un tratto mosse le labbra e iniziò a parlare.
«Eravamo giovani, dottore, forse troppo. Ma… così innamorati…» sospirò, scuotendo lievemente la testa. Quindi proseguì. Lo sguardo perso nel nulla, la mente impegnata a riesumare vecchi ricordi. «Ma poi, sa come va la vita…».
Annuii, comprensivo.
«Il problema è che indossiamo tutti una maschera. Forse per difenderci, chi lo sa. Purtroppo, però, a lungo and re, finiamo per ingannare solo noi stessi».
Questa volta, due insoliti occhi grigi intercettarono i miei, spogli di qualsiasi finzione, nudi nella loro più autentica fragilità. Fu solo un istante.
«Per cui, alla fine, andiamo avanti così, per inerzia, fingendo che tutto vada bene, che la nostra vita sia meravigliosa, ma poi, d’un tratto e fin troppo brutalmente, apriamo gli occhi e vediamo» si interruppe, in un’attesa carica di suspense. «E vuole sapere cosa ho visto? Me lo dica. Vuole saperlo?».
«Credo che lei voglia dirmelo».
«Mio marito mi tradiva da anni, dottore. Anni». Sul suo volto, una smorfia carica di amaro disprezzo. «E secondo lei cosa ho fatto di fronte a tutto questo?».
«Non saprei…».
«Nulla». Un lieve sospiro. «Non ho fatto nulla».
La guardai intensamente, stuzzicandomi la barba con la penna. «Lei ha figli?».
«Due. Un maschio e una femmina. Vorrei poterle dire di avere almeno con loro un rapporto sereno, ma purtroppo non è così».
La sua voce cominciava a tradire i primi segni di cedimento, mentre nella mia mente si delineava un quadro sempre più chiaro della situazione.
«Ascolti bene e mi corregga se sbaglio» parlai con lentezza, scandendo accuratamente ogni singola parola, con voce grave e decisa, come ero solito fare in circostanze simili.
«Lei vuole salvare il suo matrimonio, è evidente. È una questione di principio che va oltre il suo orgoglio. Oltretutto ama i suoi figli e, nonostante abbia un rapporto tormentato anche con loro, non vuole turbarli con un’eventuale separazione che porterebbe altre discussioni su un terreno già di per sé ampiamente compromesso. Allo stesso tempo, però, per quanto possa fingere di ignorare la situazione, è arrabbiata con suo marito che, oltre ad aver distrutto la sua famiglia, ha profondamente ferito la sua dignità di donna».
Silenzio.
«Mi avevano detto che fosse particolarmente in gamba, ma la sua perspicacia quasi mi spaventa».
«Cerco solo di fare bene il mio lavoro».
Per la prima volta, intravidi l’ombra fugace di un sorriso sul suo volto. Poi riprese, la voce densa di una rinnovata amarezza: «Non ho voluto crederci fino a che non l’ho visto con i miei occhi» sospirò profondamente, stringendo le labbra. «È stata una scena molto triste. Non immagina quanto» fece scorrere pigramente le dita tra i capelli corvini e riprese a parlare. «Avevo progettato la mia vita in base a lui. Certo, c’era anche il lavoro che, devo dire, per tutti questi anni, ha costituito la mia più grande soddisfazione, ma anche il mio più grande rifugio da tutti i problemi». Fece una pausa. «Forse proprio per questo sono stata così cieca. Ma sa, dottore… quando uno è troppo immerso nelle situazioni, non riesce a vedere più nulla. Bisogna di uscirne per avere coscienza della realtà».
La ascoltavo attentamente, non trascurando alcun movimento o espressione che potesse aiutarmi a decifrare la sua personalità, perché, pur volendo ostentare un certo contenimento, quella donna lasciava tradire un’agitazione interiore ormai sempre più manifesta. Il labbro superiore tremava ora impercettibilmente, mentre gli occhi bassi, ancorati alle mani che, noncuranti, erano intente a giocherellare con l’ultimo bottone della camicia, trattenevano a stento le lacrime.
«Amavo Guido. Amavo la vita che facevamo e il mio modo di essere insieme a lui. Amavo me stessa con Guido. Lui mi ha permesso di essere quella che volevo essere. Per me era tutto. E adesso mi tocca stare qui seduta a…».
Le lacrime, fino ad allora trattenute stoicamente, cominciarono a solcarle gli zigomi, trascinandosi dietro tracce di trucco. Alzò gli occhi al soffitto per contrastarne la discesa, mentre le porgevo compassionevolmente un fazzoletto.
«Non abbia paura di mostrare le sue debolezze. Non ha idea di quanto sia umano e, per questo, meraviglioso».
Quindi pianse. Questa volta liberamente, ma pur sempre nella più muta compostezza.
«Non posso accettarlo, capisce? Non posso!».
«In un modo o nell’altro, deve prendere in mano la situazione».
«Se solo fossi stata più presente!».
«Non può continuare ad ignorarla».
«Oh Dio! Non me lo perdonerò mai».
«Ascolti!» fermai improvvisamente il flusso di parole e pensieri. «Sa perché non si è accorta mai di nulla?». Silenzio. «Perché non ha mai voluto accorgersene».
Mi fissò interrogativa.
«Senza dubbio sarà stata molto presa dal suo lavoro, ma in fondo tutto avveniva sotto ai suoi occhi e lei faceva finta di nulla. La sua carriera decollava e suo marito si eclissava sempre più da lei e così i suoi figli. Nulla avviene improvvisamente, da un giorno all’altro. Lei dice di aver aperto gli occhi, finalmente, ma tutto ciò è necessario che si traduca in un’azione, capisce? Deve agire, una volta per tutte, o questa situazione rimarrà perennemente in sospeso. E non sono solo io a dirglielo, ma lei stessa. E qui mi riallaccio al motivo per cui, probabilmente, lei si trova oggi qui con me, in questo studio, e cioè a trovare un’interpretazione al sogno che ormai da tempo la tormenta e che, indubbiamente, sta cercando di dirle qualcosa».
«Sono io la ragazza…».
«Sì, lei è la ragazza. Ma si vede dall’esterno, così come vede la sua vita, rimanendo fluttuante sulla sua superficie edulcorata, troppo timorosa di doversi scontrare con l’amarezza della realtà. Vede… il fatto che lei sia così immersa nella lettura di quel libro, in cui probabilmente legge i crescenti successi della propria carriera lavorativa, dimostra quanto lei si sia estraniata dalla realtà dei fatti, ostinandosi a voler mantenere, nella propria mente, una visione ovattata della propria vita. Eppure di segnali ne ha avuti. Tre se vogliamo essere precisi. E certamente, al terzo colpo, ha dischiuso gli occhi rispetto a prima, ma non abbastanza da permetterle di distinguere nitidamente cosa che c’è oltre al vetro».
D’un tratto, il telefono sulla scrivania squillò.
«Sì?». Una breve risposta all’altro capo. «Fallo accomodare». Rivolsi uno sguardo fuggevole al polso e riattaccai. «Il tempo è tiranno. Credo proprio che dobbiamo salutarci». Mi sollevai dalla poltrona.
«La ringrazio, dottore». In un attimo, anche lei fu in piedi. «La ringrazio davvero».
«Si ricordi ciò che le ho detto» le rivolsi il più intenso dei miei sguardi e lei fece altrettanto. «Allora alla prossima seduta».
Ci congedammo con un’ultima stretta di mano.
Le aprii la porta e, non appena si fu voltata, vidi che si sfilava la fede.
«Alla prossima seduta» disse.